asmarapalace

5 aprile

All’Intercontinental Hotel di Asmara c’è la piscina, apprendo, e mi ci dirigo tosto. L’Intercontinental è l’albergo più lussuoso dell’Eritrea ma l’accesso alla piscina, per i non residenti, costa 200 nakfa al giorno. Dieci euro, al mio infelice tasso di cambio. Figuriamoci a quello del mercato nero, che è 3 volte tanto.
E’ sulla strada verso l’aeroporto, devo andarci in taxi. Chiedo al taxista quanto vuole, la risposta è sempre quella: 50 nakfa. Che io voglia fare 100 metri o 2000 non cambia nulla, ovunque io voglia andare mi chiedono sempre 50 nakfa. Per corse che invece hanno prezzi variegati per i locali, ma a me non è nemmeno permesso contrattare: appena lancio una controfferta, mi schifano e se ne vanno. Qualcuno mi diceva che soprattutto i cristiani sono impermeabili alla contrattazione, testoni come spesso sono i cristiani d’Oriente. Con i musulmani si negozia di più, dicono, ma si vede che non fanno i taxisti.

L’Intercontinental ha un nome incerto, nel senso che prima si chiamava così e adesso si chiama “Asmara Palace” ma la Lonely Planet ancora non lo sa. Comunque lo vogliano chiamare è un 5 stelle senza pretese esagerate e, soprattutto, senza quasi clienti, almeno a prima vista. Vuoti i ristoranti, vuoti i bar, vuota o quasi la piscina: c’è un tizio occidentale molto male in arnese e munito di stivali da cowboy che dopo un po’ si toglie, rimanendo sdraiato al sole coi calzini bianchi ai piedi. Non fa il bagno, sembra avere freddo, legge un po’ e se ne va. Fossimo negli anni ’70, penserei a un danaroso tossico venuto in Africa a smaltire tossine. E poi c’è un africano molto atletico, invece, che si tuffa elegante, fa un centinaio di vasche, rimane in ammirata contemplazione delle mie cicce per un bel pezzo, bontà sua, e poi se ne va anch’egli, mentre io non sollevo il naso dal mio libro. Sto leggendo Gomorra, ho pensato che l’Eritrea fosse un buon posto per decidermi ad affrontarlo. E’ che, da napoletana, ho bisogno di distanza.

Accanto alla piscina scoperta ce n’è una coperta, e lì ci si infilano due arabe velate integrali con un gruppetto di bimbi. Sempre claustrofiliche, loro: posto coperto che vedono, posto in cui si installano. Solo che, una volta dentro, si tolgono i veli senza accorgersi che le vetrate della piscina sono trasparenti e che le vedi benissimo, giovani e con i colpi di sole biondi, belline, con nasi decisi. Mi chiedo se sono saudite: poi decido di no perché i loro bambini sono magri. Boh, verranno da qualche parte del Golfo. I bambini mi indicano col dito da dietro i vetri, io sono in bikini, si staranno chiedendo perché. Solita storia.

Poi piove, poi c’è il sole, poi piove ancora, poi ci sono sole e pioggia insieme. L’acqua della piscina è calda, l’aria è calda e secca, tra uno scroscio di pioggia e l’altro, io ormai sono completamente sola ed ho la piscina tutta per me, o l’intero albergo. E’ una specie di versione oltrecortina dello Sheraton dove andavo in piscina al Cairo: gli ombrelloni, le sdraio, la sensazione di un luogo curato, con i giardini e lo spogliatoio con le docce vere, da cui scende un mucchio di acqua. Però non c’è niente e nessuno. E’ un Cairo dopo l’atomica, un Cairo in versione giocattolo dove hanno dimenticato di mettere la gente.

Vado in esplorazione, mangio qualcosa sull’enorme terrazza del Caffè Milano. Ci sarebbero anche un paio di ristoranti e dei pub, dentro l’albergo: Vecchia Trattoria di Bergamo, La Fontana, cose così. Tutto troppo grande per tanto vuoto. Mangio un panino, quello più semplice in un improbabile menù che promette, tra le altre cose, prosciutto di maiale (ma manco morta, guarda) e la clamorosa tentazione di un Calzone Pugliese con dentro la ricotta, come deve essere e come nell’Italia del nord non trovi mai, e invece hanno ragione gli asmarini: ci vuole la ricotta, nel calzone. Diteglielo, a quei vandali di lombardi, liguri e affini.

Mangio il panino, mi rinchiudo nella mia beatitudine, penso a me. Mi sento spezzettata in mille vite diverse, non comunicanti l’una con l’altra. Non c’è una continuità, nelle mie vite. Non si fondono. E’ una sensazione che ho sempre avuto, fin da bambina. A volte ero figlia di una mamma senza un soldo, a volte ero figlia di un padre danarosissimo. A volte ero una brava scolara, altre bigiavo a scuola per andare a dare cristiana sepoltura ai gatti morti che avevo visto per strada. Sempre vite parallele, ma senza segreti: ero pronta a spiattellarne i particolari a chiunque me li chiedesse. Le avevo per curiosità, non per riservatezza. E’ che non volevo privarmi di nessuna vita, di nessun modo di essere. A dieci anni volevo fare la contrabbandiera di sigarette, come gli scugnizzi della mia zona, ma ero anche la brava nipotina dei nonni, non mi è mai parso che le due cose fossero incompatibili. Erano bellissime entrambe, l’importante era che nessuna fosse definitiva.

C’è stato un momento in cui tutto si è fuso e mi sono scoperta felice, e forte: è stato durante l’analisi, quando raccogli tutto e ne fai narrazione e lo fai per te stessa, mentre la tua silenziosa analista freudiana si limita a dirigere il traffico delle emozioni, della verità che è la linea conduttrice di tutto. Una grande pienezza, l’analisi, una pienezza che ti rende leggera.
Poi la vita è andata avanti e si è spezzettata di nuovo, però, e forse va bene così, ché sennò sarei rimasta ferma in quella mia conquista come una madonna in un quadro, come la vignetta di me stessa con tanti putti attorno, e i piedi poggiati tra nuvole, palme e palazzoni lombardi. O come un polpettone, con tutti gli ingredienti bene amalgamati.
Sono ritornata ai miei frammenti, a dividere i miei ingredienti gli uni dagli altri.

Penso che ho avuto una bella vita, piena, spesso molto divertente: mi dispiace solo di averne dimenticato almeno la metà. Forse quella più divertente, appunto, e me ne rimane la sensazione mentre gli episodi mi sfuggono, so solo che ce ne sono stati un mucchio.
Ogni tanto, in rete, mi sbuca una trolla che denuncia a chi la vuole ascoltare le mie avventure adolescenziali. E’ una mia ex amichetta di quando eravamo ragazzine, e tutto quello che racconta è vero, in qualche modo. Poi è anche falsato, imbruttito, stravolto dal fatto di essere raccontato con un odio che si sovrappone alla realtà e la caricaturizza, trasforma la mia vita in un suo urlo isterico.
Quando succede e me ne accorgo, io la ascolto. L’ho letta spesso, in commenti che parlavano di me su qualche blog. Non confermo e non smentisco ciò che dice perché il confine tra le due cose è labile e la sua narrazione finisce con l’avere vita propria, smette di parlare di me e parla solo di lei. Come si fa a smentire le emozioni di un’altra persona e, soprattutto, perché farlo?

Le donne sono terribili, quando odiano ciò che hanno amato. Conosco quel tipo di odio, l’ho incrociato più di una volta. L’odio maschile è diverso, più calmo ed efficace sulla lunga distanza, più pulito, più finalizzato.
L’odio femminile è un gran casino, invece, e riesce ad essere spaventosamente privo di dignità e di senso estetico. E’ brutto da guardare. Le donne si suicidano nell’odio: starle a guardare è l’unico modo di affrontarle, fanno tutto da sole.
Le donne odiano sentendo dolore, e il ricordo del loro dolore è tutto ciò che rimane, quando hanno finito di urlare.

Io sono scarsa, come odiatrice: sono troppo autoreferenziale per odiare come si deve, con tutte le emozioni concentrate su altri. E poi non so concentrarmi sulle donne. So volere bene alle donne, questo sì. Ma non so amarle sviscetaramente e, di conseguenza, non so odiarle visceralmente. So rompere le amicizie, se è il caso e con dispiacere, ma non sono mai nemmeno vendicativa, con loro. Con gli uomini sì, invece: con loro ci tengo persino, ad essere vendicativa, se ce ne sono motivi. A costo di farmi un nodo al fazzoletto. E a volte è necessario che me lo faccia perché, anche con loro, la mia carica emotiva non riesce a essere ostile fino in fondo e la mia voglia di fare del male, quando la provo, è una scelta e non una necessità. Lo considero giusto, tutto qui. E sano, soprattutto sano. Perché essere vittima di un uomo è troppo disdicevole, non può succedere. Devi reagire per forza, è come ristabilire l’ordine cosmico.
In realtà divento dispettosa, mi pare il termine più adatto.
Con le donne non è necessario, non ne ho mai sentito il bisogno. E, guardando quelle che odiavano me, mi è sempre sembrato lampante che si stessero umiliando.

Deve essere il nome di un ristorante che ho visto prima, ciò che mi ha scatenato questo mare di riflessioni sull’odio, e tanti ricordi. La Trattoria di Bergamo, che mi appare ad Asmara e mi chiedo se facciano i dolcetti a forma di quaglie di polenta, come nelle pasticcerie bergamasche. Ci penso, a volte, alla mia odiatrice di quelle lande. E’ la prima volta che ne parlo, dopo tanti anni in cui si è data da fare con energia ammirevole per fare una lotta che io non ho voluto fare. Penso a lei e mi viene da sorridere: eravamo così piccole.
E penso che è così strano, che è tutto vero ciò che racconta, ed è tutto falso, e sarà sempre così. Perché non ci sono i chiaroscuri, nella sua narrazione, quindi non c’è realtà. Interpretare la vita senza chiaroscuri è sinonimo di follia, è proprio la stessa cosa.
L’ho vista impazzire. E poi l’ho vista fare della mia vita un suo delirio.
E poi l’ho visto succedere ancora, ad altre donne, nello stesso modo.
Che roba strana.

Mi piacciono gli albergoni d’Africa, i pub di legno e cuoio dove si può fumare, gli sgabelloni al banco e l’odore della birra. Certo che potrei viverci, qui. Lo sapevo già. Posso anche non viverci, però, e questo non lo sapevo. Ho fatto bene a venire, dovevo assolutamente scoprirlo.

In questo viaggio mi sono scoperta le prime rughe vere: non più segni di espressione, proprio rughe. Saranno stati gli spostamenti, gli sbalzi climatici che ti fanno svegliare con le occhiaie gonfie o, semplicemente, l’interesse con cui mi guardo allo specchio. Sarà che tra poco più di un anno e mezzo faccio 50 anni.

Non mi dispiace avere rughe, non mi danno fastidio. Mi dispiace molto di più che i lineamenti del viso perdano fermezza, che la pelle ti tradisca. Le rughe intensificano ciò che sei mentre gli scherzacci della pelle ti sbiadiscono. E ingrassare, dio mio, che sei obbligata ad essere te stessa con tutte le tue forze, per farti riconoscere sotto le cicce che hai messo su.
La cosa strana è che sei sempre tu, cambia solo la buccia. Ed ha senso che cambi. Come le stagioni, ché sennò come fai.