corpo

Punto numero uno: a scuola bisogna seguire il primo istinto – non il secondo o il terzo, il primo – e questo ti dice di non toccarli, i ragazzi.
Io ancora ricordo la prima studentessa che ho toccato, tanti anni fa: si lamentava di avere la febbre, volevo sentirne la fronte e le chiesi il permesso. Lei rimase un po’ stupita: “Prof, certo che può toccarmi la fronte!” eppure mi sembrò comunque strano farlo. Entrare in contatto fisico contamina il rapporto, credo, tra alunni e prof.

Punto secondo: ci sono tuttavia tipi di scuola – o di alunni – dove impari che la tua asetticità fisica ha delle controindicazioni. Io l’ho imparato negli istituti professionali, in tutti quelli dove sono stata.
Non mi ci trovo granché bene, nei professionali: sono una a cui danno fastidio gli alunni che non studiano, ché mi fanno sentire declassata dal ruolo di prof a quello di babysitter, e insegno una materia che richiede della concentrazione. Capisco che possa essere molto gratificante per certi colleghi di italiano, il professionale, con tutta quell’estrosa sregolatezza che, se incanalata bene, sa essere fertile e vitale come null’altro. Per noi di lingue invece, come per quelli di matematica, normalmente è un purgatorio. Abbiamo in comune l’esigenza di fare i conti con le regole, noi e la matematica.
Siamo quelli che bocciano di più, non a caso.
Sono scuole, quindi, dove mi riesce difficilissimo colmare la distanza tra me e i ragazzi attraverso lo scambio verbale o quello che potrei pomposamente chiamare “incontro intellettuale”. Il piccolo miracolo della spiegazione che li intrighi, dell’argomento che incuriosisca, del gioco logico che li colpisca non avviene, ti pare di essere schermata. Parli e non fai breccia, non mandi segnali.

Poi arriva il giorno in cui prendi i tuoi freni inibitori, li parcheggi da qualche parte e lasci che la teppista che è dentro di te emerga e prenda il timone. E quindi uno lo prendi per la collottola, l’altro lo minacci di tirargli un gesso in testa, all’altro ancora gli dai dieci buffetti in successione sulla cocozza e – miracolo! – improvvisamente si accorgono che sei umana. Ti mettono a fuoco. Qualcuno ti sorride persino.
Questo, se sono piccoli. Al primo, secondo anno. Dalla terza in poi è tardi. Lì te lo giochi diversamente, il tuo lato teppista. Con sfumature più gangsteriane, non so come dire.
Sta di fatto che il professionale è la scuola dove il contatto fisico tra alunni e prof avviene più spesso, e quindi è la scuola che richiede maggiore familiarità con l’istinto, e precisione nel gestirlo.

D’altronde il corpo impera a tutti i livelli, nel professionale: non riescono a scherzare senza spingersi e schiaffeggiarsi un po’, i ragazzi, e sono quelli che più fatica fanno a star seduti, sono quelli che mangiano di più appena possono e l’oliosa focaccia sotto i banchi impesta di sé ogni singolo foglio di carta, e sono quelli con la mutanda più in vista sotto i calzoni, con il reggiseno più sporgente sotto la canotta, e sono quelli che ballano meglio – e con differenza, ma tanta – e quelli che più spesso si fanno male o rompono qualcosa.
Ed è l’unico ordine di scuola, quindi, dove alla trentesima volta che dico a un ragazzo di entrare in classe finisce che lo prendo per il colletto e ce lo trascino, con la goffaggine di chi non ci si vede proprio, in questi contatti ravvicinati. E loro sorridono, contenti. E’ vicinanza. E’ come se ci facessi amicizia, e alle loro regole.

Punto terzo: la scuola è anche conflitto, si sa, e l’altro giorno c’era una bella collega, nel bar sotto scuola, che si è fatta un pianto. Diceva che ormai una donna deve andarci col burka, in classe, e se è minimamente giovane e carina ha finito di vivere, se i suoi studenti lo decidono, ché loro possono freddamente scegliere di rovinarti professionalmente e stroncarti la carriera e quindi devi calcolare ogni gesto che fai, ogni centimetro di corpo che mostri per non finire filmata, ricattata, accusata di molestie a ragazzi che sono il doppio di te, sospettata di seduzione di minori che sono abbastanza scafati da costruirtelo addosso, ‘sto ruolo, e rovinarti letteralmente l’esistenza.
Camminava rasente ai muri, la collega, sempre col terrore di cosa venisse filmato alle sue spalle, e si interrogava sul proprio abbigliamento con lo stesso smarrimento che si prova nei paesi arabi all’inizio, quando a te pare di essere decentissima e manco te ne accorgi, della scollatura troppo ampia o delle forme rivelate dai pantaloni.
Ci vuole pratica, per imparare a coprirsi per bene, e una trasformazione dello sguardo, una diversa percezione del proprio corpo. Si impara, ma ci vuole del tempo.
E si impara a suon di incidenti: me lo ricordo, in Giordania o in Egitto, il disagio di portare addosso camicette che mi erano sembrate decentissime per anni e la fretta di correre a casa a cambiarmi, la sofferenza per non poterlo fare immediatamente. Si impara, si impara. E poi torna utile. Guardavo la collega carina e piangente e avrei voluto dirle: “La maglia, più lunga e accollata. Niente tacchi sottili che provocano. Metti un foulard attorno alla scollatura, anche se a te sembra minima. A loro no.” Ma come fai a farglielo capire, a una che anziché lavorare in un paese arabo insegna in mezzo ad alunni mezzi nudi? E’ che siamo fuori contesto, ci vuole il doppio della fatica.

Te ne accorgi, a scuola, di quanto sia arretrata la condizione delle donne rispetto a qualche anno fa. Te ne accorgi perché una prof donna è, in qualche modo, una che detiene potere. E aggredire le donne attraverso il loro corpo è tornato di moda, sta tornando normale.
Ricordo una collega giovanissima e severa spinta alla resa a colpi di bacetti lanciati in corridoio e cori da stadio fuori da scuola. La durezza di altre che se la fanno scivolare addosso, questa cosa, e col tempo pare che si facciano crescere i baffi o il neo peloso sul mento, tanta è l’attenzione ad essere almeno madri se proprio non si può evitare di essere donne. La consapevolezza costante di essere ricattabili e di non potere, quindi, sbagliare nemmeno un gesto.

Perché in questo sono cambiati i tempi: non c’è desiderio, negli alunni intenzionati ad usare questo strumento nel conflitto con le prof. Sono ragazzi assolutamente sazi, satolli. Non giocano ad abbordare. Giocano a fare passare la prof per quella che abborda, con i loro filmini clandestini che cercano pelle scoperta.
Loro sono gli eterni bambini, tanto. E tu sei pure adulta, oltre che donna, quindi doppiamente in torto.

Noi si zampetta in punta di piedi lungo il baratro, a scuola.
Come si faccia ad arrivare fino in fondo ogni anno, è un mistero.
O, forse, non ci sono statistiche per conteggiare i caduti.