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Ho messo in forno una rivisitazione cairota della ricetta di plum-cake datami da Marzia via Gtalk poco fa. Rivisitazione cairota vuol dire che, al posto delle banane, ci ho messo dei manghi. L’odore che arriva dalla cucina pare buono. Per il sapore, poi vedremo.

Poi ho De Andrè che canta da YouTube e una Sakara accanto a me, e le Marlboro egiziane, che sono forti il doppio delle nostre e probabilmente radioattive e costano un euro al pacchetto e a me piacciono. De Andrè lo senti sempre a Genova nell’osteria sotto casa mia, ché agli osti di lì piace assai e pure a me piace ascoltarlo, seduta al bancone a bere Vermentino e si sente molto a Zena, una, in quei momenti lì. Pure ascoltandolo qui a Dokki ci si sente un po’ a Zena e, visto da qui, pare di ricordare una vacanza: sto lavorando come un mulo, ancora non riesco a farmene una ragione. Mi sto pure spellando, causa abbronzatura che se ne va.

I due spagnoli che mi ospitano si spatasciano dal ridere pronunciando i nicknames che leggono nel blog che polemizza con l’Haramlik sulle considerazioni islamiche di Julia dell’altro giorno, e c’è Felipe – sevillano – che parla di fondare il Califfato Indipendente di Siviglia e c’è Julia che, guardando il loro template, mi domanda: “Senti, ma quando si convertono all’islam acquisiscono automaticamente pure il gusto arabo, con le roselline e tutto? E se vai a casa loro ci sono gli stucchi, come qua? Cioè, ma è intrinseca all’islam, la decorazione a roselline?” e si spatascia ed io ormai sono un po’ vittima e un po’ artefice di questo fenomeno che vede l’islam italiano protagonista di aneddoti serali che terminano con la gente sotto al tavolo e le lacrime dal ridere. Normalmente, grazie agli aneddoti raccontati, nel tempo, da me. Diventerà un genere da barzelletta, tipo: “Allora, c’è un egiziano, un convertito italiano e uno spagnolo…

A me dispiace ridere delle persone ma, abbiate pazienza, quando ci vuole ci vuole. C’è stato un periodo in cui le ho represse, le risate, perché ero in preda a un’apertura di credito che me le ricacciava in gola: ridere mi avrebbe impedito di vedere cosa c’era dopo, e dopo, e dopo. Ed è che io sono brava ad empatizzare e curiosa. Ma tanto, proprio. Solo che, arrivati al dopo, non c’era più un cazzo da ridere. “Curiosity killed the cat” era la frase che mi veniva in mente più spesso, a quei tempi. E allora ho cominciato a dare materiale agli amici affinché ridessero loro al posto mio, visto che io non ci riuscivo proprio più. Adesso ci riesco, invece. Lasciatemi ridere con le storie che io stessa ho raccontato ad altri e portate pazienza: molti di voi sono da spatasciarsi, non posso più nasconderlo. Perdonatemi, ché in fondo mi interessa l’aspetto autoironico di tutto ciò, più che le singole persone che potrebbero adombrarsi per ciò che scrivo.

Questa storia dello smalto sulle unghie, tipo, è diventata un hit, ormai. Io passo il tempo a controllare le unghie dei piedi delle passanti e, chiaro, le uniche che non portano lo smalto sono le tizie stracciatissime. Le altre, specie a una certa età, lo portano tutte e mi pare pure evidente: una donna, specie matura, non mostra le unghie dei piedi al naturale, e con ‘sto caldo gli vuoi negare pure i sandali, a queste velatissime signore? E c’è Wahida che è alunna mia, avrà 60 anni, è professoressa di arabo e porta il suo hijab e lo smalto color perla e se le dicessi che in Italia si dice che “non pregano”, le donne con lo smalto, probabilmente mi tirerebbe un pugno. Con ‘sto caldo, non scherziamo. Ché, davvero: per un’adulta è decoro, lo smalto sulle unghie dei piedi,  e il decoro lo hanno pure le arabe, sapete?

Vabbuo’, dai: lasciamo perdere, ché sennò torna a passarmi, la voglia di ridere.

C’è Laila (spagnola di padre palestinese) che ha un blog in spagnolo e ha fatto un reportage del ristorante dove fanno il fegato di cammello, per chi fosse interessato, e pure un post sui divani tirati su con la corda fino al quinto piano di cui avevo parlato qua. Pure il video, ha postato. Eravamo insieme, quella sera, e sperimento la stranezza di vedere altri che scrivono sulle cose di cui avrei potuto scrivere io, se avessi avuto un bluetooth funzionante e meno ore di lavoro addosso. E’ simpatico, devo dire, vedere bloggata altrove una serata anche mia.

Il blog di Laila, tra l’altro, si presenta con una frase di  Julián Marías, filosofo spagnolo, che è a proposito del rapporto dell’uomo con la verità e che mi piace tradurre:

“Infine, è possibile una situazione estremamente anomala e paradossale, ovvero vivere “contro la verità”. Ed è quella che –non inganniamoci- domina nella nostra epoca. Si afferma e si persegue ciò che è falso sapendo che lo è, proprio perché lo è; si accetta tatticamente la menzogna, anche se arriva dall’avversario, e si accetta il dialogo con essa. Ora: perché vivere contro la verità? Perché si sceglie di aderire alla menzogna in quanto tale? Il motivo non è poi così oscuro: si tratta, in fondo, di paura della verità.”

Laila, di mestiere, fa l’arabista. Si capisce, no, dalla frase che si è scelta per presentarsi? Ecco: io credo che la si possa applicare su più fronti, ‘sta frase qua. Ai nostri media e ai discorsi mainstream, soprattutto. Ma non solo. E quel “non solo” è importante. Se si ama questa parte del mondo, è importantissimo. E’ un dovere morale.

Poi: non sono qui fino in fondo, comunque, e non potrebbe essere altrimenti: è strano ritrovarsi in una quotidianità assoluta, fatta di lavoro e spesa al supermercato o nei negozi, quotidianità e facce familiari, vecchi amici e alunni che imparano all’araba – la mia vita di un tempo, insomma – così, di colpo e da un momento all’altro, senza averlo nemmeno minimamente programmato. Un po’ sono spiazzata – non so che mangiare, con tutto il bagaglio di convinzioni dietetiche accumulate nell’ultimo anno e che non reggono, in questo paese dove la salute è un lusso da ultraricchi – e cerco di essere cauta e di non ammalarmi, ché salterebbero due corsi intensivi se mi venisse la malaugurata idea di farlo, e un po’ mi accorgo che non voglio ripetermi, che la fame di cose nuove mi porta a Genova, in questo momento della mia vita, e che è sano e giusto che sia così.

Ci ho pensato un sacco, al: “Ma insomma, un bilancio: feci bene o male ad accettare di passare di ruolo e a tornare in Italia?” E un pomeriggio, mentre compravo un materasso assieme a Julia, me lo sono detta: feci male. Avrei dovuto dare un’altra opportunità al destino e pazientare, senza soldi com’ero. Lavoro, ne avrei trovato. E, l’anno dopo, mi avrebbe chiamato l’Eritrea, come infatti fece. E sarei andata, libera dal peso di perdere il ruolo accettando una supplenza – ma che leggi del cavolo abbiamo, comunque – ed ora sarei ad Asmara a guadagnare il triplo di ciò che guadagno a Genova. Sì, ok, con un piccolo particolare: che la mia vita sarebbe dipesa completamente dal rimanere ad Asmara, a quel punto. Ma, boh, chissà: una che ne sa, di cosa succede dopo.

Ho fatto male, quindi. Un errore mitigato dal fatto che è bello, essere di ruolo, perché ti dà libertà. Non devi dipendere dagli umori di nessun datore di lavoro, e non è poco. Per nulla. Però, insomma: ritrovarsele sempre tra i piedi, le “sliding doors” della tua vita, angoscia un po’.

Una volta che me lo sono detta, che avevo fatto male, mi sono detta anche che non serviva a niente dirselo. Che vivere mi piace, e che comunque va bene. Come dice la Broccoli, “la vita andrà bene, fa niente cosa succede”. (Le rimarrà attaccata tutta la vita, ‘sta frase, alla mia Broccoli.. :) ) E a me pare che vada bene, appunto. Sono ragionevolmente felice, con momenti in cui lo sono molto. E amo ciò che ho, e la mia cucina di Zena me la sono messa come sfondo sul cellulare, pensa te.

E’ solo che abbiamo una vita sola, è questo il guaio. Io non mi ci rassegnerò mai, a ‘sta cosa.

Chissà come è venuto, il plum-cake al mango, dai.