Nessuno, assolutamente nessuno può prevedere cosa sarà l’Egitto nei prossimi mesi e anni. Le variabili in gioco sono tante, e tutte di enorme peso. Non devo specificare quali siano: cadremmo in stancanti ovvietà.
Ognuno fa le sue analisi in base agli strumenti che la vita – sotto forma di conoscenze e/o esperienze – gli mette a disposizione. Io, dal mio microscopico punto di vista, rifletto sul fatto che il paese in cui sono cresciuta – la Spagna – ci ha messo sei anni per passare da una dittatura a una democrazia compiuta: dal 1976 al 1982. E sono stati sei anni delicati come il cristallo e fatti, soprattutto, di mediazioni: mediazioni tra l’esercito e la popolazione, mediazioni tra le spinte più destabilizzanti della società per includere il grosso dei suoi componenti (penso ai baschi) ed isolare gli irriducibili (penso all’ETA), mediazioni in ogni settore del vivere comune con sempre, sullo sfondo, il serio rischio – e anche il desiderio, per molti, tra cui larghe fette di insospettabili – di ritornare indietro, nella comoda cuccia dello Stato autoritario che, certo, ti limita nella libertà ma, al contempo, ti solleva da infinite responsabilità. Ricordo il lavoro di educazione alla democrazia svolto da un’élite culturale, attraverso i media, su una popolazione abituata a sfoggiare adesivi franchisti all’interno del proprio portafoglio, per mostrarli alla polizia qualora gli venissero chiesti i documenti. Non sono passati mille anni: era l’altro ieri, io me lo ricordo, eppure – sì, è vero – sono passati mille anni.
L’Egitto non è in Europa ma al confine con Israele e, culturalmente parlando, al centro del mondo arabo. Oggi più che mai. Ripeto: non vale la pena di sottolineare delle ovvietà, anche perché non è di alcuna utilità farlo: se ci concentrassimo su questo torneremmo ai discorsi dell’altro ieri, ci terremmo Mubarak e, dopo, il suo ripugnante figlio Gamal, l’uomo più odiato dal popolo egiziano.¹
Il fatto è che in Egitto è successa una cosa enorme che non potrà mai più essere dimenticata. Letteralmente: enorme. Destinata a rimanere scolpita per sempre nella carne, nel centro del cuore e del cervello dell’intero mondo arabo e non solo. C’è un prima e un dopo, rispetto a una rottura simile, e non esiste analisi che possa prescinderne.
Non voglio essere enfatica, per quanto la tentazione sia forte. Credo solo che si debba guardare al futuro tenendo ben presente il risultato che, intanto, il popolo egiziano ha già portato a casa.
1) Gli egiziani hanno polverizzato in 18 giorni tutto l’impianto teorico di matrice americana e israeliana con cui, fino al 25 gennaio, abbiamo interpretato il Medio Oriente. Non c’è nulla, non un singolo tassello di quell’impianto, che abbia retto di fronte a ciò che è avvenuto: dal rapporto tra cristiani a musulmani all’integralismo religioso, dal ruolo delle donne allo stereotipo sull’irrazionalità delle masse arabe, dall’arretratezza culturale alle pulsioni violente, dall’incompatibilità con la democrazia all’odio verso Israele come presunta priorità popolare: niente. Non è rimasto in piedi niente, niente ha retto di fronte alla prova di realtà.
Il mondo, che oggi ha visto le famose “masse arabe” intente a ripulire il paese, a fare la raccolta differenziata in piazza Tahrir, a rimettere i sanpietrini esattamente nello stesso selciato da dove li avevano presi in prestito per difendersi durante la rivoluzione, può solo rimanere ammutolito e ripetere, come sento la gente ripetere da giorni, che magari noi fossimo civili e politicamente coinvolti, fiduciosi nel futuro come gli egiziani. Le categorie mentali che abbiamo usato fino ad oggi sono vecchie, stantie. Siamo lo stesso popolo che, nel 2003, invadeva l’Iraq e che oggi, dopo la rivoluzione egiziana, fa fatica anche solo a considerare una democrazia egiziana fatta da un popolo che vota sul serio, perché ci mancano le parole per figurarcelo. Molto semplicemente, abbiamo bisogno di nuove parole e di nuovi concetti per raccontarci cos’è il popolo arabo. E questo è un dato acquisito, non è destinato a cambiare. Se anche, domani, l’esercito impazzisse e facesse calare una cortina di ferro sull’Egitto, la verità di quanto è successo rimarrebbe documentata da mille immagini, da mille racconti in diretta, da mille telecamere puntate.
Quello che gli egiziani hanno fatto, rimane per sempre. Nessuno glielo può più portare via. A noi tocca farci i conti: siamo costretti a piegarci di fronte alla realtà.
2) L’ho scritto all’inizio della rivoluzione: il popolo egiziano – un popolo di ragazzi, dall’età media bassissima – aveva psicologicamente bisogno di tutto questo. Aveva bisogno di un capovolgimento mentale, di liberarsi da barriere psicologiche enormi, soffocanti, paralizzanti. Questa è stata una catarsi collettiva che ha coinvolto una generazione intera, e questa generazione rimarrà marchiata a fuoco, per sempre, dagli eventi di cui è stata protagonista. Recuperare la stima, il rispetto, la leadership culturale di tutto il mondo arabo. Sbalordire il pianeta. Ridiventare, da un giorno all’altro, Umm al Dunia, la madre del mondo. Scoprirsi esempio, modello per chiunque lotti per la dignità e la libertà. Ma chi glielo toglie più, ditemi? Chi li piega più? Chi glielo strappa più da dentro, l’immenso orgoglio di essere stati perfetti, eroi civili, scardinatori di tutti gli interessi del pianeta con la sola forza della consapevolezza di essere dalla parte del giusto? Oggi sono milioni di ventenni: se anche domani dovessero soccombere di fronte alla più spietata delle repressioni, dopodomani si ritroveranno comunque ad essere sopravvissuti ai loro persecutori: ai vecchi. Noi siamo di fronte a una generazione di ragazzi che ha preso su di sé la responsabilità di fare del proprio paese un luogo migliore. Che ha riscattato i propri padri e che lavora per i figli che verranno. Non c’è niente da fare: quando un’intera generazione che, per giunta, rappresenta la maggioranza di un paese, spalanca in modo così radicale la propria mente di fronte al futuro, non c’è forza che li possa fermare. Il tempo ucciderà noi e loro saranno ancora vivi, e adulti. L’Egitto non sarà mai più lo stesso. E l’Europa, se avesse un minimo di memoria storica, dovrebbe saperlo. Ci siamo passati, e anche molto meno eroicamente.
Ma, dicevo, non voglio essere enfatica. Voglio solo fare i conticini, come una ragioniera, di ciò che gli egiziani hanno portato finora a casa. Sto quantificando il capitale ottenuto. Non è colpa mia se è un capitale che richiede concetti forti per essere espresso.
La transizione sarà lunga, difficile, piena di insidie e di false partenze e di falsi arrivi. Tutte le transizioni lo sono. Io credo che non dovremo cercare di inseguire la cronaca, nei prossimi tempi. Certo, è importante sapere cosa farà Tantawi e cosa farà Moussa, cosa vogliano dire i militari nei loro comunicati e cosa succederà nei prossimi scioperi: è importante, ma è parte di uno scenario destinato a rimanere fluido, molto fluido, per i prossimi anni. La Spagna ci ha messo sei anni, ripeto. Ed era la Spagna.
Si dovranno formare delle leadership che, oggi, possono essere solo provvisorie, di tamponamento. La spinta democratica dovrà inspessirsi, crescere all’interno di contenuti che si andranno formando man mano, col procedere degli eventi e dei problemi.
Bisognerà anche mediare. Liberando la parola “mediazione” dall’ambiguità, dalle connotazioni truffaldine di cui l’hanno impregnata coloro che chiedevano alla gente di “mediare” PRIMA di avere ottenuto il risultato vero, il momento simbolico capace di marcare il non ritorno, la cacciata del dittatore.
Bisognerà ripulirla, quella parola, e riportarla al suo vero significato, che non è sinonimo di ‘sconfitta edulcorata’. Mediare è necessario per stare al mondo, figuriamoci se non lo è per cambiare il Medio Oriente.
Intanto, i 18 giorni che hanno cambiato l’Egitto e il mondo meritano di essere assaporati, rivisti e celebrati, studiati e approfonditi ancora a lungo.
Oggi ho visto con piacere questo video di 27 minuti intitolato“Le donne di piazza Tahrir“². E’ un buon reportage con delle interessanti interviste tra cui quella, appassionata e analitica insieme, alla scrittrice Ahdaf Soueif, e quella alla giornalista Shahira Amin che, nel mezzo della rivolta, ebbe il coraggio di dimettersi dalla TV di Stato perché non voleva più raccontare bugie di regime. Lo consiglio.
Infine, volevo anche dire che una rivoluzione del 2011, fatta da ragazzi e partita dai social network non poteva non avere i suoi videoclip. Una rivoluzione fatta da ragazzi arabi non poteva non avere il suo videoclip di pop arabo.
Se il pop arabo non vi piace, vi capisco ma passate oltre. Io ci ho un debole, invece, e me le sto sentendo tutte. Questo è il videoclip che sta circolando di più, mi pare, e il ritornello dice: “In ogni strada del mio Paese, la voce della libertà chiama.” Qui c’è lo stesso video con i sottotitoli in inglese.
¹ Sopra accennavo a Gamal Mubarak. In questo video, il delinquentello in questione reagisce alla domanda di un giornalista che gli chiede quale candidato potrebbe essere espresso dall’opposizione: Kefaya, Fratelli Musulmani, giovani del 6 Aprile, movimento di Facebook etc. Si tratterebbe di discuterne. Guardate invece come reagisce, il delfino di papà. Adesso non gli viene più tanto da ridere, suppongo.
² A proposito di donne in piazza: Al Jazeera, bontà sua, dedica spazio anche alle nostre, di donne, e alle nostre piazze. Vedersi tra i popoli che cercano di liberarsi, mentre si è lì a cercare l’Egitto, fa sempre bene.
Le tue parole sulla rivoluzione egiziana mi ricordano quanto scriveva Kant, nel 1798, sulla rivoluzione francese. Conosci la seconda parte del “Conflitto delle facoltà”? Lascio qui sotto la citazione. Se non hai mai letto questo testo, la profezia di Kant è doppiamente vera :-)
Infatti un tale evento nella storia umana non si dimentica più, poiché ha reso evidente nella natura umana una disposizione e una capacità di migliorare, che nessun politico, per quanto si arrovellasse, avrebbe potuto desumere dal corso passato delle cose, e che solo natura e libertà, riunite nel genere umano secondo principi giuridici interni, potevano preannunciare ma, riguardo al tempo, solo come avvenimento indeterminato e casuale.
E tuttavia quella predizione filosofica non verrebbe indebolita neppure se non venisse ancora raggiunto lo scopo previsto tramite questo evento, se la rivoluzione di un popolo o la sua riforma della costituzione alla fine fallissero o persino, come astrologano ora i politici, se una volta instaurata da qualche tempo tale costituzione, tutto tornasse all’antico corso delle cose. Infatti quell’evento è troppo grande e troppo intrecciato con l’interesse dell’umanità e la sua influenza sul mondo, in tutte le sue parti, è troppo estesa per non tornare alla memoria dei popoli al riproporsi di circostanze favorevoli, e se dovessero essere ripetuti nuovi tentativi di tal specie …
ecco la traduzione (in italiano “decente”) del video
La voce della liberta’ (sout al horreya)
Sono sceso e ho detto non torno
e l’ho scritto col sangue in ogni strada
abbiamo fatto sentire a quelli che non sentivano
e si sono rotti tutti gli ostacoli
Le nostre armi erano i nostri sogni
ed il domani e’ chiaro di fronte a noi
e’ da tanto tempo che aspettiamo
cercando il nostro posto senza trovarlo
In ogni strada del mio paese
si alza la voce della liberta’
In ogni strada del mio paese
si alza la voce della liberta’
Abbiamo alzato la testa al cielo
e non ci importa piu’ della fame
la cosa piu’ importante sono i nostri diritti
e scriviamo la nostra storia col nostro sangue
Se tu sei uno di noi
allora non chiacchierare
e non dirci di andarcene
e di abbandonare il nostro sogno
e smettila di dire la parola io
In ogni strada del mio paese
si alza la voce della liberta’
ps: vivo in Egitto da quasi sei anni, in una citta’ sul canale e, da quando e’ tornato internet, questo blog e’ stato un “bel leggere”. grazie.
vivere ,invece, questi giorni in questo posto, e’ stato emozionante!
Lia, sei sempre una fonte preziosa, e come spesso accade, mi stimoli una riflessione.
Anni fa, Alain Badiou introdusse nel dibattito politico/filosofico un concetto, quello della “fedeltà all’evento”. Quando lo introdusse, era in assoluta controtendenza, rispetto alla voga di sostenere che al mondo “non succedeva più nulla”. I filosofi si erano per la maggior parte divisi in due campi: i simili-Mondaini che dicevano “che noia, che barba”, e i simil Vianello che cercavano di leggere oziosamente il giornale.
In soldoni: ogni tanto il mondo è perforato da un Evento che irrompe, imprevisto e imprevedibile, e da quel momento cambia tutto: i discorsi, le abitudini, le scale delle priorità e dei valori.
Nella vita di un essere umano possono darsi eventi “ri-fondatori” come l’innamoramento ricambiato, il diventare genitori, il prendere parte a rivoluzioni etc.
L’evento è sempre identificato retroattivamente: guardando indietro, ci si rende conto di essere passati attraverso una membrana, di avere… “cambiato mondo”.
Dopo un mese di rivoluzione nordafricana (Tunisia ed Egitto), guardiamo indietro e capiamo di aver vissuto – chi direttamente, chi indirettamente – qualcosa di epocale (dal greco “epoké”, che vuol dire “punto fermo” – “fare epoca” significa “fare il punto della situazione”).
La “fedeltà all’evento” è l’attitudine di chi, avendo vissuto un cambiamento del genere, cerca di viverne le conseguenze con coerenza, di continuare a esserne testimone, di fare… “apostolato” dell’evento. Ci sono tanti possibili modi di esprimere e vivere questa fedeltà.
Da quanto ho potuto vedere, leggere, ascoltare, io penso questo: molti di quanti hanno difeso Piazza Tahrir rimarranno fedeli all’evento. Molti di quanti hanno riempito le strade di Tunisia ed Egitto rimarranno fedeli all’evento. Molti di quanti hanno buttato giù Ben Ali rimarranno fedeli all’evento. Chi ha vissuto una cosa del genere, può forse “s-bivaccare”, come sta accadendo, ma non “smobilitarsi”. Non si può tornare alla normalità di prima.
Per questo credo che gli osservatori europei e nord-americani – che nell’ultimo mese davvero non ne hanno azzeccata una – stiano prendendo (forse intenzionalmente) un enorme granchio quando cercano di ridurre la transizione egiziana a un golpe militare. Troppa gente resterà fedele all’evento, e ne porterà i cambiamenti in tanti ambiti del quotidiano. Già ora leggo notizie (vaghe ma molto plausibili) di improvvisate vertenze sindacali sui luoghi di lavoro, tra i padroni e i dipendenti che hanno preso un nuovo coraggio rivendicativo, e vogliono paghe più decenti, più diritti etc.
Ovviamente, qui “da noi” c’è ansia di sminuire e “normalizzare” l’evento, per prevenirne conseguenze indesiderate su vasta scala. Ma queste conseguenze sono già qui, se ne sente il rumore sordo, il tremore che inizia a salire. Ieri, a Bologna, nella fiumana di gente spiccava uno striscione esilarante. Diceva, rivolto al nostro premier (ma forse, e auspicabilmente, non solo a lui): MO’ SBARAK!
Io credo che in sostanza non cambierà nulla anche se in medio oriente non si sa mai. L’esercito egiziano riceve dagli USA 1,3 miliardi di $ l’anno come dice USA TODAY http://tinyurl.com/5tvuatz “The current scope of U.S. military assistance began with the signing of Egypt’s landmark peace treaty with Israel in 1979. It totaled $1.3 billion last year and includes air, land and naval support.” e a questa grana non credo rinunceranno e in teoria faranno in modo che il successore sia orientato a non rinunciarvi. Questa è forse l’unica certezza insieme a quella che ,si spera, il canale di Suez non lo lascino finire in mano ad un secondo Komeini. Anche perchè in caso contrario sarebbero problemi seri,diretti e indiretti, per tutti i paesi del mediterraneo. Poi chi vivrà vedrà.
Lia mi aspettavo un post…post manifestazione di ieri! :-) Mir
Lia, sei straordinaria, come sempre. Io sono grata ai ragazzi di Tahrir per mille motivi, e tra questi c’è anche il fatto di avermi restituito la mia blogger preferita! Un abbraccio e grazie ancora per il tuo splendido lavoro. Ta7ya Masr!
CHAPEAU…BLOGGHERA!!! GRAZIE DI ESISTERE
P.s. notiziola di cronaca, MUBARAK parrebbe essere il secondo uomo piu’ ricco del mondo.. azz.. a riazz….a triazz…
@Mirella: ubi maior, etc. :D
Olympe e Wu Ming 1: commenti e rimandi splendidi. Vi ringrazio.
E grazie mille ad Hana’ per la traduzione. Per quanto riguarda il resto: che invidia, gessù. :) Ancora non mi rassegno a non essere stata lì mentre tutto succedeva.
Barbara, Giusy: io non so quando riuscirò a smettere di parlare di questa cosa. Come si fa?
Guarda, Lia, il post è molto bello e del tutto condivisibile. Ad eccezione di una piccola cosa: quell’ “l’impianto teorico di matrice americana e israeliana”.
Non era affatto un impianto teorico. Era, ed ancora è, la realtà dei fatti in tutti i paesi arabi. Ed è ancora visibile a chiunque li osservi spassionatamente, quei paesi, e ne legga i codici civili e penali.
La mancanza di democrazia nei paesi arabi non era, e non è, teorica, ma reale; il mancato rispetto di alcuni tra i più fondamentali diritti umani in molti di questi paesi era reale, altrettanto lo era il ruolo inferiore riservato alle donne e le costrizioni che vengono loro imposte (nella quasi totalità dei casi molto ben supportate dalle leggi civili del paese e non solo dalla legge religiosa). Era reale l’intolleranza verso le altre religioni, l’impossibilità per i non musulmani di ricoprire determinate cariche e di godere di determinati diritti. Ed in buona parte lo era l’odio verso Israele.
La speranza, adesso, è che siano proprio gli Egiziani, primi fra tutti, a rovesciare questa situazione.
Spero, e credo che lo speriamo tutti, che l’Egitto possa essere il primo paese arabo a volere, sul serio, la democrazia; a basarsi su leggi promulgate dalla maggioranza e non sulla legge coranica o sui diktat del dittatore di turno, a volere elezioni libere, a sancire il rispetto dei diritti umani ed a imporre parità di diritti e doveri tra i cittadini senza discriminazione di razza, religione o sesso.
Se sarà così, gli Egiziani avranno fatto la cosa più importante che oggi si possa fare al mondo: avranno gettato un ponte tra il “loro” mondo e il “nostro”, e avranno fatto il primo passo per attraversarlo. Non vi è pregio più grande.
Schopenhauer diceva che le religioni sono come le lucciole: splendono solo tra le tenebre.
Lascio per un attimo i facili panni dello scettico per sperare che possa nascere un nuovo Egitto e che esso possa non avere mai bisogno dello splendore di una religione, lasciandola confinata alla coscienza ed alla sensibilità individuale.
Oggi si dimostra a Teheran. Che possa essere un’altro momento storico.
Gentile Lia, leggo nell’ombra (ormai da anni) il tuo blog e altri tre o quattro che trovo sempre molto interessanti (Sherif, Kelebek, etc.), e insieme ai macrocosmici eventi della rivoluzione (ma lo è stata?) egiziana, ho anche assistito ai microcosmici eventi della tua polemica con Sherif.
Insomma, alla fine però non avevate idee troppo diversi, perchè entrambi convenite sul fatto che i cambiamenti che tutti noi auspichiamo potranno avvenire solo con una lente, mediata, e paziente transizione. Una transizione nella quale Sherif metteva dentro anche la concessione di far opportunamente uscire Mubarak con l’orgoglio intatto (avendo egli il timore – che pare si sia rivelato infondato, sempre che non sia stato prevenuto dai militari più che da Mubarak, che quest’ultimo potesse optare per un “muoia Sansone con tutti i filistei”), mentre tu, e insieme a te la piazza Tahrir, ne invocavate invece una impietosa uscita di scena ( e ti concedoche probeabilmente la gente aveva, come dici tu, il bisogno psicologico di questa catarsi).
Da esterno, non posso che concludere che alla fine eravate d’accordo sul risultato dell’espressione, divergendo solo sul suo svolgimento. Il tuo però ha peccato di essere un pò troppo ideologico, sia detto comunque col dovuto rispetto.
Intanto, io che sono un disincantato cronico e che ho tutt’altra idea della Storia e delle ricette per raddrizzarla, leggo con molto interesse questo articolo di Daniele Scalea:
http://www.eurasia-rivista.org/8290/rivoluzione-cosa-non-cambia-in-egitto
Complimenti comunque per il tuo blog, e il rinnovo della mia stima per la tua persona. Assalamu ‘ala man ittaba’l-Huda.
@Giovanni: la rappresentazione che abbiamo avuto del Medio Oriente, per molti anni e in particolare negli ultimi 10, è consistita nel racconto che ce ne è stato fatto dai think tank USA e dalla propaganda israeliana. Cosa avessero da dire gli arabi su stessi è stato drammaticamente assente. Abbiamo tutti in mente migliaia e migliaia di articoli di stampa in cui “l’esperto” chiamato a decifrare i paesi arabi non era mai un arabo.
Il mio stesso blog, nel suo piccolo, è vissuto ed ha avuto successo perché riempiva un vuoto: io raccontavo una società composita e “normale”, a dei lettori italiani che, quel mondo, se lo erano sempre visti raccontare come la caricatura di un mare di stereotipi il cui aggancio con la realtà era assieme ridotto e fazioso.
Quello che è successo ha mandato in frantumi la caricatura e ha svelato, al suo posto, una fotografia autentica: una società estremamente varia, coesa sulla base di un sistema di valori universali, prima che religiosi, e dotata di una gioventù che, per quanto povera, studia e naviga su internet.
I 18 giorni egiziani non sono frutto di un’improvvisazione, di un impazzimento improvviso. Sono il risultato di una realtà che esisteva e che ha colto il mondo di sorpresa proprio perché NON era la realtà che ci raccontavano.
@Misri: il tuo commento mi sembra abbastanza manipolatorio. Sherif El Sebaie (che, tra parentesi, non ne ha azzeccata una e ha trascorso una fase storica per il suo paese polemizzando, con ripetitiva quanto noiosa petulanza, con le persone più disparate: da Paola Caridi ai suoi commentatori alla sottoscritta) non ha espresso alcun pensiero che non fosse la ripetizione a pappagallo di quello che diceva il canale satellitare egiziano, di regime, spacciato sul suo blog per pensieri propri.
Con le dittature non si media. Le si sconfigge. Il tempo della mediazione è quello in cui ci si prepara, con pari dignità tra le forze in campo, alla democrazia. Su questo credo di essere chiarissima, e mi rifiuto di vedere manipolate le mie parole.
Sebaie auspicava che ci si tenesse Mubarak per 7 mesi – fingendo di ignorare la repressione che si sarebbe scatenata in quel mentre – e che si andasse alle elezioni senza che nel frattempo fosse cambiato nulla di sostanziale, fatta salva la promessa di un 82enne di non ricandidarsi.
Era il gioco tentato dai mubarakiani, proposto dal regime e ripetuto dai suoi sostenitori. Hanno perso e ne sono felice.
Quanto all’articolo di Scalea, mi pare che riproponga scenari – a partire dal ruolo delle Forze Armate – che quantomeno non colgono il modo in cui quel ruolo viene percepito, adesso, in Egitto.
Quanto alla conclusione sulla Turchia, che a Scalea sembra parere un originale colpo di ingegno a chiusura del suo articolo, a me pare un’imbarazzante ovvietà.
Il 5 febbraio scorso El Pais ha pubblicato i risultati di quest’inchiesta:
Una encuesta que acaba de ser presentada en Ankara por la Fundación Turca de Estudios Económicos y Sociales (http://www.tesev.org.tr) muestra que el 66% de los habitantes de Egipto, Jordania, Líbano, Siria, Irán, Irak y los territorios palestinos ve favorablemente a Turquía como sistema político de referencia para la región, y una proporción similar la considera “la mejor síntesis de democracia y religión musulmana”.
“Con le dittature non si media. Le si sconfigge.”
Su questo siamo ovviamente d’accordo. Aggiungo che le si sconfigge davvero con azioni e mezzi che siano efficaci a lungo termine.
Quanto alle previsioni di Scalea, vedremo. E ti posso garantire che mi auguro con tutto il cuore di aver preso un abbaglio colossale.
Assalamu ‘ala man ittaba al-Huda.
PS: mi sia concesso anche di dire che non si media nemmeno con la “democrazia”, dal momento che da un paese musulmano ci si aspetta che abbia come obiettivo il Califfato e la Sharia. Pertanto non si ha bisogno di alcuna “mejor síntesis de democracia y religión musulmana”, quando la “religiòn musulmana” è più che sufficiente. Questo però è solo il personale pensiero di uno che ha “tutt’altra idea della Storia e delle ricette per raddrizzarla” (ma che proprio per questo motivo è fortemente scettico sugli esiti di certe “rivoluzioni”), e se lo dico qui, è solo per precisarti come la penso ed evitare l’attribuirmi schieramenti dai quali sono lontano anni luce, piuttosto che per aprire un dibattito per il quale non mi pare i tempi siano maturi, e che non mi sembra trovi qui il suo naturale luogo di espressione.
Concludo anche dicendo che non avevo la minima intenzione di sembrare “manipolatorio”. Ho solo esternato l’impressione che mi ha dato la tua lettura di questo articolo, e in generale di ciò che ho letto in questi giorni; se poi ti ho eventualmente mal compreso, ne prendo atto.
Tu, Misri, avrai certamente seguito gli eventi il più direttamente possibile, senza accontentarti di farteli raccontare attraverso riassunti di comodo. Tra l’altro, se il tuo nick ha un senso, conoscerai il paese.
Quindi converrai che, oggi più che mai, la semplice etichetta di “paese musulmano” – per quanto validissima sotto molti aspetti – all’Egitto, in chiave politica, stia decisamente stretta.
Lia, guarda che io non mi riferivo agli articoli sui giornali, alle trasmissioni televisive o al cretino maitre à penser del caso. Mi riferisco invece alle leggi scritte, agli articoli del codice civile e penale della maggior parte dei paesi arabi che in parecchi casi recano principi così vergognosi da far venire i brividi. Altro che think tank: ci sono scritte a chiare lettere le cose, e non c’è contestualizzazione che tenga. E l’Egitto non é un’eccezione.
Ed è per questo che devo smettere i panni dello scettico per sperare che davvero in Egitto le cose per la prima volta vadano in maniera diversa. E che l’Iran segua a ruota..
sul sole 24 c’è un neocone, Christian Rocca, che un giorno dice che è merito di Bush, un altro di Reagan, poi di un “signore di 83 anni di boston”. Uno spasso…
No dico, il sole 24 ore…
Mamma mia, Rocca. Una vita a dire cazzate e non smette mai. :D
Peccato, comunque, ché Negri, sullo stesso giornale, ha scritto delle belle cose.