Non è passato poi tanto tempo da quando, in questo post, riflettevo su quanto fosse una cura contro un certo consumismo, vivere al Cairo, e sospiravo sulla mia crema per le mani di Clarins e altre cosette ivi introvabili. I cavaturaccioli ce li portavamo dall’Europa, per dire, e comprare un bikini era una caccia al tesoro dall’esito incerto: Julia dimenticò in Spagna la parte di sotto del suo, il primo anno che arrivò, e passò il resto dell’anno a fare il bagno coi pantaloni, quando andava al mare. E, attenzione, non che fosse un luogo sobrio commercialmente parlando, ‘sto formicaio di megalopoli. E’ solo che, certe cose, non le trovavi e basta. Ne trovavi altre, tutto qua.
Bene, nel giro di tre anni, questi si sono costruiti ciò che, secondo Wikipedia, è il primo progetto di sviluppo urbano integrato di Europa e Medio Oriente. Ed io oggi ho accompagnato Julia a comprarsi le magliette lì, appunto. Al City Stars. E ancora non mi sono ripresa.
Le magliette le abbiamo prese da H&M, per dire. Passando davanti a Starbucks ho pensato a Marzia, ché a lei piace non so quale intruglio che fanno là. Di bikini ce ne erano a migliaia e, davanti alla Virgin, ti chiedevi come diavolo potesse sopravvivere un negozio simile in questa terra di nemici del copyright.C’erano Zara, Promod e tutti ‘sti qua. Alcuni egizianizzati, nel gusto, altri identici a come li vedi a Genova, uguali. C’era un cinema assurdo fatto a salottini, con divani e tavolino davanti ad ogni schermo.C’erano delle grandi incensiere ad ogni piano ed era un po’ stordente, l’incenso tra la musica e il neon, e invogliava alla deboscia e a spendere per ottenerla. C’era, insomma, lo stra-consumismo globale condito col gusto arabo per la comodità a oltranza, per l’essere pascià. C’erano miliardi di ristoranti e caffè dove si poteva fumare e c’era, anche, tutto un gioco di acqua che scendeva dalle vetrate, in questa terra desertica.
“Ma è come essere a Dubai, qui?” “Noooo, a Dubai sono molto più esagerati.” “Ah, ecco.” Mi sentivo un po’ provinciale, arrivando da Zena. O da Milano.
E poi niente, siamo fuggite. A Midan Hussein, Cairo islamico. E lì, tra la moschea di Al Azhar e quella di Hussein, appunto, sono stata un paio d’ore a bere tè, fumare una shisha e aspettare Julia che era in giro per commissioni. E c’era il mondo intero, in ‘sta piazza, e arabi del Golfo a centinaia, ché questo è il periodo in cui vengono in vacanza qua e i negozianti di souvenir tolgono dai marciapiedi le immagini faraoniche, ché tanto per i sauditi e affini sono haram e non le comprano, loro, e le sostituiscono con souvenir che ‘sti qua si possano poi portare a casa. Poi vanno al casinò o a ubriacarsi di whisky o a donne, i non-compratori di immagini faraoniche, ma tanto quelle sono cose che i doganieri non gli intercettano, alla frontiera di casa loro. Al Cairo ci vengono a peccare, sì. E i cairoti ci fanno i soldi, certo, ma non è che li stimino molto. No.
E scoppiava di gente a mezzanotte e rotti, la piazza Hussein, con sudanesi e Golferos, come li chiama Julia, e donne con ogni tipo di niqab che sollevavano il velo, si infilavano la forchetta in bocca, si riabbassavano il velo, prendevano un’altra forchettata di cibo e così via, e con le unghie pittatissime ed io e Julia a segnalarcele a vicenda, e venditori tra cui uno portentoso che vendeva la tipica fascia verde che i combattenti islamici si mettono attorno alla testa in certe manifestazioni, e lui le vendeva come souvenirs assieme a un assortimento di spillette che inneggiavano all’Iraq o al Libano o all’Arabia Saudita e così via, una per ogni palpito politico o nazionale presente nella piazza, e poi c’era un campionario di mendicanti da paura, col ragazzo con entrambe le braccia amputate, i ciechi che salmodiavano il Corano e tutti gli storpi possibili e una ragazzina che vendeva fazzoletti tenendo in braccio un bebè che avrà avuto un mese a stento ed era pieno di anellini minuscoli sulle dita minuscole, per cui suppongo fosse femmina, e quando poi Julia è tornata facendosi largo tra le centinaia di persone, appunto, il cameriere della bolgia in mezzo a cui ero seduta le fa: “Ah, eccoti finalmente: la tua amica ti aspetta da un bel po’!” Millenni di culto del pettegolezzo non passano invano, e non c’è nulla che non notino, ‘sti qua. Pure in mezzo all’indicibile, sanno chi sta con chi e dove. Ammirata, rimani.
E poi, in un vicolo dietro Al Azhar, c’era ‘sta macchina che si faceva largo prepotentissima, facendo saltare via i passanti a colpi di clacson, e dentro c’erano tre bei pope copti coi loro crocifissi giganteschi, e un ragazzo che passava scoppia a ridere – con quei bei sorrisi luminosi che hanno gli egiziani e credo che pochi li battano, quanto a esplosività di sorriso – ed esclama, con l’aria complice: “Ellapeppa, che barbe portentose che avevano ‘sti tre!” E Julia lo guarda e scoppia a ridere a sua volta: che un musulmano si stupisca della barba di un copto è la prova evidente del fatto che, al mondo, quelli strani sono sempre gli altri. Non c’è niente da fare.
Poi, ripensando al City Stars, ho chiesto: “Ma come sta andando l’economia? Come fa un posto simile a guadagnare, qua?” La risposta era ovvia: “Va malissimo, l’economia. I ricchi, quindi, sono sempre più ricchi.” E pure io, in effetti, che domande del cavolo faccio?
La città ha qualche problema » Haramlik
[…] le grandi catene di ristoranti e così via. Non la riconosci, Mohandessin. Pare New York. Perché, appunto, nel disastro economico generale i ricchi si arricchiscono. Loro e basta, certo. Intanto […]