ps

La sera di martedì c’è una cena a casa mia. La mattina di mercoledì mi sveglio con un cerchio alla testa e un dolore al fianco destro. Mi dico: “Non può essere il fegato, lo sanno tutti che non fa male fino a un attimo prima di ucciderti.” Soffoco i sensi di colpa, vado a scuola, aspetto che passi. Non passa.

Giovedì e venerdì il dolore al fianco destro persiste. I miei sensi di colpa anche, visto che è un periodo in cui tutti vogliono rieducarmi e fare di me una donna sana e a dieta, quindi mi guardo bene dal dirlo a chicchessia. Vado a scuola. Zoppico un po’, ma vado.

Sabato mattina comincio a confessare, anche perché sono quattro giorni che ho la mano sul fianco. SMP mi guarda preoccupato e osserva che dovrei vedere un medico. Io vado a scuola.

All’uscita da scuola – sempre sabato – mi dico che mi deve stare succedendo qualcosa. Mi dico anche che forse aspettare fino al lunedì successivo è imprudente, quindi mi risolvo ad andare al Pronto Soccorso. L’ospedale più vicino alla mia scuola è Villa Scassi. Un po’ perplessa per il nome (Scassi…?) mi ci dirigo, arrivo affannata perché è in cima a una salita (e sennò non saremmo a Genova, del resto), entro e mi guardo attorno perplessa. Che bruttissimo posto, gessù.

Nell’atrio ci sono lavori in corso, all’accettazione ci sono due telefoniste coi capelli sporchi e la ricrescita, i medici sembrano indistinguibili dai malati e questi dagli infermieri. L’atmosfera non pare amichevole: sono certa che verrò guardata con disprezzo, appena dirò che ho un semplice mal di fianco, ché l’ambiente pare di quelli dove devi presentarti con qualche arto mancante, se vuoi essere preso in considerazione. Nella sala d’attesa, un’umanità parecchio male in arnese pare stare lì per passare il tempo, in mancanza di posti migliori dove andare.

L’istinto mi dice di fuggire, guadagno la porta, ci ripenso e torno indietro perché il fianco fa sempre più male. Cerco di richiamare l’attenzione di un infermiere, non ci riesco ma mi rendo conto che è un ceffo inguardabile e ha l’aria cattiva. Do retta all’istinto e ri-fuggo, stavolta sul serio. Sull’autobus che mi porta verso il Galliera (ospedale lindo e pinto, gestito dalla Curia) mando un sms di rimprovero al Signore Molto Perbene: “Ma insomma, io non sono di Genova, perché non mi hai detto che Villa Scassi è come Napoli? Volevi forse uccidermi?” SMP mi informa, abbastanza sostenuto, che lui di ospedali non se ne intende.

Al Galliera mi accolgono, mi sorridono, mi coccolano e mi informano che sono vittima di una colica renale. “Ma no!“, faccio io. “Eh, sì!”, fanno loro. Mi fanno un paio di flebo, mi spiegano che prima di lunedì non potrò fare l’ecografia e si offrono di ricoverarmi fino ad allora. Declino l’offerta con decisione e striscio ad aspettare il lunedì a casa mia, dove almeno mi è permesso fumare.

Domenica vedo tutte le stelle del firmamento. Cerco “colica renale” su Google ma non mi pare di avere i sintomi descritti da Wikipedia. Mi riconosco di più in quelli del cancro al colon, per dire. Sono constatazioni che non fanno sentire meglio.

Nella notte tra domenica e lunedì il dolore non mi lascia dormire, quindi ho tutto il tempo per pensare al da farsi. “Se davvero è il rene, a farmi tanto male, qua mi ricoverano di sicuro. Sarà da asportare, non c’è altra spiegazione.” E, siccome sono una che nelle emergenze si organizza, mi rendo conto di dovere organizzarmi per un soggiorno ospedaliero e che è meglio farlo per tempo, visto che mi muovo a stento.

Alle 3 di notte mi lavo i capelli, alle 3 e mezza metto un po’ di pigiami in lavatrice, alle 5 li stendo sui termosifoni. Preparo il beauty-case, recupero i saponcini rubati in giro per alberghi, raccatto le ciabatte, scelgo libri, metto il computer piccolo nella borsa e, con l’alba, sono pronta per essere scodellata da SMP davanti all’ospedale. “No, va’ pure, è inutile stare lì in due, ti chiamerò, non preoccuparti, cerca di sopravvivere senza di me, addio.” Mentre aspetto l’ecografia, letteralmente piegata in due dal dolore, mi domando che cicatrici lascino le asportazioni di un rene.

La faccio breve: all’ecografia, il mio rene risulta essere il più bello del mondo, oltre che in ottima salute. Mi rimandano in Pronto Soccorso, mi stendono su una barella, mi piazzano una, due, tre flebo, mi portano a spasso per tutto l’ospedale, mi tolgono litri di sangue, mi fanno un mucchio di radiografie – quella al torace me la fanno tre volte, ché dicono che ho una cerniera metallica sul petto e, per quanto io giuri che non è vero, non se ne convincono fino a quando non scoprono che è il cuscino che ho sotto di me, ad avere una cerniera metallica – e infine mi abbandonano per qualche ora accanto a una vecchina moribonda. La vecchina è anche sorda, oltre che moribonda. Ogni tanto, arriva l’infermiere e grida: “C’è qualcuno che la aspetta fuori?” La vecchina dice di sì, col poco fiato che ha. E l’infermiere: “No, guardi che fuori non c’è nessuno! Abbiamo chiamato ma non risponde nessuno!” Io penso che magari è che alla vecchina piace pensare che ci sia qualcuno che aspetta lei, dietro ‘ste porte, e che l’infermiere le sta togliendo gli ultimi quanto inoffensivi sogni. Ma forse sono io che faccio letteratura dalla mia barella, e la vecchina è piena di figli che sono semplicemente andati a mangiare.

Nove ore dopo il mio ingresso, arriva la diagnosi. Era un mal di schiena. Per il resto sono un fiore. Scoppio di salute, proprio.

Mi tolgono la flebo, mi buttano giù dalla barella che occupo indegnamente, mi dimettono consigliandomi un Aulin.

Io, quindi, adesso sono a letto che mi curo il mal di schiena. L’Aulin ha già cominciato a fare effetto, comincio a stare meglio.

Soprattutto, ho l’acqua accanto a me.

Perché la dottoressa che mi aveva diagnosticato una colica renale – il cielo la fulmini – mi aveva raccomandato di non bere, ché l’acqua mi avrebbe fatto aumentare il dolore, diceva.

Io, quindi, da sabato a lunedì mi sono a stento inumidita le labbra, e non ti dico che sete avevo, alla fine.

(La prossima volta vado al San Martino, faccio così.)