precari

Sto cercando di dare un senso a quest’anno scolastico, per questo il blog langue. Passo ore su Youtube e tra i siti didattici, metto roba in linea, penso, cerco di divertirmi e di non incazzarmi. L’anno scorso mi ci sono fatta un fegato a palla, a scuola, e sono arrivata a fine anno scolastico ingrassata di dieci chili, nel naufragio totale di tutto il trend virtuoso e salutistico che avevo portato avanti nei mesi precedenti.

Per forza: una esce da scuola con un senso di inutilità così profondo, con una sensazione di mortificazione così vasta (dai tuoi ministri che ti insultano in giù, ché l’esempio dall’alto è quello) da renderti totalmente inerme di fronte al bisogno di compensazione, di autogratificazione. Mi sarò scofanata cento cannoli alla crema, l’anno scorso, dal panettiere di fronte a scuola. Ci avevo l’ossessione del cannolo alla crema, avrei potuto uccidere chiunque tentasse di impedirmi di avventarmici sopra. E quindi ho preso dieci chili, sì. E non sono manco l’unica: pure la collega di diritto, uguale. Pure lei con le cose alla crema, me lo confidò a giugno. Deve esserci qualcosa che rimanda alla figura materna, nella crema, e la prof impotente e acciaccata dall’istituzione va e ci si avvolge dentro. Nella crema. Io propongo di pesarci tutte e di mettere giù uno studio sull’argomento: “La ricaduta dello stress scolastico sul corpo docente”. Sul corpo, sì.

E quindi adesso non voglio più affliggermi: sto riacchiappando il trend virtuoso, sono intenzionata a farmi del bene e, qualunque cosa succeda a scuola, io facciamo che me la cavo. E pure i miei alunni, se è possibile, e se non è possibile prendetevela con qualcun altro, non con me.

Noi ve lo abbiamo detto l’anno scorso, cosa sarebbe successo a settembre. A me succede, per esempio, che una classe che era di 18 persone è diventata di 35 (e non è detto che qualcuno non si aggreghi ancora) e ci sono colleghi con 40 persone in classe e nel serale si parla di una classe con 60 persone dentro. Nel frattempo, i colleghi che sono rimasti a spasso manifestano facendo i lavavetri davanti al provveditorato. Come la collega di educazione fisica dell’anno scorso, che si è presentata in classe l’altro giorno per salutare i ragazzi e ringraziare quelli che le avevano scritto durante l’estate ed era abbastanza commossa, ma è che il sistema nervoso è fragilotto, di questi tempi. E le ho chiesto cosa avrebbe fatto, quest’anno, e lei ha detto: “Siamo lì, laviamo i vetri delle macchine e manifestiamo. Del resto sono a casa, non ho nulla da fare e quindi tanto vale che stia lì.” I ragazzi zitti, nessun commento.

Lo avevamo detto, che sarebbe successo, quindi è inutile stare a ripeterlo. Però il sostegno per gli alunni con handicap è saltato, abbiamo una cattedra in meno e nessuna speranza di recuperarla e il risultato è che non ne possiamo accogliere più, di alunni H, e il primo giorno di scuola c’era questa madre disperata che non riusciva a fare accettare suo figlio in nessuna scuola e pure da noi non c’era posto, impossibile, e lei insisteva e qualcuno le ha risposto a muso duro di insistere anche con le altre scuole, che perché insisteva proprio da noi, ed io credo che si arrivi talmente in basso, certe volte, e a un tale livello di impotenza che imbottirsi lo stomaco di pelo diventa l’ABC della sopravvivenza.

Poi non è che si possa parlare più di tanto delle proprie scuole, nei blog dei prof, per evidenti motivi di opportunità e privacy e via dicendo. E quindi forse toccherebbe alla stampa venire a fare il conto di come se la passeranno, quest’anno, gli alunni portatori di handicap in queste classi spaventose e col sostegno tagliato. Non è che ci si possa aspettare che lo raccontiamo noi sui nostri blog. A noi tocca  lavorare, quelli che devono raccontare sono quelli pagati per farlo. Mi auguro che lo facciano.

Le cose veramente gravi, in questo nostro pudibondo paese, si dicono un po’ a mezza bocca. Ma se uno lo vuole capire, che la scure dei tagli colpisce i settori più indifesi della popolazione, lo capisce. Perché è ovvio che non si sta parlando  di licei classici, qui. Non è ovvio? Gli alunni H vanno per lo più al professionale, non al liceo classico. E, con loro, ci vanno gli immigrati e gli italiani con i percorsi scolastici più difficili alle spalle e, spessissimo, con famiglie meno presenti e/o meno in grado di farsi sentire di quelle dei licei del centro. Ed è in queste scuole, tra questi studenti, che abbiamo le classi con gli alunni uno sopra all’altro, e lì già fai fatica a fare lezione in condizioni normali, figurati così.

Tienila tu, la disciplina, in classi imbottite di gente dove non li vedi manco più, i tuoi alunni spersi dietro muri di teste dei compagni, e prova a farli concentrare, magari per due ore di fila, in ambienti sovraccarichi dove si soffoca e dove ogni brusio crea un rumore di fondo che si impone su qualsiasi cosa. Faglieli tu, dei compiti in classe che abbiano un senso una volta corretti e valutati, in mezzo a quella massa umana tra cui è ridicolo anche immaginarla, una sorveglianza affinché non si copi. Boh. Cosa vuoi che si faccia? Ci si porrà obiettivi ancora più minimi dell’ultimo obiettivo minimo che ci siamo dati, punteremo ai tre grammi di cultura generale. Non so, che altro si può fare? Dimmelo, voglio saperlo.

E poi, siccome sono anche umana, vorrei sapere con precisione di chi sarà la responsabilità laddove dovesse esserci qualche incidente nelle nostre classi dove, per legge, non potrebbero esserci più di 26 alunni ma, sempre per legge, non devono essercene meno di 27.

E, no, non sto delirando: è che la normativa sulla sicurezza dice: “Il massimo affollamento ipotizzabile è fissato in: 26 persone/aula”. E il Decreto Gelmini impone di “formare classi prime (di nuova formazione) con un numero minimo di allievi di 27.” E qua ci si può anche rassegnare, a vivere in uno Stato schizofrenico, ma si vorrebbe almeno evitare di finire in galera. Ché, come è noto, è tutta una gara a chi ci lascia più soli e a chi ci lincia meglio, quando succedono i guai.

Intanto, come dicevo all’inizio, io non voglio farmi del male. Sono una tizia che vuole essere felice, io, e di passare un altro anno ad avvelenarmi non ne ho voglia.

Credo di potere essere ragionevolmente felice se adotto una serie di accorgimenti, sul lavoro: distacco emotivo, innanzitutto. Moderato interesse antropologico per le curiosità del nostro ridente Paese e irrobustimento del senso dello spirito. Programmazione di ferro con obiettivi più ragionevoli che ambiziosi. Investimento economico personale per semplificarmi il lavoro (usare il mio pc in classe, le mie casse, i video che compro di tasca mia, le fotocopie che riesco a sgraffignare in giro etc.) ché, quanto meno, me lo risparmio in medicine. Uso delle tecnologie per facilitare le cose ai ragazzi e togliergli pure qualche scusa per non fare nulla: le fotocopie, metterle online affinché se le possano scaricare, e mettere online gli appunti, le schede, la roba che si somma al caos di classe e delle teste di tutti noi e che poi non trovano più, loro, e se la trovano non sanno più manco cos’è, ché il casino abbatte soprattutto i meno precisi, i meno organizzati, e mi sa che in rete riesco a mantenere più ordine che in real life.

Sto cercando di fare ‘ste cose qua, insomma, e mi sto persino divertendo, nonostante tutto. Spero di andare avanti così. Spero di non abbattermi, lungo l’anno. Di sicuro, altri dieci chili non me li posso permettere.