zenacs.jpg

Arranchiamo su per i vicoli all’una di notte alla ricerca di un locale aperto, sotto il diluvio universale, e per quanto lui sia ancora più zuppo di me – ché almeno io ho il cappuccio – ha ancora voglia di metterlo in scena, il rito dell’ospitalità alla genovese: “Guarda, queste sono le mura! Guarda, lì a destra è la chiesa Tal dei Tali!”. E una guarda e ride, su per la salita e col fiatone, nel buio pesto e sotto il diluvio, e ride perché non è solo la bellezza della città, lo spettacolo. Lo spettacolo – quello vero, quello che io ho visto solo qua e che si ripete sempre, ad ogni nuova uscita, ad ogni amico nuovo- è la gioia dei suoi abitanti nel mostrartela. Una gioia contagiosa.

Genova fatta di pioggia, l’ho già scritto, con un cielo che ha un campionario di nuvole e colori che non ti stufi di guardarlo e ti mette di buonumore, ché sotto un cielo così non ci si annoia, e il diluvio che viene giù un po’, poi smette e poi riprende, fa quello che vuole lui, e tu ti bagni ma non hai freddo, col vento di scirocco che sta lì per renderti la serata più allegra, e l’osteria con l’odore del legno e delle candele e tu che non ti senti mai estranea e – ma non c’è proprio dubbio – se in Italia bisogna stare, e fino a che toccherà starci, è a Genova che si deve vivere. E dove vuoi vivere, altrimenti?

La mia domanda di sempre: “Ma porca miseria, ma io non me lo spiego: come è possibile che non si sappia, fuori da Genova, quello che c’è qua? Ed è che nessuno parla di Genova, dico io. Ho vissuto per una vita sapendo a stento dove era. E’ un segreto che vi custodite assieme a pochi intimi, ‘sto posto. La gente mica lo sa, quanto è bella.”
E la risposta di sempre: “E nemmeno lo deve sapere, va benissimo così. Shhht. Ché sennò vengono a romperci le balle.”
E io: “Forse sì. Forse non lo scrivo manco sul blog, mi metto a custodire il segreto pure io.”
E lui (o lei, o loro, lo dicono tutti): “Mah, forse giusto un accenno, ma senza enfasi, senza sottolinearlo troppo.”
E io mi sento tutta alleata e complice, ché il corso di genovesità livello base lo voglio superare a pieni voti e mi sento bene, adottata.

“Dunque, per il pesce devi andare alla pescheria di via Prè, però la mattina presto. E sennò, se proprio devi comprarlo di pomeriggio, prova in Darsena. Fai finta di essere una turista e lo prendi dal peschereccio.”
Darsena?
Peschereccio?
E già mi vedo col mare sotto i piedi che indico i moscardini, ché mi ha spiegato quanto devono essere grandi e pure quanto costano, mi ha detto, e che poi devo stufarli con l’aglio e alla fine metterci il pomodoro a pezzi. I moscardini presi dal peschereccio, ma pensa che bello.
E quindi devo proprio dirlo, mica posso mentire: “Be’, ma sai: io un po’ turista lo sono ancora, tutto sommato” ma a lui non pare grave e del resto lo dicevamo un attimo prima, che ‘sta città ti assorbe e fai presto a sentirla tua: “E’ per questo che a me gli immigrati non preoccupano minimamente: abbiamo domato voi terroni, renderemo genovesi pure loro”.

Penso a ‘sto centro storico in cui abito, i vicoli, e penso che il primo giorno mi preoccupavano un po’, se rincasavo di notte. Tempo due giorni e già guardavo le orde di ragazzi che calano qui il venerdì sera con un pizzico di sdegno da residente: “Uff, quanti estranei a casa mia!”
La terron domata, si comincia così.

Ti risucchiano, i vicoli. Fai fatica a uscirne e, quando ne esci, non vedi l’ora di tornarci: comincia dalla prima viuzza, casa tua. Non hai bisogno di aprire la tua porta.
Che poi me li sono vissuti a fondo, diciamocelo: nei vicoli a pranzo e a cena per mesi, fino a quando non ho avuto una cucina: due giorni fa. Nei vicoli a collegarmi a internet, a conoscere falegnami e fabbri, a tirare tardi la sera. Ho reso casa un intero centro storico, mentre casa mia pareva un deposito merci di scatoloni, e la differenza tra il dentro e il fuori, tra casa e strada, continua a sfuggirmi ancora adesso che le mie quattro mura paiono vagamente più abitabili. E’ tutto casa, fino a quando non sbuco in San Lorenzo e cambia la luce. Un grembo materno, più che un quartiere.

Non so se arriverò ad amarla, ‘sta città.
Non è il Cairo, non mi mette al mondo, non mi emoziona fino al midollo, non mi cambia.
Ed ho la capacità di amare situata sul minimo storico, da un po’. Ho bisogno di controllare, al momento: amare non mi serve.
Però ci flirto, e prendo molto più di quello che do, a buon rendere. Genova generosa, che mi dà quello che le chiedo e viene fino a casa mia a farmi contenta. Che mi piove in testa con ciò che mi serve mentre sto lì ferma, pensa te, e smaliziata e gaudente come piace a me. Andremo d’accordo.
E me lo sento, il friccicorìo dell’essere contenta di stare al mondo. Ciao, toh. Un po’ invecchiata e un po’ indurita da un anno che ricorderò come si ricorda un cancro, ma la capacità di essere contenta è più dura di me, si vede. Vince lei, e meno male.