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Da una parte, l’idea che mi sembrava di cogliere attorno a me, qui a Genova, era più o meno: “I fatti del G8 li dovrebbe affrontare, e con serietà, la magistratura. Sono stati troppo gravi, nella loro totale illegalità. Altro che commissione parlamentare di cui non c’è manco ragione di fidarsi. I magistrati, sono lì apposta. Per una questione di civiltà e di democrazia, di politica nel senso alto del termine. Quindi non ci vado, alla manifestazione. La trovo riduttiva e svilente.”
Questo, detto da gente che all’epoca di quello scempio era in piazza e lo vide coi suoi occhi, e che nei giorni precedenti si era vista arrivare la polizia in casa a guardare pure che libri leggesse, visto che le sue finestre davano sul percorso che avrebbero fatto le macchinone dei Grandi.
E che si risponde, a un discorso così?

Dall’altra, gli amici arrivati da Milano dicevano che loro non c’erano potuti essere, al G8 di sei anni fa, e si sentivano come se avessero lasciato qualcosa in sospeso, da allora.
Una discorso del tipo: “La dovevo, questa presenza. E’ arrivata l’occasione.”
Che è quello che avevo pensato pure io. Lo stesso sentimento, uguale.
E quindi eccoci là, io e qualche amico sbarcato da Milano. A una manifestazione tranquilla, pacifica, piena zeppa di ragazzi e con un freddo becco che ho ancora i piedi gelati, e sono a casa da due ore.

Una manifestazione fiduciosa, persino: a Caricamento, il corteo è stato indirizzato sotto il tunnel che, bello lunghetto, sbuca alla fine del Porto Antico. E faceva un po’ paura, devo dire, l’idea di infilarsi in ‘sto tunnel assieme a migliaia di persone, con lo spettro dei lacrimogeni della polizia ad aleggiare su ciò che tutti stavamo ricordando.
Eppure, tutti dentro.
Io ho guardato il tunnel e ho pensato che non avevo la minima voglia di infilarmici, ecco.
Ed ero lì a contemplarne l’entrata dall’alto quando è sfilato il gruppetto dell’Unione degli Studenti, tutti piccoli e colorati e tutti a passo di danza, entusiasti, dietro un furgoncino da cui usciva il ritornello: “Sono fuori dal tunnel, del divertimento-to…”, e loro saltellanti come puffi, fino a che il tunnel non li ha inghiottiti.
“Che il cielo vi tenga una mano sulla capoccia, bimbi”, ho pensato io.
Si diventa materne, da ‘ste parti. Scherzi dell’età, suppongo.

E poi, niente.
Piazza De Ferrari piena di manifestanti e i cantanti più stonati del mondo sul palco, ché a stonare “Bella ciao” ce ne vuole, e credo che la saprei cantare persino io.
E, due metri più in là, il Mentelocale pieno di gente a farsi il solito aperitivo del sabato.
Niente, insomma.
Una manifestazione, roba normale.

Tornando a casa ho scavalcato un po’ di ragazzini che bivaccavano davanti al negozio della pizza al trancio, ed è che lì la fanno buonissima e i giovani foresti dovevano essersene accorti dall’odore che emana quel forno, una cosa paradisiaca. Mangiavano pizza e focaccia a quattro palmenti, ed è che non si vive di sola manifestazione.

Mi si sono raffreddati, i miei milanesi, e hanno preso il treno della sera starnutendo e masticando paracetamolo: uno si abitua al freddo statico di Milano, pensavo, e poi arriva qui e si scopre non abituato a ‘sto freddicello che si muove e sbuca da dietro gli angoli, e ci rimane secco. Non c’è altra spiegazione.

Poi me la sono comprata pure io, la focaccia, sulla via del ritorno a casa.
E mi sono sentita un po’ come una che lo aveva saldato, quel vecchio debito di sei anni fa.

Chissà se se lo ricorda, Marco di Cubanite: andammo insieme in piazza Duomo, come qualche altro migliaio di persone, la sera che si seppe del macello accaduto a Genova, e ricordo il silenzio che c’era, la gente che si guardava attonita e la mancanza di di uno straccio di palco, di qualcuno che parlasse e che esprimesse ciò che pensavamo tutti.
La mancanza generale di voce, quel silenzio assurdo.
Sei anni fa.

Magari porta bene, pensavo, l’immagine dei ragazzini che oggi si infilavano saltellanti nel tunnel assieme a tutto il corteo, a Genova, ricordando il G8 e senza paura di lacrimogeni, di poliziotti intenzionati a fare del male.
Porta bene, secondo me.