Da quando ho scritto il post in cui esprimevo disgusto per il modo di rappresentare la rivolta in Egitto di un signore che ho nel mio feedreader, costui – Sherif El Sebaie – ha scritto almeno cinque post in cui mi accusa di orrendi crimini contro l’Egitto, di cui uno divulgato anche fuori dal suo blog.

El Sebaie non ce l’ha solo con me: tra i destinatari delle sue vibranti accuse ci sono anche una misteriosa “articolista che cura un blog da cui lancia accuse a destra e a manca, punta il dito contro questo e quell’altro, incita alla rivolta stando opportunatamente a distanza, tanto ci sono i colleghi di Aljazeera e della Cnn che mandano le segnalazioni da cui scegliere a piacere” , nonché gli stranieri “residenti al Cairo che vanno a manifestare contro un governo che non è nemmeno il loro“.

La posizione che costui dichiara di sostenere sarebbe una sorta di preoccupazione super partes per il paese, che andrebbe “protetto dal caos”. A tale scopo, i manifestanti farebbero bene a tornare a casa giacché Mubarak ha promesso che alle prossime elezioni, tra sette mesi, non si ripresenterà. Gli argomenti che usa per sostenere questa posizione sono di due tipi, e vorrei esaminarli brevemente.

1. Le rivolte danneggiano i paesi.

Il blogger paventa l’irrimediabile “distruzione delle infrastrutture e dell’economia del paese”.  Seguono alcuni esempi di edifici saccheggiati, tra cui un ospedale infantile, e di fabbriche chiuse, tra cui la potente Nestlè egiziana. A prima vista, e senza sapere nulla di come i manifestanti hanno gestito e gestiscono la loro protesta, qualunque Buon padre di famiglia potrebbe annuire dinanzi a quest’argomentazione: le manifestazioni stanno distruggendo il paese, quindi è bene che rientrino al più presto.

La fallacia nel suo ragionamento, tuttavia, sta nei dati che omette: da quello più banale, ovvero dalla paternità dei disordini e dei saccheggi che ci sono stati e che tutti i media hanno attribuito in larga parte ai sostenitori di Mubarak (autentici, prezzolati e/o poliziotti in borghese che fossero), scesi in piazza proprio per scagliarsi contro i manifestanti pacifici, fino ai più importanti: con quale onestà intellettuale si può parlare di danni all’economia egiziana senza neanche sfiorare l’argomento, che ha fatto il giro del pianeta, dell’oscuramento della rete internet e della telefonia cellulare che il governo ha imposto all’Egitto per 5 giorni, causando un danno che è stato stimato in oltre 90 milioni di dollari? Ed è che, effettivamente, reprimere manifestazioni di milioni di persone è costoso.

D’altra parte, io sono certa che, se solo avessero potuto, gli egiziani avrebbero cambiato governo senza manifestare neanche mezz’ora. Neanche per loro è granché facile andare avanti da 15 giorni, tra morti, feriti, arresti e, ovviamente, la perdita di lavoro e di guadagno dei manifestanti stessi, in un paese dove, spesso, la lotta per mangiare è quotidiana.

Il fatto è che, per cambiare governo senza fare una rivolta, normalmente servono delle libere elezioni. Direi che è stata la loro mancanza a spingere il popolo egiziano a combinare questo po’ po’ di caos, no? Il fatto che l’analisi di Sherif ometta questo particolare mi fa supporre che, tutto sommato, egli non ritenga che il desiderio generale di cambiare regime sia fondato o, comunque, da prendere in seria considerazione.

Mi viene da sorridere a pensare a come sarebbe il mondo se la Storia giudicasse le rivolte che lo hanno segnato in base ai danni che queste hanno causato alle infrastrutture. Sarebbe un mondo ben strano. Ordinatissimo, questo sì.

Poi, certo: non è immaginabile un paese in perpetua rivolta e quindi tutti auspichiamo che i manifestanti raggiungano obiettivi che gli permettano di tornare alla normalità senza cadere, il minuto dopo, in un tunnel di arresti, sparizioni, omicidi e torture che, come è noto internazionalmente, sono prassi comuni dove vige la dittatura più che dove vige la democrazia, con buona pace dell’orrenda frase del nostro, secondo cui anche nei paesi democratici “capita che manifestanti pacifici vengano manganellati e torturati o che giovani fermati escano cadaveri dalle stazioni di polizia in cui sono entrati vivi e vegeti, senza che i colpevoli siano adeguatamente puniti.” Certo, capita. Ma con ordini di grandezza incommensurabilmente diversi. E, in queste cose, gli ordini di grandezza contano.

La rivolta avrà avuto un senso se i manifestanti riusciranno a ottenere riforme sostanziali e immediate. Non contentini e operazioni di maquillage di regime. Altrimenti sarà fallita, e nessuno di coloro che si sono esposti dal 25 gennaio ad oggi sarà più al sicuro. Non è un concetto su cui si possa mediare, e non è difficile da vedere.

2. Gli stranieri e la stampa danneggiano il paese.

Non tutti gli stranieri e non tutta la stampa, credo: solo gli stranieri che appoggiano i manifestanti, solo la stampa che mostra le cose come stanno, senza edulcorarle e senza mandare in onda immagini di piazze deserte e tranquille come ha fatto la TV di Stato egiziana nei giorni caldi della protesta.

Sulla libertà di stampa, il discorso è talmente ovvio che lo darei per scontato: non parliamone nemmeno e lasciamo Sherif alle sue invettive contro Al Jazeera.

Mi interessa di più, da ex straniera in Egitto quale sono, e col cuore e i pensieri ancora là da anni, spendere due parole sull’astio, sulle odiose accuse che Sherif ci rivolge.

A loro basta cavalcare l’onda del momento rinvagando l’ambiente che li ha resi celebri sul web, regalarsi l’illusione di aver contribuito ad un “evento storico” o più semplicemente vendere più copie dei loro libri sul Medio Oriente e sugli Arabi, area e popoli che hanno sfruttato con ipocrisia e irresponsabilità. Sfruttatori, si. E non solo a parole. Questo vale anche per coloro che dicono che sono andati li per “lavorare” mentre erano li per fare una vita da “gauche sardine” che nei loro paesi non si sarebbero mai potuti permettere. Perché anche se fosse vero che non erano pagati profumatamente, hanno sempre potuto contare su qualche entrata extra in euro – su cui non hanno mai pagato le tasse in Egitto – e sulla svalutazione della lira egiziana per fare una vita che nessuno dei poveri che oggi dicono di difendere a spada tratta poteva o potrà mai permettersi.

Ma, cosa ancora più importante, hanno potuto approffittarsi dell’innata disponibilità, gentilezza, ospitalità ed oserei dire persino della singolare servilità masochista dei miei bravi ed onesti concittadini, che si sciolgono appena vedono il “khawaga”, lo straniero, magari biondo o semplicemente con un passaporto rosso. E che per questo si ingegnano in mille modi per aiutarlo, risparmiargli la fila, cedergli il posto, rendergli la vita più facile. Non sanno, poveretti, che quando sono loro a finire nei paesi dei Khawaga, non hanno diritto a nessuna corsia preferenziale per via della loro pelle scura e del loro passaporto verde, semmai le cose diventano molto più difficili. Eh no, cari rivoluzionari da tastiera: io scrivo e dico quello che voglio sul paese dove sono nato,cresciuto e di cui porto la cittadinanza pur vivendo e lavorando in una seconda patria, delle cui politiche interne – eccettuate quelle sull’immigrazione – non mi sono mai occupato. Voi invece se volete scatenare il caos là dove avete avete vissuto solo da turisti, da ospiti – voi si che lo eravate – serviti e riveriti, lavatevi prima la sporca coscienza.

Sorvolo sui riferimenti alla sottoscritta, se non per dire che, effettivamente, io a suo tempo mi dimisi da un lavoro a tempo indeterminato in un prestigioso liceo privato milanese e da due università in cui ero professore a contratto per andare a guadagnare 70 euro al mese, poi aumentati a 100, insegnando italiano in un’università dell’Egitto centrale. E mi potetti permettere questa “insensatezza” (in realtà la cosa migliore che abbia fatto in vita mia) perché ricevevo una piccola rendita di circa 400 euro al mese dall’Italia. Lo dico perché ci terrei a osservare che, su quei soldi, le tasse le pagavo in Italia, quindi non dovevo pagarle in Egitto. In Egitto, ho pagato puntualmente le tasse relative al mio stipendio, che mi venivano trattenute alla fonte come da cedolino egiziano. Ed è che le calunnie buttate là sono fastidiose, quindi chiedo scusa per questa digressione.

Più interessante mi pare il ragionamento per cui andare a lavorare o comunque a vivere in Egitto voglia dire sfruttare il paese e la sua gente. Non riesco a vederne la logica, francamente: o, meglio, la vedo, ed è una logica assolutamente leghista. Non capisco cosa diamine “sfruttino” i professori che insegnano là, la gente che ci va a studiare arabo, gli studiosi e i saggisti che ci scrivono libri, i semplici innamorati del paese che aprono un locale o si industriano come possono per rimanerci. Sfruttano il fatto che è un paese meraviglioso e che amano? E “l’innata disponibilità, gentilezza e ospitalità” degli egiziani, la sfruttiamo o la amiamo, secondo Sherif? E la solidarietà e la vicinanza di tanti stranieri ai manifestanti, è “sfruttamento e sporca coscienza” o è rispetto, gratitudine, voglia di ricambiare almeno in parte ciò che ci è stato dato da quel popolo?

Non è più sfruttamento, più sporca coscienza, saltare sul primo volo e sparire al primo problema? O fregarsene di ciò che accade là perché, ormai in Italia, chissenefrega e abbiamo altro a cui pensare?

Che curioso, questo modo di ragionare che capovolge il senso comune, oltre che la realtà, e che non mi fa, francamente, invidiare chi ne è portatore.

Rimane il discorso di fondo, più ampio, su cosa è davvero la vicinanza tra persone, popoli e paesi diversi, specie tra noi che che comunichiamo da anni via internet. Comporta anche questo, la vicinanza: immedesimarsi, empatizzare, imparare e raccontare al mondo ciò che impari. Ampliare il proprio concetto di cittadinanza, pur con tutti i limiti e le difficoltà del caso.

Faccio fatica a capire come uno straniero che vive in Italia possa rivendicare di non essersi mai occupato delle nostre “politiche interne – eccettuate quelle sull’immigrazione“. Non mi sembra una cosa di cui vantarsi e, in ogni caso, credevo che il dibattito sull’immigrazione fosse un po’ più avanti, in Italia. Almeno tra chi se ne occupa, tra chi lotta per i diritti degli stranieri. Credevo che si parlasse addirittura di diritto al voto per gli immigrati, che fosse una cosa auspicabile.

Invece no: sfruttamento, lo chiama. Appropriazione indebita di un paese altrui. Figurati.

E dice che “vogliamo scatenare il caos”, e qui mi verrebbe da ridere. Se non fosse che, dalla TV di Stato egiziana, quest’accusa è già stata rivolta agli stranieri che adesso, in questo momento sono in Egitto. E non è una bella cosa, quando la TV di Stato di un regime manda messaggi così.

(Ci sarebbero, poi, delle insinuazioni personali del tutto fuori tema, tra i passaggi in cui questo signore allude a me. Al momento non ho voglia di dedicargli altro spazio ma, per chi volesse sapere di cosa si tratta, la spiegazione è qua. Sezione aggiornata e messa in ordine, con un comodo riassunto.)