31 marzo

Mi sono svegliata a mezzogiorno, sono una bestia. Ma è che mi sono dibattuta tutta la notte nella tragica scelta tra l’aria condizionata, che mi fa malissimo ma tiene alla larga gli insetti, e la preoccupazione per l’invasione che avrei dovuto fronteggiare se l’avessi spenta. Sui letti ci sono delle robuste zanzariere, ma il letto in sé è imbottito e molto sospetto, l’imbottitura è piena di buchi. Alla fine l’ho tenuta accesa, l’orrida aria condizionata, e la mia stanza pareva un igloo, gelida in questa Massawa bollente, e io sotto la zanzariera, infilata nel sacco a pelo e col lenzuolo arrotolato attorno al collo per proteggerlo dal torcicollo che mi arriva, inesorabile, quando mi espongo a ‘sti freddi. Ho dormito malissimo, insomma, ma in un ambiente asettico come un frigorifero. Mi sa che stanotte cambio strategia e spengo l’aria assassina. Userò gli scarrafoni come peluche, dormirò volendogli bene.

piscina

Massawa è struggente, ecco. Bevo qualcosa al Red Sea Hotel, che prima della guerra era un posto fighetto e poi è stato bombardato e ricostruito. Ha un bel giardino, una bella terrazza. Oltre il giardino, in riva al mare, una piscina enorme e senza una goccia d’acqua. Accanto alla piscina vuota, su una sedia, una solitaria turista legge un libro e si abbronza. La spiaggia è impraticabile, piena di ferri arrugginiti. Saranno i pezzi di albergo bombardati, non so. Entro, ammiro i saloni deserti, chiedo una birra al bar interno che si chiama Oyster bar. Oyster?

Fuori c’è un imponente monumento ai carriarmati rotti. In giro rimangono palazzi bombardati, case coi buchi dei proiettili. Un manifesto commemora l’anniversario della guerra contro l’Etiopia col disegno di una bella ragazza eritrea, armata e incazzata.

donne

Pare che le donne di questo paese si siano conquistate il rispetto della popolazione tutta, durante la guerra. Hanno combattuto come gli uomini e ancora adesso fanno il militare come loro. E in effetti ne incutono, di rispetto, leggiadre e sicure come sembrano. Si direbbero parecchio libere, le vedi in giro a tutte le ore e vestite in tutti i modi. E al lavoro, nei locali fino a tardi. A fare le cameriere, le boss, di tutto. Le prostitute, anche. Mi dicono che lo fanno con l’incoraggiamento della famiglia, spesso. Uno straniero invaghito può risolvere un mucchio di problemi a molta gente, qua.

Io, ecco, credo che mi invaghirei, se fossi un maschio straniero. A volte, guardandomi attorno, mi pare di essere circondata dalle donne più belle del pianeta. Di sicuro, le più belle che io ricordi. Non c’è storia, proprio.
E poi mi scopro a canticchiare “Bella abissina”, giuro, ma è che adesso capisco cosa intendevano dire, i fascisti in trasferta, e la mia è solo un’associazione di idee canora e spero che non mi senta nessuno e che non mi picchino scambiandomi per una nostalgica del Duce, gessù: le canzoni che ti si ficcano in testa non sono intenzionali e non ho colpa.

Il Central Hotel è la base per gli aperitivi di Massawa: mettono i tavolini in riva al mare e ti portano la birra Asmara, che non ha bisogno di avere etichette sulla bottiglia perché è l’unica birra eritrea. Le bottiglie, le riciclano.
Incontro il consulente FAO coi suoi due eritrei. Spiego che andrò a Massawa vecchia a caccia del pesce alla yemenita. Quando ci arrivo, parecchio dopo, i due eritrei sono lì e mi fanno ampi gesti, mi porgono una sedia, bisogna cenare assieme. Uno è del ministero che lavora col consulente FAO, l’altro è l’autista della spedizione. Ed io provo una sensazione da Unione Sovietica e mi domando se sono lì per caso, per curiosità, per galanteria o – e mi pare la risposta più probabile – per farmi domande e sapere chi diamine sono. Chiacchieriamo. Uno fa un commento un po’ spinto sugli etiopi, di quelli che non andrebbero fatti davanti a una signora. Il mio irrigidimento immediato e lo sguardo da prof gli fanno passare all’istante la voglia di riprovarci. La conversazione prosegue, civile e anche interessante, se non fosse per la claustrofobia che provo. Il pesce alla yemenita vale il viaggio e pure le domande, tuttavia: è cotto in un forno di terracotta, succosissimo e polposo, ed è accompagnato dal pane arabo appena fatto con una salsina al berber, piccante e fresca allo stesso tempo. Ok, chiedetemi quello che volete, io intanto mangio. Mi chiedono persino se sono mai stata in Eritrea da bambina.

ristorantemassawa

E poi me la svigno, spiegando che devo andare all’internet cafè perché sennò papà si preoccupa, e loro mi informano che passeranno a prendermi in macchina per riportarmi in albergo. Non rimane che la fuga lungo il ponte, approfittando del fatto che l’internet cafè non funziona, e me la batto veloce. Solo che, a metà ponte, c’è un minibus con una ruota a terra, un mucchio di ragazzi e bambini che cercano di cambiarla nel buio più pesto e senza cric, ed io ho una pila tascabile nella borsa. Una pila bellissima, tra l’altro, che funziona a energia solare e ce la regalò l’Ikea, a SMP e a me in cambio di un’intervista su non so cosa. Caccio la pila, la porgo al gruppo, mi siedo su un gradino mentre loro lavorano. Manco mi si vede, nel buio. Poi torno in albergo, inseguita dai ringraziamenti generali e sentendomi membro a pieno titolo dei pubblici trasporti di Massawa, e lì stanno i due eritrei perplessissimi, che non si spiegano come hanno fatto a non vedermi lungo la strada del ritorno, eppure mi hanno tanto cercata per darmi un passaggio…
Poi glielo chiedo, al consulente FAO, quando rimaniamo soli davanti ad altre birre: “Ma questi ti aiutano o ti controllano?” Dice di no, che lo aiutano. Vabbe’, sono una tipaccia diffidente. Magari erano solo amichevoli, boh.
Riparte domani, lui. Come gran parte di chi fa il suo mestiere, si sente solo e vuole bere, sciogliersi e parlare. Mi racconta delle figlie, della moglie, dei nipoti. E’ una gran brava persona, mi spiega che essere nonni è un’emozione intensissima. Non so quante birre ordina, saranno una quindicina. Ci scambiamo gli indirizzi email, ci salutiamo da grandi amici. “Keep in touch whith the dutch”, mi dice salutandomi, e credo sia una sorta di grido di guerra degli olandesi all’estero.

1 aprile.

Massawa mi concilia il sonno, non ho altro da dire. Mezzogiorno di nuovo, con questi ritmi non riuscirò a fare mezza gita. Dovrei andare in banca a cambiare quattrini, ma sono aperti dalle 7 del mattino alle 11, troppo tardi. Eccerto, con ‘sto caldo chi vuoi che lavori a mezzogiorno? Riaprono tra le 4 e le 5 del pomeriggio, mi dicono. E io mi riaddormento, mi sveglio di soprassalto, arrivo alla banca alle 5 e cinque minuti ed è chiusa, merde. E domani è venerdì santo, figurati se aprono. Il poliziotto di guardia, fuori, ride e mi suggerisce di cambiare al mercato nero. “Spiritoso”, borbotto furente.
L’internet cafè sembra funzionare, ci metto solo una ventina di minuti ad aprire Gmail. Viene fuori la pagina senza le vocali, ma chi ha bisogno di vocali? Chiedo il permesso di fotografarla per ricordo, mi viene accordato da un perplesso gestore del luogo che non ci vede niente di strano, in una Gmail senza vocali.
ggl

Nella posta c’è Marzia che mi cazzia e SMP che mi dà per dispersa e pare rassegnato. Venti minuti per rispondere a uno, altri venti per rispondere all’altra. Sigarette, passeggiate e cocacola negli intervalli tra un’apertura di pagina e l’altra. Mando un vecchio post a Marzia, magari me lo carica sul blog. Mi fido sulla parola, ché aprire la mia pagina è impossibile pure ad Asmara, figuriamoci qua.
Mi accorgo che non avrei mai avuto un blog, se fossi venuta a insegnare qua anziché in Egitto. Che strano, gessù. Eppure ci si abitua, a non comunicare col mondo. Non è nemmeno tanto male, me lo devo confessare.