Tre anni dopo – dopo avere lasciato l’Egitto e dopo essere tornata nell’assurda Italia che trovai al mio rientro – potrebbe essere arrivato il momento di elaborarlo una volta per tutte, il lutto.
Di sicuro, non smetto di pensare. Lavoro e ci penso, cammino per strada e ci penso, qualsiasi cosa faccia lo tengo lì, questo nodo di emozioni irrisolte da sbrogliare, e faccio questo: cercare di sbrogliarle. Ho attivato tutte le capacità di decodificazione di me stessa di cui dispongo, e funzionano 24 ore al giorno. Pure quando dormo, ché sto facendo i sogni più chiari, cristallini e coerenti col momento che vivo di tutta la mia esistenza. La mia ex analista freudiana sarebbe fiera di me.
Ho conosciuto uno spagnolo che è qui da un anno ed è esattamente come ero io dopo il primo anno trascorso in Egitto – solo che lui si è convertito ufficialmente all’islam, cambia solo questo. Non era solo innamoramento per l’Egitto, quello. Era anche, o soprattutto, la scoperta di un possibile percorso – politico, ideologico, spirituale – in cui sembrava di potere trovare delle risposte, delle chiavi di lettura e dei progetti possibili nel caos che era il mondo, e nuove parole da potere opporre allo strapotere dell’ingiustizia, prima di rimanere completamente afoni.
Era come una possibilità di fiducia – “fede” è una parola grossa – in un autentico “altro mondo possibile”, e pareva che potesse funzionare, davvero. L’islam è stato questo, per me. Un momento di fiducia nelle potenzialità degli esseri umani che mi è durato dieci anni e che mi ha regalato energie, coraggio, felicità di stare al mondo e voglia di abbandonarmi alla vita così com’era, certa che bastasse solo lasciarsi andare a una sorta di istintivo equilibrio verso il “bene” (non saprei in che altro modo spiegarlo) che sentivo mio, e sul quale ero sicura di non sbagliarmi.
Il mondo arabo è diverso dal nostro ma, allo stesso tempo, ci è enormemente familiare. Le sue radici sono le nostre ed è possibile capire con l’istinto tutto ciò che apparentemente non capiamo, e solo perché lo abbiamo dimenticato. E’ casa dei nonni, semplicemente. E l’islam è come il nucleo di questo. Non era qualcosa al di fuori di me. Era dentro, era sempre stato lì e aspettava solo di essere convertito in parole per venire fuori. E lo ha fatto, santo cielo. Eccome, se lo ha fatto.
Tu non sai quanto mi sembravano stupidi, ai tempi del “divorzio islamico”, quelli che chiedevano se ero musulmana, quelli che dicevano che non lo ero, quelli che andavano cercando un certificato, un cassetto identitario in cui metterti o da cui toglierti. Ero musulmana? Certo che sì. Che domanda del cavolo. Se non l’avevo ufficializzata fino in fondo, questa cosa, era perché non avevo nessuna intenzione di farmi fagocitare o anche solo di scendere a nessun tipo di patto con nessuno dei pazzi furiosi che popolavano l’islam che si autodichiara tale, appunto. Perché li conoscevo, e sapevo che la salvaguardia del mio spirito critico e della mia salute emotiva richiedevano massicce barriere contro ‘sti scoppiati, ché altro non erano. Ma ero musulmana, tra me e me, nel chiuso di ciò che sentivo? E che altro potevo essere? Ma non si vedeva, dico io? Ero a mollo nell’islam da dieci anni. Impregnata, ne ero.
Impregnata ma lucida, cauta, lentissima nel lasciare penetrare questa cosa, attenta ad ogni piega del mio cervellino e determinata a non usargli violenza. Questo, fino a quando sono rimasta in Egitto. In Italia, mi sono trovata davanti a una specie di “ora o mai più”. Perché il mio interlocutore islamico di quel momento era italiano, ed avevo quindi l’irripetibile possibilità di vedere un islam al netto delle contaminazioni culturali dei diversi paesi stranieri in cui lo avevo conosciuto, pensavo, e di vedere cosa ne veniva fuori. Distinguere l’islam dall’essere arabi, io che araba non sono, per vedere cosa succedeva. Essere musulmani europei, già.
Ciò che succedeva, scoprii, non era islam: era nevrosi. E la gente che vedevo non aveva bisogno di un Libro. Aveva bisogno di un analista, e di corsa. Ma, al di là di questo, io non potevo non vedere che cento, mille, un milione di pazzi formano una comunità, e che questa comunità può benissimo chiamarsi Islam, essere Islam, e che l’Islam stesso, come qualunque fede o ideologia, forse non era altro che un potente sistema di controllo della gente basato sulla strumentalizzazione delle sue debolezze. Lo so, è ovvio. E’ chiaro a chiunque, certo. Io, però, l’ho dovuto sperimentare pezzetto per pezzetto, briciola per briciola. Nel mio piccolo, ho fatto in dieci anni quello che i comunisti hanno fatto lungo tutto un secolo: scoprire il mondo, l’universo e tutto quanto e, poi, farmi cadere in testa un intero muro di Berlino. Che fa male, ti dirò. Credo che sia stata la cosa più dolorosa di tutta la mia vita, un’intera muraglia sulla zucca. E la più pericolosa, anche. Perché dieci anni di vita sono tanti, a 40 anni, e se non reggi bene il contraccolpo – se decidi di buttare tutto nel cesso, se permetti a te stessa di cadere in balia della voglia di reazione, della rabbia, dell’istinto distruttivo – rischi di ritrovarti a sputare su un quarto della tua esistenza. Su te stessa, tutto sommato.
Non era proprio il caso, ecco.
La portata del lutto, comunque, è stata immensa. La prima volta che tornai in Egitto, l’estate dopo il rientro, ero una naufraga. Era guardarmi attorno e sentire solo dolore: totale, lacerante. Vedere in chiave mostruosa tutto ciò che avevo amato, trovarmi di fronte al suo volto cattivo, alla strumentalizzazione dei deboli, al controllo da Grande Fratello sulle menti e sui corpi di tutti quelli che vedevo. E nessuna possibile soluzione, nessuna alternativa – per forza: erano loro, l’alternativa – e nessun’altra fiducia, quindi. Niente fiducia di scorta. Era come essere morte.
Poi, visto che morire non mi piace, ho cercato di difendermi. Da un punto di vista politico e/o ideologico è stato peggio che andar di notte, ma a livello personale è stato sano. E’ stato come mettere degli argini a una piena che mi avrebbe travolto, altrimenti. E l’estate scorsa – la seconda estate in Egitto dopo il rientro – ero una che scopriva di essere in piedi, dopotutto, e che sapeva ancora starci bene, qui. Non indagai oltre, era ancora troppo presto. Si vede che stavo rimandando a quest’anno. E stavolta, infatti – la terza estate che torno – non smetto di indagare, come dicevo, e di monitorarmi mentre sono qua per vedere cosa ne è di me, cosa sono diventata rispetto a prima, a quando questa era casa mia. E’ il momento di prendere atto, mi sa, ché elaborare un lutto non è altro che questo: prendere atto, e davvero. Non per modo di dire.
Devo scriverne. Mi serve farlo e lo farò. E spero di riuscirci e non è detto: non c’è argomento in cui faccia più fatica ad essere chiara, a non perdermi in mille rivoli, ad essere “leggibile”. Se ci riuscissi, se finalmente fossi capace di ottenere dei post chiari, agili, precisi su questo argomento, vorrebbe dire che anche le mie emozioni si sono ripulite. E’ la mia cartina di tornasole, direi. E non sai quanto vorrei togliermelo, ‘sto cadavere dalle dita, e riuscire a dare un nome a ogni suo pezzo e a non lasciarlo inespresso dentro di me, soffocante.
Farne una storia con una sua precisa collocazione, un numero preciso per l’archivio, e passare oltre. Devo togliermelo dalle palle, ‘sto cadavere.
E farne un post, di questo pensiero che mi viene ogni volta che vedo qualcuno con un Corano in mano, ormai: “Ma dai, Tizio col Corano, ma non lo vedi? Basta guardarsi attorno o allo specchio per capire che, a usarlo come Libretto delle Istruzioni per la Vita, ciò che hai in mano non funziona. Sì, dispiace anche a me.“
io direi che non funziona “più”, e naturalmente intendo il corano come la bibbia, il talmud o quello che è: la religione è un cappotto che ci ha protetto dalle intemperie per un bel po’ di tempo, ma ormai è troppo vecchio e lacero, ci appesantisce inutilmente e a continuare a portarlo rischiamo solo di prenderci un malanno.
ma lo butteremo via, è inevitabile.
uhm, magari sono OT :P
Ma guarda sorellina, il problema non è se il Corano funziona oppure no. Il problema è se funzioniamo noi.
E poi l’alternativa non era nelle “istruzioni”, ma nella vita stessa.
Ti stringo forte.