Vedo che alcuni media hanno dato molto risalto al favore con cui i residenti della zona hanno accolto lo sgombero forzato di piazza Tahrir, ieri, quindi forse vale la pena di contestualizzare un attimo ciò che è accaduto.

Lo sgombero è stato preceduto, il giorno prima, dalla protesta di alcuni commercianti delle strade adiacenti, di cui ho già parlato qui, e dal successivo abbandono volontario della piazza da parte di quasi tutti i gruppi occupanti, blogger compresi. Erano rimasti solo i familiari degli 800 morti della rivoluzione e alcuni attivisti a proteggerli, tra cui i “No To Military Trials” di Mona Seif, quelli di eSocialism e pochi altri.

Ora: perché questi familiari delle vittime avevano deciso di rimanere? Per due motivi: 1. perché vogliono che i poliziotti autori degli omicidi dei loro cari vengano arrestati: 2. perché hanno paura di ritornare nelle loro case giacché tutti hanno denunciato di avere ricevuto minacce dai suddetti poliziotti. E questo è, peraltro, il motivo per cui tanti attivisti sono rimasti a proteggerli.

Due giorni prima, e solo grazie all’occupazione della piazza, la Giunta Militare aveva deciso di innalzare l’iniziale risarcimento di 5000 LE (587 euro per ogni morto) a 30.000 (3524 euro), e i manifestanti avevano risposto di considerare “un placebo” l’offerta di denaro e che sarebbero rimasti in piazza fino all’arresto degli assassini dei loro figli e parenti. Avevano però convenuto di spostarsi sotto all’edificio del Mogamma, dove avrebbero creato meno intralcio alla circolazione, e il trasferimento era già iniziato domenica: lo si può vedere sul mio Facebook e su mezza rete.
L’errore è stato, direi, il non avere riaperto la piazza al traffico domenica stessa. Ne avevano discusso a lungo, poi hanno deciso di mantenerla ancora chiusa nel timore di venire attaccati. In realtà, così facendo, hanno fornito il pretesto per il loro sgombero.
Sgombero che è stato portato avanti da militari, poliziotti e alcuni residenti a cui la polizia aveva fornito caschi e giubbotti antiproiettile.

Tra questa militarizzazione di alcuni civili contro altri civili e la violenza dello sgombero (giornalisti arrestati, macchine fotografiche e cellulari distrutti, gente picchiata, più di 80 detenuti e alcune persone scomparse, tra cui bambini), la sensazione generale è che, ancora, la strada verso il rispetto dei diritti civili in questo paese, da parte delle autorità, sia parecchio lunga. A questo va aggiunto il fatto che i manifestanti arrestati vengono processati dai tribunali militari, non da quelli civili.
C’è, in proposito, un durissimo articolo di Al Ahram, oggi, di cui consiglio la lettura:

Despite that constitutional article no.21 implies that each citizen should stand before the appropriate court; i.e. the military before the military court and the civilian in front of the civil courts – military trials continue. On 18 July, 2011 the administrative court in Qena issued a court order to stop military trials, yet Major General Adel Morsi, the chairman of military judiciary authority refused it. He said that military courts are working within their jurisdictions and in accordance with civilian law. The chairman cited the complicated second article of the constitution regarding changes to legalistive provisions, arguing that the court’s ruling changes current legislation and that it doesn’t have the authority to do so.

Detto questo, vorrei concludere rivolgendo al rabbioso Sherif El Sebaie due parole, prima di abbandonarlo – definitivamente, spero – al suo livido blog. Poco mi importa se ha deciso di dedicare tutti i suoi scritti a me o a chiunque scriva in italiano dal Medio Oriente. Lo trovo buffo, come trovo buffo che mandi i suoi amici a lasciare commenti sconci sotto i miei post. E poco mi importa anche che insulti il suo stesso popolo, dichiarandolo incapace “di gestire finanche un cesso alla turca, figuriamoci una democrazia di tipo turco“. E’ egiziano e, il proprio popolo, ognuno lo considera come crede.

Trovo però decisamente ripugnante il suo continuo ridicolizzare i protagonisti della rivoluzione e delle attuali proteste, da lui descritti come “fighetti” o imbecilli che “credono di risolvere i problemi dell’Egitto insegnando alla gente a usare Facebook.”
Qui si parla di gente che viene uccisa, arrestata, processata dai tribunali militari.
Si parla di gente di tutte le estrazioni socioculturali tra cui, certo, anche coloro che il nostro Sherif più detesta: i giovani della borghesia colta cairota che si sono schierati, con enorme coraggio, contro un sistema di potere durissimo e incancrenito assumendosi tutti i rischi del loro essersi autodefiniti dissidenti in una dittatura.
Vedere descrivere questi ventenni come dei “fighetti” da uno che, a 30 anni suonati, ancora cincischia all’università vantandosi di avere passato l’esame di arabo “con 30 e lode”, facendo qualche lavoretto gratis, come il più italico dei bamboccioni, e che se ne sta – lui sì – col “culo al caldo”, mentre sputa disprezzo contro gente più giovane di lui che mette in gioco tutta la propria esistenza per amore del suo paese, be’: io lo trovo uno spettacolo disgustoso.
Volevo dirlo.