La solidarietà dei colleghi a Cloro (il grassetto è mio):

I docenti della sede di via Lamennais del liceo Manzoni esprimono con la presente la loro solidarietà nei confronti della collega prof.ssa Barbara Albertoni, che è stata oggetto di osservazioni e illazioni diffamanti da parte del giornalista Marco Pasqua con gli articoli apparsi su La Repubblica la scorsa settimana.
Dal suo articolo si evince che il Ministro dell’Istruzione Gelmini avrebbe disposto un’ispezione mentre il nostro Assessore, Mariolina Moioli, si sarebbe impegnata ad approfondire la vicenda e a prendere i dovuti provvedimenti.

Il Sig. Marco Pasqua non deve essere molto sicuro di sé se incarica ragazze di contattare tramite facebook studentesse della Manzoni che hanno ora o hanno avuto in passato come insegnante la prof.ssa Albertoni, allo scopo di verificare quel che l’insegnante avrebbe detto in classe.

I docenti sono inorriditi dal modo di procedere del giornalista di Repubblica che troppo da vicino ricorda quel meccanismo della macchina del fango che Roberto Saviano ha magistralmente descritto.
I docenti credono alla loro collega quando afferma di non essere negazionista, né, del resto, hanno mai avuto modo di sospettarlo. Nota è la sua posizione filo palestinese, ma non ci risulta che ciò costituisca di per se stesso reato.
I docenti firmatari intendono con ciò difendere un diritto inalienabile quale è la libertà di espressione nei limiti della Costituzione. Esprimono inoltre solidarietà alla collega che riceve ormai quotidianamente pesanti mail di minaccia e di ingiurie.
Si augurano che la polemica cessi quanto prima, che i toni si abbassino e che Repubblica contribuisca a moderare il dibattito.
(seguono firme)

Io mi auguro qualcosa di più. Mi auguro che Repubblica risponda di ciò che ha fatto.

E vorrei tanto che ci spiegasse come concilia la sua strombazzatissima difesa della scuola pubblica con il fatto di mandare un giornalista, Marco Pasqua, a esercitare le sue ripicche personali contro una blogger calunniandola e spiandola sul lavoro. Vorrei sapere se è normale che Repubblica mandi emissari sui profili di Facebook degli studenti per sapere cosa dicono in classe i loro insegnanti. Vorrei che ci illustrasse la differenza tra un Berlusconi che parla di insegnanti che “inculcano valori” e il loro Marco Pasqua che auspica ispezioni e licenziamenti per insegnanti che – “chissà” – potrebbero a loro volta “inculcare valori”.

Perché i casi sono due: o Repubblica auspica un controllo sulle idee politiche degli insegnanti italiani che si estenda fino alle loro manifestazioni extrascolastiche – e allora scavalca Berlusconi a destra, e di gran lunga – o ha fatto una cazzata di dimensioni raccapriccianti e, allora, deve ammetterla, spiegarla e assumersene la responsabilità.

Io, intanto, da donna di scuola cerco di immaginare in cosa consista, nel concreto, l’idea di insegnamento portata avanti da Repubblica. Come fai a capire se una persona pensa ciò che lei stessa nega di pensare? Come fai a definire negazionista una docente che afferma, supportata da alunni e colleghi, di non esserlo?

L’ispezione ministeriale di cui si parla, per esempio. Ammesso e non concesso che venga effettuata (le istituzioni, lontano dai giornali, sono più serie e rispettose della Costituzione di quanto appaia, e questa vicenda è una buffonata a occhio nudo), dovrebbe andare più o meno così: si controllano i registri della collega per vedere se sono in ordine e si controlla se il programma svolto corrisponde a quello dichiarato. E poi? Dovrebbero cercare di scoprire cosa ha detto in classe la collega? E come?

Scenario 1: l’ispettore entra in classe e chiede agli alunni: “La prof cosa vi ha detto dell’Olocausto?“. Metà classe non se lo ricorderà, la metà più studiosa alzerà la mano e ripeterà a memoria il libro di testo da pag. 141 a pag. 150, chiedendosi se poi mettono il voto. L’ispettore insisterà: “Ma vi ha parlato male degli ebrei?” Sconcerto tra gli alunni, mentre la prof prega affinché gli alunni si ricordino almeno di chi sono gli ebrei e non li confondano con, chessò, i sumeri o i bolscevichi. Voi non avete idea delle cazzate che può dire l’alunno medio quando lo si interroga a bruciapelo, senza preavviso.

Scenario 2: l’ispettore convoca gli studenti in separata sede, li rassicura sul loro anonimato e poi sussurra: “Dimmi, figliolo, cosa ha detto la prof dell’Olocausto? E degli ebrei?

Bah. Uno dei motivi per cui io faccio questo mestiere è perché i ragazzi sono, mediamente, migliori degli adulti. O, almeno, più intellettualmente onesti. Non mi spaventa per la collega, questo pur improbabilissimo scenario. Mi spaventa per loro, per i ragazzi. La portata diseducativa di un intervento del genere mi parrebbe a livelli di trauma. Io, da studentessa, sarei rimasta sconvolta da una cosa del genere e sono lieta che non mi sia mai capitata.

Perché, vi sembrerà strano, gli studenti spesso nutrono dei sentimenti nei nostri confronti: ci vogliono bene, ci detestano, gli siamo simpatici, non ci possono vedere, li facciamo ridere o gli facciamo paura. A volte tutto insieme, a volte ciascuna di queste cose a secondo dei mesi, delle settimane, dell’esito dell’ultima interrogazione. Gli studenti ci conoscono: conoscono i nostri limiti, le nostre debolezze e ci fanno i conti, imparano a gestirli. Rapportandosi con noi, nel bene e nel male, imparano a rapportarsi con gli adulti e con la vita. E non va bene interferire con questo rapporto se non sono gli alunni stessi a chiederlo. Ogni essere umano alberga dentro di sé tante virtù e qualche meschinità. Noi abbiamo la responsabilità di non stimolare quella dei ragazzi. Se io, da ragazzina, avessi avuto l’opportunità di calunniare il mio odiatissimo prof di matematica, protetta dalle garanzie dei grandi, forse lo avrei fatto. E poi avrei passato il resto della vita sentendomi orrendamente in colpa per questo. Oppure non lo avrei fatto, ché intellettualmente onesta lo ero pure da piccola. Ma sarei uscita da una situazione del genere vedendo il mondo degli adulti come un mondo di lupi, intenzionata ad evitare di farne parte, ad ogni costo.

C’è un film spagnolo molto bello, sugli effetti che la pressione politica può avere nel rapporto tra alunno e maestro. La lengua de las mariposas, si chiama. E’ la storia di un bambino che per essere uguale agli altri, nella Spagna franchista, tradisce il suo maestro preferito, repubblicano. A proposito di memoria.


Le idee politiche degli insegnanti? Massì. Parliamone. Le idee politiche degli insegnanti, come dire, non sono un pericolo di cui mi preoccuperei, pure le più bizzarre. Non a scuola. Perché non hai tempo, tanto per cominciare: a loro, ai ragazzi, piacerebbe un sacco che una gliele raccontasse, le sue, così si perde l’ora e non fai in tempo a interrogare. Così sanno da che parte prenderti. Così scoprono come fregarti. Noi lo sappiamo, sorridiamo e scansiamo la trappola. Perché abbiamo un programma da svolgere e tot valutazioni da dare a quadrimestre, e dobbiamo farcela nonostante le loro resistenze. E perché sappiamo che i ragazzi faranno sempre del loro meglio per pensare il contrario di ciò che pensiamo noi: magari, fossimo capaci di indottrinarli. Nella realtà, io non riesco nemmeno a farli desistere dal mostrare l’orrida mutanda Calvin Klein sopra i jeans che arrivano a metà culo. Figurati se cercassi di trasmettergli idee più complesse.

A dire il vero, in realtà, io che sono una prof sempre più stanca, mi sono fatta scoprire nella mia passione per l’Egitto e loro, ogni tanto, ci provano: “Prof, siamo distrutti, abbiamo avuto due verifiche, è l’ultima ora, non vogliamo fare lezione! Parliamo di Egitto, per favore!!” “Certo che siete subdoli, non provateci nemmeno. Aprite il libro a pag. 23.

Poi, certo, loro grosso modo le captano, le tue idee. Sono attenti. Ma cercano di etichettarle in base a ciò che sentono in televisione, ed ecco che tutti i professori diventano, nella loro percezione, “comunisti”. Perché tra gli obiettivi generali ed educativi presenti nelle scuole – in tutte le scuole – c’è, ad esempio, l’educazione alla tolleranza e contro il razzismo e le discriminazioni. Che, a sentire buona parte della nostra classe politica, sono concetti comunisti. E i più volenterosi tra noi si muovono tra questa contraddizione come possono. Mentre sui giornali si parla di sparare agli immigrati, noi gestiamo classi piene di immigrati dichiarando nei POF che tutti i nostri studenti devono imparare a convivere. Sembriamo un po’ comunisti, quindi. E, tuttavia, abbiamo studenti sempre più intolleranti. Si vede che non inculchiamo bene.

Alcuni colleghi sono più in prima linea di altri, poi: io, insegnando spagnolo, potrei passare anni interi a parlare solo ed esclusivamente di grammatica, senza concedere ai ragazzi nemmeno mezzo spiraglio sui miei pensieri. Per chi insegna materie più discorsive è più difficile, forse: la conversazione tende a umanizzarsi per forza di cose.

Cerco di immaginare la psicopolizia inviata da Marco Pasqua e da Repubblica nelle scuole dove insegnano i prof blogger. Mi chiedo se ce l’abbiano solo con i colleghi di Storia o con tutti noi. Il mio blog è molto critico nei confronti di Israele: chi gli assicura che non riesca a fare scivolare il discorso in classe, tra una sintassi del congiuntivo e una spiegazione su quanto è montagnosa la Spagna? Cosa deve pensare, un insegnante, secondo Pasqua e Repubblica? I limiti della nostra libertà di pensiero, quali sarebbero? A partire da quale momento Repubblica può intimidirci, su quali frasi possiamo essere inchiodati da un giornalista che ce l’ha con noi?

Per fortuna, a dispetto di tutto, le istituzioni funzionano, le leggi reggono, l’Italia vera e propria è infinitamente più sensata di quanto non appaia sui giornali. Le persone sono, mediamente, perbene. Si resiste: la scuola, in particolare, di persone perbene ne concentra moltissime, credo più di molti altri ambienti. Suppongo che i motivi che ci spingono a insegnare – l’ingenuità, tra questi – costituiscano una specie di selezione all’entrata: tendiamo ad avere buone intenzioni e, nelle emergenze, si nota.

Non sono preoccupata per la collega: sono certa, anzi, che non le succederà un bel niente. Come è ovvio.

Sono preoccupata per il paese, per il nostro livello di democrazia, per lo stato del nostro discorso pubblico. L’involuzione è drammatica, a destra come a sinistra. Sono dispiaciuta per tutti noi, sostanzialmente.