A Dubai sono talmente ricchi, ma talmente ricchi, che tutti gli orologi dell’aeroporto sono Rolex.

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Inoltre, dall’aeroporto di Dubai si può uscire tranquillamente facendosi vistare il passaporto direttamente lì, e ci sono dei gran pezzi di gnocconi di doganieri in kefia bianca e occhioni neri languidi che ti sorridono, ti dicono che non c’è problema e poi aggiungono un “Ciao…” in italiano, e tu ti senti tutta rinvigorita dal fatto di essere di nuovo tra gli ospitali arabi, dopo un mese tra i riservati, enigmatici indiani, e salti sul bus diretta a Dubai centro, decisa a sfruttare al meglio lo scalo tra un aereo e l’altro.

A Dubai fa un caldo che ancora un po’ e muori. Ad Agosto, la vita umana non è possibile senza aria condizionata e le fermate degli autobus sono dei gabbiotti chiusi e refrigerati dove la gente se ne sta trincerata allo scopo di non morire di infarto o ebollizione durante l’attesa. Sul Dubai Times leggo di un condominio che è da settimane senza l’aria condizionata, causa guasto di difficile riparazione, e la gente è disperata, dorme nelle macchine accese e ci sono stati disordini e interventi della polizia.

Io raggiungo una spiaggia, pago l’entrata, arranco sulla sabbia verso il bar e lì stramazzo, senza manco la forza di avvicinarmi al mare. Perché, oltre alla paura di morire se faccio anche solo un altro passo sotto al sole, c’è pure il fatto che non è rinfrescante, quel mare lì, e sai che tuffartici dentro è come fare il bagno nella pastina in brodo, esci che hai più caldo di prima. E le docce sono impraticabili, nel senso che l’acqua viene giù bollente e non ci puoi stare sotto, la gente resiste due secondi e poi fugge ustionata. Desisto, quindi, ché poi volare fino a Milano coperta di sale e di sabbia sarebbe un mezzo incubo, e decido di andare a sciare.

E’ abbastanza surreale, in quel forno in riva al Mare Arabico, chiedere informazioni su dove sono le piste da sci e sentirsi tranquillamente rispondere che saranno 5 minuti di taxi, devo chiedere del Mall of Emirates.
Arrivo, entro e sbalordisco. Ci sono davvero, le piste da sci con la gente che scia. Li guardi da dietro il vetro, tutti infagottati, e pensi che vabbe’. Nei centri commerciali nostri ci sono le sale giochi, chennesò. Là ci hanno le pista da sci, invece. E poi finisci di sciare e te ne vai al bar vicino, in stile baita, col grande caminetto con dentro il fuoco finto. Mi rendo conto che ho la bocca spalancata, e la richiudo. Noi donne di mondo non vogliamo che questi Paperoni di Dubai ci prendano per provinciali in gita.
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E poi niente, ho visto anche un finto canale di Venezia che sta davanti a un finto suq coperto dove vendono cose indiane bellissime che in India non trovi ma che costano cento volte più di quanto le pagheresti se le trovassi. Protesto presso i negozianti indiani, chiedendogli dove diavolo le nascondono, ‘ste meraviglie, ché io nei mercati di casa loro non le ho viste. Sorridono sornioni. Riconosco un orologio da muro uguale a quello che ho preso a Madras, alla fine. Costa centocinquanta euro, io l’ho pagato venti. “Eh, ma l’India è una cosa diversa”, sospirano. Sospiro pure io.

L’India sarà anche diversa, ma mezza India pare essersi trasferita a Dubai. E pure mezzo Pakistan, e mezza Asia, mezza Europa, mezzo mondo. Gli unici Dubaiesi autoctoni che riesco a vedere, in tutta la mia gita, sono i poliziotti dell’aeroporto. Altri non ce ne sono, oppure si nascondono benissimo. E’ un mondo di immigrati, questo, e uno dei taxisti che fermo, nelle mie corse sopra e sotto per la città, mi fa: “Al suq Madinat Jumeirah? Ok, ma mi può guidare lei? Io sono nuovo di qua, ancora non conosco le strade.

Ho cercato di capire come ci vivessero, là, tutti questi immigrati. Tassisti pakistani impeccabili nella loro divisa e nei loro macchinoni color crema refrigerati e morbidi, cameriere asiatiche sorridentissime e avvolgenti, venditori compassatissimi che ti sembra di stare in Europa, lì per lì, e ci metti un po’ a capire che devi contrattare, pezzo d’asina che non sono altro, ché è pur sempre Arabia e mi sto facendo infinocchiare come una torda.
E gli operai delle costruzioni, impegnati a costruire edifici che sono il sogno della vita di un architetto, su impalcature vere e col casco in testa, quando in India o in Egitto le fanno legando le canne di bambù, le impalcature, e un operaio col casco farebbe ridere tutti.
Io non l’ho visto, lo schiavismo di cui si parla a proposito degli immigrati di Dubai. La gente con cui ho parlato si diceva felicissima di vivere lì e un po’ preoccupata perché è arrivata pure là, la crisi, e non riescono a vendere gli uffici della torre più alta del mondo e ci passiamo davanti e io dico al taxista: “Vabbe’, ma siete esagerati, qua. Ma come vi viene in mente, ma dai.” Fa paura. Intimorisce, davvero, e pure la gente di lì ne parla scuotendo la testa, come di una sfida troppo grande per potere portare fortuna.
Vorrei che non ci fosse, sono superstiziosa.

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Ci sono stata sei ore, a Dubai, e non pretendo di averne capito granché. Quello che ho visto, però, è talmente improbabile e grandioso che una ci rimane a pensare su per un bel pezzo, a ‘sti moderni faraoni in kefia che sfidano il deserto tanto da metterci su le seggiovie.

Riconosco come parte della mia cultura questo mostrare il pugno alla natura, questa volontà di piegarla, di assoggettarla fino a ridere di lei.
Sono occidentali, gli arabi.
Altro che gli indiani.