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E’ necessario che in questo torrido scorcio di estate – in cui chi c’era è partito e chi non c’è, e da veramente troppo tempo, deve ancora arrivare – io mi tratti con estrema cautela e lasci che le cose si prendano un po’ cura di me.

Maruja Torres (mi piace mettere il link a un sito di neoconi spagnoli che le strepita contro) è una giornalista del País che leggo ed amo da circa metà della mia vita.

In italiano è stato tradotto il suo Amor America, diario di un viaggio in treno attraverso l’America Latina che le invidio con tutto il cuore. E’ un bel libro, piacevolissimo nonostante la presentazione un po’ sbrodolante di un Pino Cacucci che dovrebbe cercare di essere meno retorico – magari gli farebbe bene leggere Maruja più spesso.

Non capisco perchè non sia stato tradotto il suo Mujer en guerra: da ex inviata presso parecchi degli scenari più conflittivi del nostro tempo, ha cose da raccontare che ci piacerebbe leggere, penso, e che ci farebbe anche bene sapere.
(Porca miseria: parla malissimo del collega Julio Fuentes, in queste sue memorie, e Julio Fuentes lo hanno ammazzato in Afganistan poco dopo l’uscita del libro. Conoscendola, credo che l’abbia presa con ispanico pragmatismo, e gli spagnoli che fanno i cinici sono tremendi.)
Racconta anche di qualche sua notte di sesso, sbronza, a Beirut: è serena accettazione della propria umanità, non certo esibizionismo, e mi chiedo quante giornaliste italiane lo farebbero. Io, poi, amo le donne così e ci mancherebbe altro: leggo Maruja e le altre da quando ero proprio piccolina, appunto, e in questo pezzetto d’estate sto regredendo fino alle radici della mia educazione sentimentale con tanto di Joaquín Sabina nel lettore cd, ché quando inizia Dieguitos y Mafaldas (ma si capisce?) mi ci spalmo sopra manco fossi burro.

Maruja sta invecchiando e, chissà perchè, lo documenta con ispanico realismo mettendo in giro foto in cui pare un mostro. Forse è perchè, bellissima, non lo è mai stata, e chi è abituata da sempre ad essere bruttina invecchia con meno fatica e forse ci si diverte anche un po’.
Oppure è perchè è spagnola, di nuovo, e la serena accettazione della propria umanità include anche il riconoscersi con indulgenza in ‘sta tizia spiritata che sorride sotto il magma informe dei ricci.
Non fa più l’inviata, le fanno male le gambe. Fa l’opinionista sul País, come sempre, e da un po’ si è data alla narrativa.

Ho preso Hombres de lluvia in biblioteca ma non mi interessava leggerlo come romanzo. Più che altro volevo sentirla parlare di Beirut, di nuovo. Ho ottenuto quello che volevo: il romanzo è gradevole ma non passerà alla Storia; ascoltarla sui temi che mi piacciono, però, è sempre una festa.

Certe volte una si chiude in casa, tra libri e musica, perchè le serve l’assoluta certezza di avere a che fare solo con le parole che le piacciono.

Maruja:

Sicuramente si burlavano della mia ingenuità, alle mie spalle, ma senza cattiveria. Perchè usavano le bugie come un prodotto ammorbidente, particolarmente raccomandato per facilitare il quotidiano sfiorarsi. Borotalco sull’epidermide delle giornate, l’esatto contrario della nostra spietata franchezza occidentale.
Qui non viene praticata – l’ho scoperto con piacere, quasi con fervore – la perversione della sincerità ad oltranza.
Sinceramente, ti dico la verità. Sinceramente, non ti amo più. Sinceramente, ti abbandono. Sinceramente, non ti ho mai amato. Sinceramente, ti pugnalo alle spalle. Muori, sinceramente.

Esiste, in questa parte del mondo, un altro tipo di teologia che pochi, in Occidente, praticano: quella dell’ambiguità. Forse sì, forse no. O, forse, può darsi di sì e di no. Sì, se ti pare. No, se non vuoi. Si mente per pietà, per pigrizia, per interesse. Tutti i giorni. Ogni ora, ogni minuto. Una grande mano bianca cancella misericordiosamente le bugie lievi non appena vengono dette, affinchè gli uni e gli altri possano continuare a mentirsi, affinchè la vita continui e tutti partecipino alla convenzione necessaria di intrecci secondari propri di un’opera di Mozart.

Joaquín:

Y jugar por jugar
sin tener que morir o matar,
y vivir al revés
que bailar es soñar con los pies.

(A la “muchacha de ojos tristes“, por si le roba una sonrisa.)