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La polizia si avvicinava ai feriti e chiedeva: “Tu! Sei egiziano o straniero?”
Se eri egiziano, ti lasciavano li’ a dissanguarti e passavano oltre, alla ricerca di stranieri da soccorrere.
“Chissa’ quanti di noi si sarebbero potuti salvare, se fossero stati soccorsi in tempo”, dice Walid.

E’ come sui giornali: cento morti di cui novanta arabi? Contano solo gli altri dieci, e solo loro hanno un nome.
Solo che qui l’hanno visto succedere dal vivo, hanno avuto la preparazione in diretta di cio’ che poi sarebbe andato in onda.

A Dahab non c’e’ davvero nessuno e, calma per calma, manca persino il vento e il mare pare un lago fermo, immobile, con tutte le sue mille possibilita’ di azzurro che mi incantano ogni volta che lo rivedo.
Una pace totale, li’ ad assorbire il racconto delle bombe.

Siamo seduti davanti a un the nel locale dove lui lavora e, davanti a noi, c’e’ tutta la piccola baia di Dahab. Li vedi tutti e tre, i punti dove sono esplosi le bombe.

“Ero qui che chiacchieravo tranquillo e si e’ sentito un boato, e ho visto la fiammata dopo il ponte, all’Al Capone. Ho pensato fosse una bombola del gas. E un attimo dopo, un altro boato e un’altra fiammata, sul ponte. E allora ho capito che ci stavano attaccando e l’ho urlato e, un minuto dopo, la terza bomba qui dietro. Uno shock, una paura da pazzi. Poi si e’ detto che in realta’ erano bombe piccole, ma erano le prime che vedevo nella mia vita, mi sono sembrate enormi.”

Comincio a vederla crescere, la gente di Dahab: Walid me lo ricordo praticamente bambino, con la testa rotonda e gli occhioni ancora piu’ rotondi che imparava a fare il cameriere, serio e con pochi fronzoli. Ora comincia ad avere la faccia da uomo e persino un accenno di pancetta da adulto.
Ed e’ diventato socio di Sami, il primo bimbo che conobbi a Dahab la prima volta che ci venni e qui era tutto talmente selvatico che, al Mohamed Ali, c’era una vasca per lavarsi da soli i panni ed era a fil di terra, ti dovevi inginocchiare a mo’ di lavandaia autentica. Ed io ero li’, impacciata e un po’ seccata come tendo ad essere davanti a tutti i lavori donneschi e venne ‘sto bambino – Sami, appunto – a dirmi, incuriosito assai: “Lei non si era mai lavata un vestito da sola in vita sua, vero?”
“Vero”, gli sibilai, e lui decise che eravamo amici.
L’ho visto crescere, anno dopo anno, e tirarsi su il ristorante praticamente con le mani, fare due soldi, vederseli portare via da un’egiziana che prima lo voleva sposare e poi no perche’ ne aveva trovato uno piu’ ricco, ma intanto lui aveva gia’ costruito mezza casa e si era quasi rovinato, e poi farne ancora e lavorare come un ciuco, 7 giorni alla settimana, e dormire sui cuscini del suo stesso locale e poi in un buco di stanzetta la’ sopra, e fare ancora soldi e sposarsi quasi per davvero, infine, con la sua tedeschina bionda e ben piu’ romantica di queste accortissime egiziane.

Sono l’unica cliente del locale, adesso, come quando venivo in quei mesi scemi: chesso’, febbraio.
Solo che siamo ad agosto.

“Ma come avete fatto a portare via i feriti, che’ qui ci saranno due ambulanze in croce?”
“Ci siamo mobilitati tutti, tutti hanno tirato fuori le macchine, i furgoni. Li prendevamo con i tappeti e tutto e li caricavamo nelle macchine, verso l’ospedaletto di qua o verso Sharm. Anche gli stranieri che vivono qui si sono dati da fare moltissimo, hanno aiutato dall’inizio alla fine, sono stati eccezionali”. E sorride mentre lo ricorda, Walid.
Cerco di immedesimarmi nella scena: “Ma scusa: sono scoppiate tre bombe una dopo l’altra. Non potevate sapere se ne sarebbero scoppiate ancora o se era finita. Non avevate paura ad avvicinarvi ai feriti, non vi veniva voglia di scappare verso la montagna, fuori dal paese?”
E lui: “Ma, sai, e’ stato tutto automatico: quelli che erano vicini ai luoghi delle esplosioni correvano per allontanarsi, e quelli che erano lontani correvano per avvicinarsi e aiutare. Uno non pensa, in quei momenti.”

E poi mi dice che hanno raccolto braccia e pezzi di carne dal mare.
E che c’era questa grossa testa staccata dal busto, sul tetto del Mohamed Ali, giusto sopra di noi.
Ed e’ ancora sotto shock, non gli e’ passata. Racconta e sta male.

A me sembra sotto shock tutta Dahab, per quanto cerchi di non darlo a vedere.
I negozianti ti chiamano per mostrarti la merce, come al solito, ma senza convinzione. Oppure non ti chiamano nemmeno e se ne stanno seduti la’. E’ morto il gioielliere vicino al Ghazala, e’ morto quello del negozio di souvenir li’ accanto. Sono passati tre mesi ma la senti aleggiare, questa cosa.
E i camerieri dei ristoranti che prima facevano da buttadentro e io non li sopportavo, coi loro: “Hello! Taliana? Where are you from?” e tutto il nefasto repertorio che peggiorava e si faceva piu’ invadente di anno in anno, e ora sembra svanito.
L’ho desiderato per anni, che svanisse, e che il turismo la piantasse di aumentare, nel mio paradisino personale.
Una deve stare attenta a cio’ che desidera, a volte.

Ci ho passato un pomeriggio, all’Al Capone, che e’ il posto che ha avuto piu’ morti.
Tutto ricostruito, tutto nuovo e scintillante.
Pure il ponticello: se non fosse per le lapidi poggiate li’ in ricordo della strage, diresti che non e’ successo niente: nuovo, uguale a prima.
Non rimane traccia di nulla, nulla che faccia pensare a una strage tanto fresca.
“Oh, subito hanno ricostruito. Appena la polizia ha finito i sopralluoghi erano gia’ tutti li’ con assi e martelli. Scherzi? In una settimana era tutto come prima, e’ stata la cosa piu’ importante per tutti. Cancellare quelle scene, ricominciare.”

Ci avrei giurato, che non avrebbero aspettato un attimo.
Come se li vedessi: sono veloci qui a ricostruire, ci mancherebbe.
Questo e’ un mondo ragazzino, non si pasce nei ricordi.
Assi, chiodi e martelli, e ‘fanculo alle bombe.
Una vorrebbe essere anche lei cosi’, tutto sommato.

E chi e’ stato, insomma?
Perche’?
Che senso ha avuto?

Cambiano le ipotesi a secondo dell’interlocutore e del tono di voce con cui vengono espresse: beduini del nord, strategia della tensione, interessi vari: le cose che si dicevano per blog quando successe.

Gli esecutori venivano da Al Arish, pare, e quindi lo sheikh dei beduini del sud e’ andato a chiedere spiegazioni a quello del nord, mi raccontano.
E lui ha detto che loro non c’entravano e che non ne sapevano niente e che, anzi, avrebbero aiutato quelli del sud e le autorita’ a trovare i colpevoli.
Poi qualcuno e’ stato arrestato: c’e’ sempre qualcuno che viene arrestato.
“I colpevoli, i mandanti?”, chiedo.
“Boh”, mi rispondono.

Ali, che e’ egiziano e non beduino, e’ assolutamente certo della colpevolezza dei beduini di Al Arish: sono troppo vicini alla frontiera con Gaza, dice, e il loro cuore accumula troppo odio nel vedere cosa succede li’ dietro. Ogni tanto qualcuno impazzisce.

“Quindi tu escludi che possa trattarsi di strategia della tensione, di interessi strani?”, gli chiedo.
E lui: “Oh, certo che no! Ma scusa, vorrebbe dire che il governo non ha pieta’!”, e sgrana gli occhi.

Ed io guardo questi occhi nerissimi che sembrano due laghi e mi chiedo quando la finiranno di stritolarmi il cuore, ‘sti ragazzi d’Egitto.
Non la smettono mai.
Continuano a devastarmi la coscienza con il loro assurdo candore, con l’ingenuita’ totale e assoluta con cui si fanno spazio nella vita.
Prima di diventare adulti e di imparare ad essere robaccia, come tutti gli adulti.