scuola026.jpg

L’Haramlik è in fase di autocensura, visto che non può parlare di scuola ma non pensa ad altro, quindi finisce che non scrive. Peccato, però, ché sto sprecando un anno a cui avrei dato volentieri una forma scritta, ovvero una forma e basta. Vivere una cosa fotogenica come la scuola senza potere raccontarla è quanto di più frustrante conosca. E già ha poco senso, ‘sto mestiere mio, specie in certe annate. Imbavagliarlo pure è da morte per asfissia.

E quindi finisce che la fotografo, la scuola. Non gli alunni – per carità!! Proprio la scuola, dico: l’edificio grigio, le scritte sui muri, i buchi nelle pareti, le sedie spaiate, i cestini della carta straccia a fine lezione. E colleziono queste fotografie di particolari che, a rivederle, mi sembrano un campionario di angoscia, e mi chiedo cosa fotograferebbero le colleghe, al posto mio, e quanto le mie foto possano essere diverse da quelle che farebbe Lorenza, per dire, e lo sarebbero eccome, so’ sicura.

Facciamo un gruppo su Flickr, dai: scuole non riconoscibili postate da prof fantasmi, per capire cosa vediamo e di cosa parliamo, quando ci sembra di stare parlando dello stesso argomento. E se è vero che dopotutto basta guardarla, una classe, per capire se chi ci sta dentro va bene o male, cosa impara.

Poi so’ tornata studentessa, mi sono decisa a iscrivermi al benedetto master. A quello che costa meno, per la precisione, che è un criterio come un altro e, anzi, forse è il migliore dei criteri possibili. E quindi quest’anno studio, e mi cigolano i neuroni solo a pensarci, ché erano a un passo dal grande sonno e invece sono lì che li disturbo ma si deve, sono punticini per, prima o poi, andare via. Inshallah. E poi faccio pure il Ditals a fine anno, faccio un sacco di cose. Cerco di essere sensata, ché l’alternativa sarebbe chiudere il gas e scappare via, ancora. O sedermi a terra e piangere, e non alzarmi più. Perché ho una voglia di andarmene che mi manca l’aria, e se non incanalo in qualche modo tutto questo friggere  finisce che mi faccio del serio male. E’ un dato di fatto: non sono capace di vivere serenamente l’infelicità. E di essere felice, oggi e nella mancanza di senso in cui vivo e lavoro, non se ne parla.

Io lo so che a te le cose brutte ti fanno stare male proprio fisicamente, io ti conosco cacchio. […]
E poi sí che sei egoista, […] Ci sei tu, ci sono i tuoi problemi, poi veniamo il resto. É cosí. Per me é chiaro, me lo hai dimostrato varie volte. Non te le enumero perché non mi interessa nemmeno farlo, perché alla fine ti voglio bene cosí come sei anche se mi fai arrabbiare o stare male a volte.

Sì, deve essere egoismo. O forse è difficoltà a parlare, è un oceano di emozioni disordinate che non padroneggio e in cui ho paura a tuffarmi. Sto diventando così, con gli anni. Di fronte alle cose grandi, taccio e mi chiudo. Non è che lo voglia. E’ che non so fare altrimenti.

Il 30 ottobre del 2003 era la vigilia del compleanno di una persona che amavo moltissimo, e sapevo che il mio rapporto con questa persona si stava spezzando, soffocato da silenzi che io per prima non avevo saputo rompere. E sognai che era in moto e girava nel cortile, ed io lo volevo chiamare ma non mi usciva la voce e si sentiva solo il rumore del motore, e lui con le gambe troppo lunghe, di spalle, che non mi sentiva ed è che io lo pensavo, il mio grido, ma non riuscivo a emetterlo. Una settimana dopo, il mio rapporto con quella persona finì per sempre. La mia responsabilità, in quella rottura, è stata il non avere saputo parlare quando ancora si poteva.

Mi sono inselvatichita, con gli anni, e vivere da sola mi ha moltiplicato all’infinito la tendenza a fare nido dentro me stessa che, comunque, ho sempre avuto. Sono egoista come lo sono gli animali selvatici, ma non è che non senta gli altri. E’ che li sento pure troppo. Più di quanto non riesca a controllare.

Sono egoista ma sono anche stanca, sai, e bisognosissima di cose belle, di buone notizie. E allora dammi una mano, dammene. Di buone notizie, dico. Arriva un momento in cui dobbiamo assolutamente stare bene, per dovere verso gli altri. Tocca a tutti, guarda. Non può toccare solo a me. Non è il turno mio.

Sono egoista o, forse, sono solo molto più debole di come mi disegnano, di come mi disegno. Di come mi disegni tu.

Sostanzialmente sono in debito di coccole, e deve essere per questo che riesco a farne così poche.