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A me il Terzo Mondo piace. Chi mi legge lo sa.
Darei un braccio per poterci tornare adesso, subito. Lavoro per riuscirci, spero tra pochissimi anni. Egitto, Eritrea, Etiopia: c’è una mia domanda di insegnamento in ogni scuola di questi paesi, sogno ad occhi aperti di andarci, e di restarci pure. Lì, ma anche nel resto dell’Africa, del Medio Oriente. Dimmi il nome di un Paese del sud, e vedrai che ci voglio andare.
Ovunque, vorrei andare, tranne che nella mia città.
Io sono di Napoli.

Non voglio andare a Napoli perché non ci potrei lavorare, per esempio.
Non è che sia paurosa: ho insegnato nell’Egitto centrale, roccaforte di tutti i fondamentalismi, e ci stavo una Pasqua. Rifiutando la scorta, a volte fuggendo letteralmente per seminarla. Mai voluta, mai avuta.
E non è che abbia paura della scomodità: ho preso i treni più pazzeschi, per andare al lavoro, e ho convissuto con scarrafoni di tutte le taglie e dribblato ogni avvelenamento alimentare possibile. Non scherza, quanto a spazzatura, nemmeno l’Egitto. Anche se temo che Napoli sia assai peggio.
Né temo di non essere rispettata dagli alunni: li mettevo sull’attenti quando volevo, i miei giovani Muslim Brothers e affini.
Però a Napoli no. A Napoli temo che non ce la farei: immagino che qualche padre mi verrebbe a sparare.
Non potrei insegnare a Napoli.

Perché i miei giovani fondamentalisti poveri in canna avevano dei valori e un senso di sé che prescindeva dalla classe sociale di appartenenza. E il mondo che ti circonda non ti abbandona da sola in trincea, nel Terzo Mondo che dico io.
A Napoli, se finisci nella scuola sbagliata, non puoi contare su un cavolo di niente. Nemmeno su un ABC valoriale di base. Su nulla, puoi contare. E sei solo. Sei anche del tutto inutile, che è la cosa peggiore.

Al Cairo, ci vivevo con 500 euro al mese e una festosa fiducia nel misterioso funzionamento del mondo che mi circondava.
A Napoli, non me ne basterebbero 5000.
Perché devi essere per forza danaroso, nella mia città. O, in alternativa, devi essere integratissimo. Integrato non basta. Ci vuole il superlativo.
Altrimenti soccombi. Non è un modo di dire: muori, proprio.

A Napoli devi pagare a peso d’oro ogni elementare servizio – che dico, ogni diritto – oppure essere il cugino di chi te lo eroga. Se riesci a pagare e ad essere anche il cugino, poi, è meglio.
Non puoi pensare di ammalarti e di cercartelo sull’elenco telefonico, un medico. E le persone normali non vanno in ospedale, a Napoli. Vanno in clinica, se appena possono. Io non conosco nessuno che sia nato in ospedale, per dire.
E io ho bisogno di poterci andare, in un ospedale, se sto male. Non posso permettermi di vivere a Napoli.

Al Cairo vivevo da sola, non avevo la macchina e andavo a spasso a tutte le ore.
A Genova faccio la stessa cosa, con un pizzico di prudenza in più.
A Napoli, prima o poi mi succederebbe qualcosa. Casa di mia madre è stata svaligiata una decina di volte, negli ultimi anni. Per dire. Ed io mi stresso, a stare nei posti violenti. Il Terzo Mondo che dico io è pacifico. Oppure c’è la guerra, che è una situazione chiara e tu sai, più o meno, come ti devi comportare. A Napoli no. A Napoli devi stare in guardia sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno.
Una fatica immane, trovo.

In Egitto, gli autobus passano. Saranno anche pericolanti, ma ci sono.
Io ricordo infinite e inutili attese, a Napoli. Non puoi contare sui servizi, devi essere autosufficiente. Lì sei finito, se non hai la macchina. Ed io non ho voglia di averla, quindi non vado a Napoli.

Non sono abbastanza furba per vivere a Napoli. Non voglio nemmeno esserlo: trovo che la furbizia sia un’intelligenza a corto raggio, e non mi interessa. Mi infastidisce, anche.

Non sono abbastanza povera per vivere a Napoli, ché non potrei vivere in certi quartieri e in certi contesti, ma non mi basterebbe il mio stipendio intero per affittare due stanze in un quartiere decente. Non sono nemmeno abbastanza ricca, quindi.
Non sono abbastanza raccomandata per farmi trattare bene, ma non sono nemmeno abbastanza sfigata da lasciarmi trattare male dal mondo.
Di conseguenza, a Napoli sarei un’abbonata fissa del travaso di bile. E chi me lo fa fare…

A me piace, la mia città. Credo che sia bellissima. Guardare giù da Trentaremi è stato, per tutta la mia infanzia, un’emozione assoluta, un piacere indicibile.
Di più, credo di averla cercata ovunque: in Spagna, in Medio Oriente, ovunque io abbia voluto vivere. E me la ricreo sempre: nel cibo che cucino, nella luce che voglio in casa, nel mare che vado cercando e nelle facce scure, nella decadenza di cose antiche che mi piace avere attorno.
Però non la sopporto, è un dolore costante. Come certi amori assurdi, infelici. Una lascia perdere, a malincuore. Io ho lasciato perdere qualche vita fa. Ma non mi è indifferente: mi incazzo, se solo ci penso. Non la sopporto, non mi piace nemmeno parlarne. Non so perché lo sto facendo.
E’ come una parente che non vorresti avere: una madre alcolizzata, un fratello tossico. Una città incurabile.
Un dolore.

Una mia amica, che di mestiere fa la storica, diceva che segue il destino di tutte le ex colonie, Napoli. Come certi paesi africani, appunto.
Bisogna considerarla un’ex colonia che non riesce a mettersi in piedi, entrare in questo ordine di idee.
Mia madre, invece, che si esprime a metafore, dice che è popolata sostanzialmente da gente che ha metà cervello umano e l’altra metà animale.
Sa essere ‘bastanza dura, mia madre, ma normalmente c’è del vero in quello che dice.
Esiste una Napoli – quella che Bocca definisce ‘plebe’ – che la condizione umana l’ha attraversata da tempo, è andata oltre. Dove, non saprei. Non ho nemmeno molta voglia di saperlo.

Della mia infanzia a Napoli, ricordo i “rattusi”. Un “rattuso” è uno che mette le mani addosso alle bambine, e Napoli ne è piena. A livelli che sfiorano il nonsense. Le mani addosso in autobus, i “psss, psss” in strada, la macchina che affianca il pullmino della scuola e il conducente ti guarda e sillaba: “Lo vuoi vedere?”
E noi bambine che dicevamo di sì, per vedere come erano fatti gli uomini.
E sapere che il tizio che incroci nella stradina deserta che porta a casa mia, a Posillipo, o l’uomo fermo in macchina da solo, si sta facendo una pippa. E’ matematico.
Io, che sono napoletana, ancora oggi controllo istintivamente se ha i pantaloni addosso, il tizio fermo nella macchina davanti a cui mi capita di passare.
E so come ci si comporta, so fare finta di non vedere, so non incrociare gli sguardi, so reagire ferma ma cortese se non si può fare altrimenti. Ci sono cresciuta.
Mi veniva da ridere, in Egitto, con le lamentele delle straniere per le molestie degli egiziani. Non sanno nemmeno cosa siano, in Egitto, le molestie. Dei dilettanti, sono.
L’ultima volta che mi è successo – io ci vado poco, a Napoli – scendevo per la mia stradina tenendo mia figlia per mano, e lei aveva, boh, sei o sette anni.
E questo tizio ci ha visto, si è sbottonato e si è messo a farsi la sua pippa.
E mi sono incazzata, quella volta, e raggiunta via Boccaccio ho fermato una macchina piena di brutti ceffi e gli ho detto: “Sapete dove posso trovare la polizia? Lì c’è uno che si è spogliato davanti a alla bambina!” E loro: “Signuri’, simmo nuie, ‘a polizia!” e gli sono andati addosso, con la macchina in contromano su per la stradina.
E io mi sono allontanata, sempre con mia figlia per mano, sperando che lo facessero nero di botte e pensando che, no, una figlia femmina non avevo voglia di farcela crescere, nella mia città.
Quando vedi che il mondo può essere diverso, non hai voglia di tornare indietro.

Lo stereotipo della città dal cuore buono, della città allegra, mi fa incazzare più di ogni altra cosa. E’ selvaggia, Napoli, nella sua violenza. E’ spietata, è crudelissima. Diventa buona se hai soldi, se puoi essere utile a qualcuno, se hai qualcosa da offrire. Col cavolo che è buona, altrimenti.
Funziona come la giungla: se sei debole, ti mangiano. Vivo.

Eppure è la mia città, e mi appartiene e io le appartengo, è stampata nella mia identità.
In qualche modo la amo ancora, che’ io ho l’amore tenace.
Meglio che mi stia lontana, però.
Non mi piace che mi si faccia soffrire.

Io, proprio perché sono napoletana, me ne sto a Genova.
Oppure, se Terzo Mondo deve essere, me lo scelgo io.