In Eritrea non si gira liberamente. Una volta che sei nel paese ti presenti all’Ufficio del Turismo e dici, tipo: “Voglio andare a Massawa”. Poi passi la sera o il giorno dopo a ritirare il permesso, che è un foglio pieno di timbri dove c’è scritto anche quanto tempo puoi rimanerci, a Massawa.
Se però vuoi anche andare, chessò, a Keren, non puoi chiedere il permesso nella stessa occasione: devi PRIMA andare a Massawa e poi, al ritorno, rifare la trafila per Keren. Laborioso, sì.
A me, quindi, non è stato possibile andare a Keren. Perché sono arrivata in Eritrea sabato notte, ho dovuto aspettare il lunedì per chiedere il permesso per Massawa, l’ho avuto la sera e la mattina dopo, martedì, sono partita.
Pensavo di rimanere giù tre o quattro giorni e poi fare una scappata a Keren per vedere il mercato del lunedì successivo, ma nei giorni festivi l’Ufficio del Turismo è chiuso e non rilascia permessi. E siccome è Pasqua, questa settimana chiudono da giovedì a domenica, il cielo li fulmini, e impiegherei tutto il lunedì ad avere il permesso e il giorno dopo torno in Italia, quindi niente Keren. Impossibile. Soffro molto, ma non posso farci proprio nulla.
Asmara – Massawa, 30 marzo
Gli ambulanti salgono su questo spettacolare bus scartellatissimo in partenza per Massawa offrendo, in lingua tigrina: “Grissini, grissini! Biscotti, biscotti!” E stanno effettivamente vendendo grissini e biscotti, i prestiti linguistici sono una gran cosa. Mi beo della sensazione di capire il tigrino e arricchisco il mio vocabolario che finora comprendeva solo “mai gaz”, che è l’acqua con gas, e “mai plastic” che è l’acqua nelle bottiglie di plastica, quindi senza gas.
So’ poliglotta, vado.
O, per meglio dire, in qualche modo si parte.
Il caos non è in alcun modo superiore a quello dell’Alto Egitto, comunque. L’unica cosa è che i bus non hanno un orario di partenza stabilito o un sistema di prenotazione. Semplicemente, ti presenti alla stazione, salti sul bus in partenza e ti accaparri un posto, possibilmente tra i sedili davanti, dove l’aria è più fresca. Bisogna essere veloci e decisi, la concorrenza è spietata e ti saltano in testa, se non ti sbrighi. Per ultimo arriva l’autista, fa partire musica pop africana a tutto volume e via, in un attimo siamo fuori da Asmara.
Colline, distese di cactus, fichi d’India a milioni. Un cimitero di guerra, credo sia quello britannico. E poi un posto di blocco e il poliziotto che prende il mio permesso, se lo mette in tasca e se ne va. Sbircio nella sua casupola e vedo che se lo sta ricopiando a mano. Se lo sapevo, facevo qualche fotocopia. Si riparte.
Il bigliettaio è un bambino dall’aria cupa, ha anche sonno. Tiene la penna infilata in cima alla testa, giusto al centro, tenuta ferma dai riccioli fittissimi. Ogni tanto appoggia la testa allo sportello del bus e si addormenta, poi si risveglia di colpo e così via, andrà avanti per tutto il viaggio.
Dal posto di blocco, un cartello indica che Massawa è a 103 km durante i quali scenderemo di oltre 2000 metri in una successione di tornanti. Se uno soffre di vertigini, qua, se le fa passare.
La strada è spettacolare e, per lunghi tratti, corre parallela a un unico binario di ferrovia che si snoda giusto sotto di noi, lungo le montagne. Deve essere la Asmara-Massawa costruita a suo tempo dagli italiani, poi smantellata per usarne il ferro durante la guerra con l’Etiopia e poi ricostruita di nuovo. Passano dei falchi, credo.
Sul bus, sono l’unica straniera ma non suscito nessuna curiosità. Qualcuno mi ha dato gentili suggerimenti su dove piazzare la borsa ma, per il resto, non mi si filano di striscio.
Passiamo per Nefasit: Pugno di case, binario, chiesetta, moschea. Un enorme campo di calcio in terra battuta, ragazzi in tutta rossa che corrono compatti.
Continuiamo a scendere piano lungo i tornanti, e del resto c’è poco da correre. La tranquillità dell’autista mi permette di contemplare le lucertole che prendono il sole su questi grossi massi tondeggianti.
Da una curva sbuca un intero plotone di ciclisti, col casco e la tutina e tutta l’attrezzatura sportiva. Sembrano SMP quando va in bici sui monti liguri, solo che lui è più chiaro.
A Ghinda ci fermiamo a riposare, ho fatto bene a comprare le Marlboro durante lo scalo all’aeroporto del Cairo. In Eritrea sembrano vendere solo Pall Mall.
Prima di Massawa il paesaggio si fa piatto e desertico. Dalla primavera si passa all’estate piena.
Per arrivare dal terminal di Massawa all’albergo dove penso di fermarmi, che è il Central Hotel, devo prendere un taxi collettivo. Ne passano un paio strapieni, poi uno che si ferma e il bigliettaio mi chiama: “Sono 50 nakfa”, mi fa. “Ma dai…”, gli sibilo. Sono due nakfa, non cinquanta. Mi sono informata due minuti fa, imbecille. E un gruppo di eritrei mi passa avanti e qualcuno mi dice che non c’è più posto. Certo, mi hanno scavalcato mentre quello cercava di taglieggiarmi. “This is not nice”, dico al bigliettaio tranquilla, piantandogli lo sguardo in faccia per tirare giù il suo, mentre mi lasciano a terra. Che stronzo, gessù.
Io le odio, queste cose. Sono capace di farmi una giornata di marcia sotto al sole tirandomi dietro la borsa, piuttosto, ma non pagherò nemmeno un centesimo più di quanto costi la corsa. Sul mio cadavere, devono passare. Per fortuna il taxi successivo si comporta normalmente, si prende i miei due nakfa e mi risparmia di morire sciolta sull’asfalto di Massawa. Per fortuna, e sono ancora incazzata. Poi, sul taxi, una ragazzina mi si siede accanto e comincia a togliermi dalla maglietta i pelucchi, e dei capelli che ci sono caduti sopra. Mi chiede se ho caldo, ridiamo. Ok. Calma.
Arrivo, meritato, al Central Hotel:
Che belli questi tuoi racconti Lia!! E’ sempre un tale piacere leggerti!! Buon rientro (anche se mi sa che ti piangerà il cuore) :-)))
/graz
Mi unisco a Graz. E’ proprio sempre un piacere leggerti e viaggiare con te. Grazie cara Lia.