(Diario eritreo in differita, post spedito col piccione viaggiatore)

Mi accorgo che quando mi chiedono da quale parte dell’Italia arrivo mi viene voglia di non dire che sono napoletana, ho già risposto di essere genovese un paio di volte. Così, istintivamente, senza pensarci. Deve essere che mi sembrano molto seri, questi eritrei, e forse temo che pensino male di me, se confesso la mia catastrofica città d’origine. Non lo faccio apposta, ovviamente, e sarà meglio che la smetta, mi devo stare rincretinendo. Tra l’altro non mi sembrano nemmeno sicurissimi di dove sia Genova, sto confondendo la gente inutilmente.

Scrivo da un tavolino all’aperto, nella Casa degli Italiani, sotto un provvidenziale ombrellone. Di giorno è estate, sono in maniche corte e ciabattine. Di sera no, è come in Italia e non è tempo di archiviare il giaccone. Siamo a 2000 metri, qua, e c’è un’escursione termica che si fa sentire.
Continuo a litigare con i mezzi di comunicazione: niente cellulare, diversi internet cafe’ ma la linea va e viene ed è lentissima, e in certe ore del giorno muore del tutto. I loro computer sono un inno a
Microsoft, tra l’altro, e non mi leggono i files in Open Office e di chat c’è solo Msn e Yahoo, morire se trovo Skype da qualche parte.
Sono riuscita a mandare qualche email, spero che a casa non mi diano per dispersa. Mi scoccerebbe essere cercata dalla Farnesina.

Asmara somiglia poco all’idea di città africana che una avrebbe in mente. A me fa pensare a qualche Avellino degli anni ’50. Per la gente e per i negozi, dico, e per certi cibi italiani all’antica. L’aria no,
l’aria è come quella di Tenerife, col silenzio di fondo e i cinguettii di centinaia di uccelli. C’è poco traffico e un sacco di biciclette, mi farebbe bene vivere qua.

La quantità di discretissimi mendicanti che sbucano dal nulla e ti tendono la mano è in nettissimo contrasto con l’ordine apparente e con i bar pieni di gente, con la pulizia che c’è in giro e che farebbe pensare a un benessere più diffuso di quanto non sia in realtà.
Leggevo che la polizia scoraggia l’accattonaggio, sarà per questo che sono discreti e sussurrano. Sussurrano anche che vorrebbero cambiarti gli euro al mercato nero, ma io vorrei evitare di finire in galera, francamente, o di farmi sequestrare i quattro soldi che ho e che ho dovuto anche dichiarare all’entrata, e all’uscita mi chiederanno le ricevute dei cambi. Non ho più l’età per cercare guai.
Non si vede polizia da nessuna parte, mi accorgo all’improvviso.
Saranno tutti in borghese, non c’è altra spiegazione.

Mi guardo allo specchio e mi odio: cosa mi fa l’Italia, cielo santo? In Egitto non ero dimagrita né ingrassata di un grammo, e già mi lamentavo. In Italia è una Caporetto, non ho più nessun controllo
sulla mia vita e mi dimentico, proprio mi dimentico di volermi del bene. Faccio le cose che devo fare, vivo meglio che posso e me la cavo anche bene, apparentemente, ma non ho nessun tipo di rapporto col mio corpo. Qui lo sento, invece, e soprattutto lo vedo, cosa che in Italia non riesco a fare. E mi detesto, guarda.

Immagino ogni secondo di vivere qui: cerco la casa in cui mi piacerebbe vivere tra le strade attorno ad Harnet Avenue, penso a quale bici vorrei avere: c’è un leggero pendio, in città, le marce non mi dispiacerebbero. Muoio dalla voglia di fare amicizia ma non so con chi farla. Gli eritrei sono gentili e amichevoli, per lo più, ma la sanno lunghissima e io sono tenerella, appena sbarcata. Ho bisogno di ascoltare, mentre loro fanno solo domande.
Il mio ideale sarebbe un residente italiano anche un po’ narciso, in questo momento, di quelli che parlano e parlano e parlano e ti raccontano tutto. Gli offrirei da bere fino a stanotte, pur di sentirmi raccontare questo posto. Se almeno internet funzionasse me lo cercherei online, giuro. Sicuro che c’è, da qualche parte qua attorno, un italiano desideroso di raccontarmi cose. Se solo sapessi dove.

Un garbatissimo vecchietto eritreo, in giacca e borsalino, mi mostra delle monete parlandomi di Vittorio Emanuele. Mi porge una Lira, col fascio da una parte e il testone del re dall’altra. Non fa in tempo a dirmi quanto vuole, viene scacciato subito. Non ero mai stata in un’ex colonia italiana, non credevo neppure che fosse un’esperienza possibile. E invece l’ex colonia esiste, è questa. E trabocca di Italia, la senti in ogni pietra di Asmara. Non mi stupisce che gli italiani non si volessero schiodare da qua. Non mi stupisce proprio per niente. Li immagino innamorati, gli italiani di allora, e persi e
senza più equilibrio, e non ricambiati. Mi sembra un posto di quelli che si amano invano.