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Cos’è oggi, lunedì? Io sono arrivata sabato sera e, da allora, non ho smesso un attimo di lavorare. Sei ore domenica, sei ore oggi e, in mezzo, prepararsi la lezione, fare amicizia col libro di testo sconosciuto che usano qua e tutte le incombenze da prof del caso, intervallate dalla sbronza di Pigato di ieri sera, ché una non può non presentarsi in Egitto con la valigia colma di bottiglie di vino per gli amici, e le decine di bottiglie di Sakara messe in frigo da Julia e Felipe che, però, si sono sbagliati nell’ordinarle per telefono ed è Sakara da 10 gradi e ti stende: alla seconda, intoni canzoni della Resistenza e ricordi commossa la tua infanzia. Cose così. E poi la mattina corri a lezione, ovvio, e sono lezioni da 3 ore ciascuna che, per chi non lo sapesse, richiedono un’inventiva da paura: intrattienili tu, dei principianti assoluti per tre ore di fila. Eterne, ti diventano, se non hai tutto sotto controllo.

Sono troppo stanca anche solo per respirare, figurati per scrivere. E, come al solito, sono atterrata e mi è parso di averlo lasciato cinque minuti prima, il Cairo, ragion per cui non c’è nulla che faccia da filtro tra me e il lavoro: fossi in India, per dire, il luogo mi sorprenderebbe abbastanza da distrarmi. Sono al Cairo, invece, ed è molto meno esotico di Genova, per me. Lavoro, quindi. Concentrata assai.

Tutto questo lavoro mi servirà, lo sto assorbendo come una spugna. Perché intanto è meglio di mille corsi di formazione in Italia, farsi 120 ore di insegnamento al Cervantes. Un’immersione totale in manuali che non conosci, in programmi slegati dalle nostre trappole di organizzazione scolastica ed estremamente funzionali, in tecniche che sono quelle che ci insegnano ai corsi abilitanti, in Italia, ma che poi a scuola va a finire che non le usi e qui, invece, sì. Mi sto preparando il prossimo anno scolastico, visto che da settembre cambio scuola ed indirizzo di studi, e credo che funzionerà. Credo anzi che sia l’impostazione indispensabile per la mia nuova scuola, quella su cui sto lavorando adesso, e se avessi voluto fare dell’aggiornamento su ‘ste cose mi sarebbe costato una valanga di euro, te lo assicuro. Invece, mi pagano. Figurati se non la prendo con concentrazione.

Poi, adesso è mezzanotte. Un paio di birre e poi cena e chiacchiere con Julia e Felipe, al piano di sotto della mia ex casa cairota, stesa sul divano delle mie serate egiziane di un tempo. E poi a dormire, ché domattina ho lezione, e la gatta Salma che si è introfolata nel mio letto ed è una micia che, quando apparve, per un giorno fu mia. Perché mi bussò alla porta, tre anni fa. Io ero a casa, al computer, e sentii dei colpetti dietro la porta, appunto. Andai ad aprire e non c’era nessuno. Abbassai lo sguardo e mi vidi un microbo – si distinguevano delle microscopiche costole dietro un pelo color crema, e basta – che, deciso, si dirigeva verso la mia cucina. Mi attraversò il salotto e andò lì. In cucina, appunto. Ed io avevo da poco aperto una lattina di tonno, e lei si mise sotto il tavolo dove era la lattina e miagolò. Forte. E così andò: un’ora dopo eravamo dal veterinario, e nel negozio di animali a comprarle le ciotole e al supermercato a prenderle i croccantini e ce la giocavamo a sorte, io e Julia. “Chi se la tiene, tu o io?”
Se la tenne Julia: io posso anche innamorarmi, non dico di no, ma è da quando mia figlia è andata a vivere in Spagna che non voglio più nulla di vivo in casa mia. Manco una pianta di basilico, niente. Devo essere libera di muovermi senza dovere pensare a nessuno, e con un gatto in casa non lo puoi fare. Il risultato è che sono a casa di Julia, tre anni dopo, e c’è una siamese – già: scoprimmo una siamese, dopo averla lavata – che, satolla e in perfetta forma, mi sonnecchia accanto ed io la accarezzo, ricordando la me stessa di tre o quattro vite fa.

Ho le finestre aperte: una vaga arietta cairota, calda e fumosa ma sufficiente per fare circolare dell’ossigeno, mi raggiunge sul letto. Si sentono voci che arrivano dalla strada, e ridono e parlano in arabo. Sto bene, con una punta di malinconia: ripercorro i luoghi e le situazioni in cui sono stata felice come una bambina, tempo fa, e non può non stringermisi il cuore nel pensare che tutta quella felicità, tutto quel candore, fecero da preludio a quello che poi fu il periodo più raccapricciante della mia esistenza, dal momento esatto in cui sbarcai in Italia. L’ho pagato, quel candore. Filetto per vampiri, mi ha fatto diventare. E però, dai, come si fa ad essere felici senza candore? Ed io, qui, felice lo sono stata. E tanto, anche. E lo guardo in prospettiva, tutto, e va bene così. Ha un senso. E mi dico che sono stata brava, per quel che potevo: ho meno voglia di amare, rispetto ad allora, ma accolgo ancora, assorbo. E sono riuscita a proteggerla, la mia storia, nonostante tutto. La ritrovo con affetto, sento il suo calore. E pazienza se è velata da un pochetto di malinconia: invecchiare si deve, è legge di natura. Se rimanessimo sempre fresche e bambine non vorremmo morire mai, ti pare?

Ho comprato qualche mango, in questi due giorni, e il gelato de Le Carnaval e il formaggio libanese in vaschetta al supermercato, con il pane baladì e i sottaceti piccantissimi e gli odori del cibo egiziano e quel mix di polvere, mosche e piccoli lussi che è fare la spesa qua, e nelle strade del mercatino sotto casa le pollerie non sono mai riapparse, dopo l’arrivo dell’influenza aviaria, e ci vendono ancora il pesce che a me pare molto più inquietante del pollo, ma ci vendono anche il coriandolo fresco e i pomodori rossissimi e i datteri freschi e poi ‘sti cespuglioni di menta e il suo odore e poi c’è, più di tutto, l’odore della shisha davanti ai caffè, questo aroma dolce di tabacco alla mela che ho sempre saputo che mi sarebbe mancato, se mai me ne fossi andata, ed era vero: mi è mancato, e mi sento a casa nel risentirlo. Se solo non mi facesse tornare in mente ciò che vorrei scordare, ‘sta nostalgia che ancora non ho imparato a gestire…

Lavoro. Parecchio. E’ la cosa migliore che io possa fare qui, lavorare.