(Cose scritte qua e là, pensieri che scorrono, rumori dalla cucina ed è la figlia che si prepara il latte coi biscotti).

Faccio, con mia figlia, delle litigate spaventose e delle chiacchierate infinite.
Quando litighiamo è perché circola, tra me e lei, questa faccenda della comunicazione extrasensoriale per cui ognuna risponde alla cosa che l’altra ha pensato, non a quella che ha detto. E nessuna delle due ci sta, ad avere un’interlocutrice che vuole discuterti i pensieri: non è manco sano, i pensieri non sono più veri delle parole. Sono solo meno ragionati.
Quando chiacchieriamo, invece, è perché sì, perché sennò non saremmo io e lei.
Ho rinunciato a nascondermi da lei. Ci ho provato per anni, con alterne fortune, e l’epoca in cui mi perquisiva la casa fino all’ultimo angolo per beccarmi i diari è l’epoca in cui cominciai a scrivere in rete, secoli fa. Mi parve che internet fosse, a quel punto, l’unico luogo dove non avrebbe potuto scoprirmi. Certo che ne è passato, di tempo.
Alla fine, di segreti con mia figlia non ne ho più. Quelli che non le ho svelato direttamente glieli hanno raccontati altri: premurose ex cognate pronte a prendersi la briga – e di certo il gusto – di narrarle le mie tempestose avventure giovanili, leggende familiari ed amicali che iniziano tutte con un: “Ma come hai fatto a crescere così assennata con tanta madre?”, e poi i miei diari, appunto, e i miei quaderni, la mia sempiterna mania di scrivere i cazzacci miei, la sua scientifica, calcolata, curiosità. Mi ha guardato molto, mia figlia. Molto a fondo. E mi conosce come nessun altro, mi decodifica da ogni singola inflessione della voce. Abbastanza impressionante, e l’unico motivo per cui non mi spavento è che la sua conoscenza di me è pari al bene che mi vuole.
Una è preparata a che la cosa sia al contrario, a che ad essere telepatica sia la madre. E invece lei ti anticipa, ti batte, prende il controllo della situazione. Pure io lo so fare, pure io so leggerle i pensieri. Ma lei ci va giù piatto, più piatto di me. Deve essere perché io le do tempo, non vedo mai nulla di definitivo. E’ talmente giovane, come si fa a fotografare una che cresce? Lei mi ha fotografato a ripetizione, invece, e vede come cambio e come invecchio, anche, e come rimango uguale a me stessa, e me lo racconta facendomi pochissimi sconti, profondamente a suo agio tra i miei difetti ancora più che tra le virtù. Quando si chiacchiera, io e mia figlia, si dice sempre la verità.
Oddio. ‘Verità’ è una parola imprecisa. Da parte sua, dico.
Credo che uno dei motivi per cui lei ci ha guardato tanto – me e suo padre, entrambi – è perché doveva imparare a torearci. Era in minoranza – l’unica bambina della casa – e doveva ridurci alle sue esigenze. Non c’è nessuno al mondo – nessuno, nel pianeta intero – capace di manipolarmi come lei. E io lo so, come è successo.
E’ nata che io avevo 20 anni e suo padre 18. Pianse una notte, poi dovette capire che rischiava la vita. Passò ai sorrisi. Ed io pensai: “La Natura è saggia e dà i figli pestiferi a chi sa sopportarli. La mia ha capito che la sopportazione è pochina, qua, e per questo sorride e dorme. Lo fa apposta, ne sono certa. Lo fa per tenerci buoni.” In effetti, non ho mai avuto nessuna comprensione per chi si lagna di avere figli tremendi: penso sempre che è perché hanno comunicato ai pargoli che c’era lo spazio per esserlo, pestiferi. Magari pure la necessità. E’ una bella distrazione, un figlio pestifero.
La mia, no: ci ha preso le misure e ha deciso che andavamo rigirati con le buone, fino a diventare una professionista del farsi dire di sì. E questa, poi, è la differenza vera, fondamentale, che c’è tra me e mia figlia: che io dico quello che voglio senza fronzoli e ringhio quando me lo negano. Lei ti porta per mano a darle quello che vuole, invece, facendoti credere che lo hai deciso tu. Usa tecniche contro cui io non ho difese.
“Tu mi immagini sempre diabolica”, ride. Ed io annuisco, sentendomi scura e terrestre davanti a una svolazzante fatina bionda.
Faccio, con mia figlia, delle litigate spaventose e delle chiacchierate infinite.
Quando litighiamo è perché circola, tra me e lei, questa faccenda della comunicazione extrasensoriale per cui ognuna risponde alla cosa che l’altra ha pensato, non a quella che ha detto. E nessuna delle due ci sta, ad avere un’interlocutrice che vuole discuterti i pensieri: non è manco sano, i pensieri non sono più veri delle parole. Sono solo meno ragionati.
Quando chiacchieriamo, invece, è perché sì, perché sennò non saremmo io e lei.
Ho rinunciato a nascondermi da lei. Ci ho provato per anni, con alterne fortune, e l’epoca in cui mi perquisiva la casa fino all’ultimo angolo per beccarmi i diari è l’epoca in cui cominciai a scrivere in rete, secoli fa. Mi parve che internet fosse, a quel punto, l’unico luogo dove non avrebbe potuto scoprirmi. Certo che ne è passato, di tempo.
Alla fine, di segreti con mia figlia non ne ho più. Quelli che non le ho svelato direttamente glieli hanno raccontati altri: premurose ex cognate pronte a prendersi la briga – e di certo il gusto – di narrarle le mie tempestose avventure giovanili, leggende familiari ed amicali che iniziano tutte con un: “Ma come hai fatto a crescere così assennata con tanta madre?”, e poi i miei diari, appunto, e i miei quaderni, la mia sempiterna mania di scrivere i cazzacci miei, la sua scientifica, calcolata, curiosità. Mi ha guardato molto, mia figlia. Molto a fondo. E mi conosce come nessun altro, mi decodifica da ogni singola inflessione della voce. Abbastanza impressionante, e l’unico motivo per cui non mi spavento è che la sua conoscenza di me è pari al bene che mi vuole.
Una è preparata a che la cosa sia al contrario, a che ad essere telepatica sia la madre. E invece lei ti anticipa, ti batte, prende il controllo della situazione. Pure io lo so fare, pure io so leggerle i pensieri. Ma lei ci va giù piatto, più piatto di me. Deve essere perché io le do tempo, non vedo mai nulla di definitivo. E’ talmente giovane, come si fa a fotografare una che cresce? Lei mi ha fotografato a ripetizione, invece, e vede come cambio e come invecchio, anche, e come rimango uguale a me stessa, e me lo racconta facendomi pochissimi sconti, profondamente a suo agio tra i miei difetti ancora più che tra le virtù. Quando si chiacchiera, io e mia figlia, si dice sempre la verità.
Oddio. ‘Verità’ è una parola imprecisa. Da parte sua, dico.
Credo che uno dei motivi per cui lei ci ha guardato tanto – me e suo padre, entrambi – è perché doveva imparare a torearci. Era in minoranza – l’unica bambina della casa – e doveva ridurci alle sue esigenze. Non c’è nessuno al mondo – nessuno, nel pianeta intero – capace di manipolarmi come lei. E io lo so, come è successo.
E’ nata che io avevo 20 anni e suo padre 18. Pianse una notte, poi dovette capire che rischiava la vita. Passò ai sorrisi. Ed io pensai: “La Natura è saggia e dà i figli pestiferi a chi sa sopportarli. La mia ha capito che la sopportazione è pochina, qua, e per questo sorride e dorme. Lo fa apposta, ne sono certa. Lo fa per tenerci buoni.” In effetti, non ho mai avuto nessuna comprensione per chi si lagna di avere figli tremendi: penso sempre che è perché hanno comunicato ai pargoli che c’era lo spazio per esserlo, pestiferi. Magari pure la necessità. E’ una bella distrazione, un figlio pestifero.
La mia, no: ci ha preso le misure e ha deciso che andavamo rigirati con le buone, fino a diventare una professionista del farsi dire di sì. E questa, poi, è la differenza vera, fondamentale, che c’è tra me e mia figlia: che io dico quello che voglio senza fronzoli e ringhio quando me lo negano. Lei ti porta per mano a darle quello che vuole, invece, facendoti credere che lo hai deciso tu. Usa tecniche contro cui io non ho difese.
“Tu mi immagini sempre diabolica”, ride. Ed io annuisco, sentendomi scura e terrestre davanti a una svolazzante fatina bionda.