Porto una classe di una scuola molto periferica a fare un giro in una bella struttura del centro città. Attraversiamo un parco e uno dei miei studenti sbotta: “Che angoscia, prof! Mi sto immaginando bande di ricchi che sbucano da dietro gli alberi per farci il culo!

L’anno dopo, lo stesso studente si presenta a scuola coi capelli tinti di biondo. “Calogero, ma che ci fai biondo??“, esclamo. “Perché, prof? Sto male?” “Oddio, no, ma…” Tra l’altro è biondo limone, povero Calogero.

L’anno scolastico si trascina come si trascinano tutti gli anni in quel tipo di scuole, dove l’obiettivo di impedire agli studenti di saltare per la classe e di uscire dicendo: “Vado a pisciare, prof!” tende a prevalere su considerazioni di tipo specificamente didattico. Calogero non apre libro, come il 90% dei suoi compagni, ma in compenso è sempre più palestrato e gira in canotta e bicipite in vista pure a febbraio. Poi, a un certo punto, smette di venire. Il collega coordinatore mi informa, verso aprile, che Calogero ha lasciato la scuola e pure la città e si è unito a un gruppo di naziskin con base in Sud Tirolo. “Ecco perché si era tinto di biondo!“, penso io.

Io sono una che, quando un alunno mi dice: “Ma quelli sono di una razza inferiore!“, gli metto una nota. Proprio una nota sul registro, dove spiego bene che “L’alunno X afferma in classe che le persone di nazionalità YZ appartengono a una razza inferiore”. Perché il mio orecchio non si abitua, mi continua a sembrare una cosa gravissima con risvolti da codice penale e meritevole, quindi, almeno di un provvedimento disciplinare. Gli alunni ne rimangono stupefatti, non se ne fanno una ragione. Se sono alunni nuovi, quelli vecchi glielo spiegano: “Ah, guarda, l’ha messa anche a me l’anno scorso, uguale.” E sorridono indulgenti, come chi ormai si è abituato alla prof eccentrica. A volte rimangono stupefatti pure i genitori, e vengono da me a chiedere lumi. “Signora, il razzismo è reato, lo dicono la Costituzione e il codice penale. Diffondere concetti come la superiorità razziale, non ne parliamo. E questa è una scuola pubblica e io sono una dipendente dello Stato. Questo non vuol dire che io ce l’abbia con lui – glielo assicuro – ma solo che vorrei fargli capire che le idee vanno espresse nel rispetto delle norme che regolano la società.” I prof tendono a fare pistolotti pomposissimi, quando gli arrivano genitori incazzati. Le mamme annuiscono, a quel punto, ed io immagino che, una volta a casa, diranno al pargolo dalla testa rasata di fare il bravo, ché la prof è un po’ strana e bisogna avere pazienza ma che in fondo non è cattiva.

I colleghi – alcuni colleghi – non rimangono stupefatti, invece, ma si limitano a scocciarsi come davanti a una fatica aggiuntiva. Come il coordinatore di classe che, in piena riunione, se ne uscì con un: “Ma le note si danno per cose gravi, non per queste cazzate!” E tu stai per sbranarlo e, un attimo prima di farlo, ti fermi a metterlo a fuoco. E quello che vedi è un signore smunto, opaco, scalcagnato, schiacciato da anni di scuola di periferia e non hai cuore di dirgli alcunché, ti limiti a ribadire le cose di sempre e poi pensi ad altro. Non si infierisce contro chi è impegnato a sopravvivere. Non dopo una certa età.

Le mie note, comunque, sono palesemente inutili. (Erano, anzi, perché in realtà mi sto riferendo a episodi di anni passati, ormai in prescrizione rispetto alla riservatezza da blog.) Forse sono persino dannose, anzi: spiegare a un ragazzo che le sue idee non sono normali ma, addirittura, incostituzionali, non ha necessariamente come effetto quello di farlo rientrare nei ranghi della Costituzione. Magari gli fai scoprire che si sta benissimo fuori, che ne sai. Magari scopre che gli piace, rimirarsi nello specchio da fuorilegge che gli metti davanti. Lui, che pensava di essere uguale a tutti fino a un attimo prima di beccarsi la nota.

Non serve a nulla perché il problema – insuperabile, oggi – è che più sono disastrati e più sono razzisti. Perché, quando non hai opportunità né meriti né talenti, l’unico puntello che non ti tradisce è quello che non richiede nessuna fatica, nessuno sforzo, nessun – appunto – merito: la nazionalità scritta sui documenti, l’eredità di genitori che non lasciano altro che il colore della pelle, degli occhi e dei capelli.  A costo di tingerseli, come Calogero, ché per i figli degli emigrati di ieri c’è ancora una condanna, nel 2010, ed è quella di doversi sbattere più degli altri per diventare ariani.

Poco fa leggevo, su FriendFeed, che il Vice Presidente del Partito Democratico propone alla nazione dieci iniziative per “modificare lʼimpostazione generale della società italiana rispetto al mondo che cambia” con particolare riferimento all’assenza dei “diritti dell’amore”. Tra queste iniziative, che meritano di essere lette per l’accapponante distacco dalla realtà che rivelano, c’è pure quella volta a “eliminare il bullismo dalle scuole”. Pagherei qualcosa per vederlo in azione, Ivan Scalfarotto, mentre elimina il bullismo da certe scuole che ho in mente io. Coi suoi dieci punti, coi diritti dell’ammore. Lo voglio vedere, mentre li spiega a Calogero.

Anche se poi, tutto sommato, pure Scalfarotto è uno che si tinge di biondo, a modo suo. Con i suoi dieci punti, la pigrizia della sua lettura della realtà, il suo confondere la propria sottocultura con l’universo, il ridicolo effetto finale da dispensatore di brioches dove servirebbe il pane. Mi risulta ridicola, la sinistra di Scalfarotto, tanto quanto mi risultava ridicolo Calogero partito coi capelli biondi verso la sua comune di nazisti in Sud Tirolo. Con la differenza che Calogero, figlio del popolo, ha pure sbagliato parrucchiere. A quelli che un tempo si chiamavano proletari, i capelli tinti gli vengono giallo limone. Il PD, lo immagino di un biondo bellissimo.