Mi decido a portare alla polizia postale una roba che dovevo portare lì da due mesi e mi scordavo sempre. Arrivo un po’ trafelata, convinta che chiudano alle 12,30, e do i documenti alla portinaia dopo avere raccolto il suo appello disperato: “Ma cos’è un codice IBAN? Qui al telefono ho uno che parla di un codice IBAN…“. Scambiamo qualche parola sulla mattinata pesante che sta avendo, poi mi accorgo che chiudono alle 13, invece che alle 12,30, e dico: “Uh, però salgo tra due minuti, mi sono accorta che ho il tempo di fumare una sigaretta.” E lei: “Ma no, non fumi, le fa male e poi fa pure tardi!” E io: “Solo due tiri, ho appena preso il caffè, sennò su mi tocca aspettare chissà quanto…” E lei: “Ma no, non lo faccia!” ed io sono quasi al portone e lei esce dalla portineria esclamando che me lo impedirà e mi placca, mi tira dentro per un braccio ed io scoppio a ridere, dico: “Vabbe’, cedo alla violenza!” e lei mi spiega che è una violenza affettuosa, che fumare fa troppo male, trasforma la stretta in un abbraccio e mi caccia dentro l’ascensore.
Quando arrivo davanti alla poliziotta che fa da piantone sto ancora ridendo.

Spiego alla poliziotta che ho una vecchia denuncia da integrare. Lei mi guarda avvilita: “Guardi, oggi non è giornata. Abbiamo una grana di quelle serie, dovrei farla aspettare un’ora. Non è che preferisce passare domani?” Osservo: “Ma avete una giornata pesante in tutto l’edificio, oggi?” e, comprensiva, rimando a un altro giorno e scendo alle Poste per ritirare una raccomandata.

Alle Poste, ritiro il numero e penso che ho finalmente il tempo di fumare. No, invece: c’è il sistema di numerazione in tilt, non si capisce chi ritira e chi consegna, i numeri scorrono per conto loro e la gente si accalca, litiga, si dice un sacco di cose brutte ed è un mondo dove tutti hanno subito un torto, pare, e tutti sono determinati a non farsene fare altri e tu, quindi, cerchi di impostare lo sguardo, la mimica facciale in modo da apparire il più mite possibile, così forse riesci a non essere aggredita da nessuno.

E finalmente arrivo davanti allo sportello, do il documento all’impiegata e lei legge il nome e poi mi fa, seria: “Bisogna scappare dall’Italia, non c’è altra soluzione.
E io penso che forse legge il mio blog, l’impiegata, e che me lo sta dicendo perché sa che posso capirla. O forse no, è più probabile che – spettinata come sono – abbia pure io l’aria di una che vuole fuggire.
Comunque sia, approvo: “Ha ragione, non c’è altra scelta.”
E lei: “Ma senza dire niente, bisogna fuggire. Senza nemmeno lasciare detto il nome.
Annuisco: “Sì, zitti zitti. E via.
Mi dà la mia raccomandata, ci salutiamo con aria complice.

Fumo la mia sigaretta, finalmente. Poi decido di tornare a casa, ché la città è nervosa e l’autobus per andare in spiaggia mi appare faticosissimo da affrontare. Ci vado più tardi. Sempre che il vento soffi da nord, ché ormai ho imparato che quando soffia da sud vuol dire che il mare è sporco, e ho imparato pure che per capire la direzione del vento devi guardare tutte queste bandiere genovesi che sventolano e situarle rispetto al mare. Ci ho messo solo due anni e mezzo, per capirlo.

(‘Sti genovesi, comunque, sono buffi assai. Specie quando sono nervosi.)

quarto