Lo sguardo ci mette un po’ ad abituarsi all’Avana. Quello che all’inizio ti appare come il confuso risultato di un bombardamento diventa, dopo qualche giorno, ciò che adesso mi pare di vedere: un mondo degli anni ’50 con strade degli anni ’50 percorse da macchine degli anni ’50, e tutto con sessant’anni di invecchiamento addosso. Come in una macchina del tempo in cui tutto invecchia e niente si rinnova, percorri vialetti accidentati su cui si affacciano ville deliziose, sessanta o cento anni fa, e da dietro l’angolo sbucano antiche Chevrolet, limousine cadenti quanto le villette, e finalmente pensi: “Bello!”, e ci hai messo una settimana a deciderti.

Non c’è pubblicità e, di conseguenza, mancano i colori aggressivi: la città è chiara, bianca, grigia, crema, azzurro pastello. Nessun colore squillante, niente rosso o giallo o arancione: all’inizio senti una mancanza vaga e fai fatica a capire cosa sia, c’è un problema di messa a fuoco. E poi niente, poi capisci e ti vai abituando ai colori che hai.

Il mare che si vede dal Malecón è un Atlantico cupo, grigio, ma basta spostarsi di poco, appena a Playa del Este, per bagnarsi nell’acqua turchese che ti aspetti di trovare dopo essere arrivata fin qua.

E il cielo ha nuvole enormi, bianchissime, e Carpentier dice che sono le nuvole più belle del mondo mentre io dico che contengono una quantità di acqua infinita, e mi spiegano che un ombrello serve sempre, all’Avana, ché se non ti protegge dalla pioggia ti protegge dal sole.

Io, senza ombrello, mi sono abbronzata assai anche solo camminando per strada e, tra il colore e lo spagnolo cantilenante, la gente ci rimane un po’ male quando scopre che sono italiana, mi vedrebbero meglio proveniente dall’Uruguay. “Italiana così scura? Vabbe’ che siete vicini all’Africa…”, mi ha detto uno ieri, e mi guardava storto, poco convinto.

Non sono degli allegroni, di primo acchito, i cubani. Ti guardano seri, non ti sorridono se non gliene dai motivo. Poi, quando cominci a chiacchierarci si smollano, diventano anche molto gentili, comunicativi. Ma è come se dovessi fare tu il primo passo, come se sorridere senza un motivo preciso gli costasse fatica. O, forse, è solo che io ho l’Egitto come eterno termine di paragone e, rispetto agli egiziani, qualsiasi popolo al mondo non può che apparirti cupo.

Non è dell’Avana il fenomeno tipicamente cairota di non tornare mai a casa senza avere riso, per strada, almeno una volta. In compenso, il mio libro di Carpentier attira interesse e commenti di gente che lo ha letto a sua volta e, poco fa, la cuoca del b&b dove faccio colazione è uscita dalla sua cucina per venire a dirmi che anche lei è interessata agli argomenti che sto studiando io, e che sta facendo un dottorato sui riflessi del transculturalismo sull’alimentazione cubana. Mi ha indicato la casa di Fernando Ortiz, da visitare, e mi ha suggerito delle riviste da comprare.

Parlando con due francesi che vivono in Messico da molti anni, l’altra sera, condividevamo lo stupore per la pulizia dell’Avana, così insolita in paesi altrettanto poveri. Pulizia delle strade, delle cucine, dei bagni, della gente stessa, nonostante le infrastrutture aiutino poco a mantenerla. Altro che Messico, altro che Egitto. E un cubano che era lì è intervenuto per dire che i cubani hanno in media nove anni di scuola alle spalle contro i tre dei messicani poveri, e che la differenza è tutta lì: si è più puliti quando si è più colti. Ora: immagino perfettamente le obiezioni che questi discorsi possono sollevare. Cuba smuove passioni opposte come e più del mondo arabo, e io non ho voglia di cacciarmi in una nuova riserva di litigi né sto investendo, su Cuba, i sentimenti che ho lasciato in Medio Oriente. Non voglio litigare, non voglio discutere. Però si avverte, a livello di strada o di incontri fortuiti, che qui c’è un lavoro, sul piano culturale, inesistente in posti analoghi. Direi che possiamo considerarlo un fatto.

Mi piace, Cuba? Ancora non l’ho deciso e comunque è poco importante, per quello che ho da fare. Mi piacciono la sua storia – e sfido, del resto – e la sua letteratura. L’Avana vecchia è bellissima, il Vedado ha un suo fascino e ci vuole qualche giorno per capirlo, casa mia è abbastanza terrificante e sospetto di essermi presa male le misure, nello sceglierla. E’ comodissima, vicina all’università e ai luoghi che più mi interessa frequentare, ed è eccezionalmente economica per quello che offre, mi dicono che ho decisamente fatto un piccolo affare. Ma è brutta, povera me, e io nelle cose brutte non ci so stare e, per quanto lo voglia, non so se mi abituerò. Calle Soledad è ‘na tristezza, anche se giri l’angolo e il Malecón è subito lì. La mia camera da letto è graziosa, la sala è accettabile, la cucina fa spavento e non ci riesco a entrare. Non è sporca o rotta: è lugubre, semplicemente, e io cerco di ricordare che sono la stessa donna che si preparava la pasta egiziana nel cucinino dell’Alto Egitto sentendosi a casa propria, ma non serve. Il cucinino di allora lo sentivo amico – per quanto al tramonto entrassero, dalla finestra della sala vicina, nientedimeno che gli scarafaggi volanti, se non ti ricordavi di sprangare le finestre – e la cucina di adesso no. Non so se questo problema avrà soluzione. Credo di avere capito, alla mia età, che la misura delle mie emozioni sta nel rapporto con le stoviglie che ho davanti e non c’è razionalità che tenga. Così come a vent’anni, a casa di mia suocera, mi ero ridotta a mangiare solo uova sode o mele da sbucciare personalmente, ché mi faceva orrore ingoiare cose che lei avesse toccato, così adesso mi viene voglia di comprarmi il mio coltello e il mio cucchiaio per non usare quelli di questa cucina, e non c’è lavaggio che tenga. E’ un problema, già.

Chiedo ai miei franco-messicani un confronto tra qui e il loro Messico. Il Messico è più violento e più corrotto, o più violentemente corrotto, mi dicono. Raccontano aneddoti di nonnine, venditrici ambulanti, prese a botte dalla polizia, dell’opportunità di mantenere un profilo basso, di non cercarsi i problemi se non li si vuole trovare. E che però non è poi grave, tutto ciò, e che per esempio nella loro Playa del Carmen, mi dicono, si sta bene. Che c’erano tanti italiani ma che adesso sono in gran parte andati via, per la crisi.

“E di che parlate tra voi expat, come passate il tempo?”, chiedo io, pensando all’onnipresenza della politica in Medio Oriente, a come tutto, lì, sia politica e domini i tuoi pensieri, il tuo sguardo, le conversazioni.

“Politica? Ma no, noi abbiamo le spiagge, che ci frega della politica!”, ridono loro. Poi, captando il mio brivido, ci mettono una pezza, mi raccontano delle elezioni, di un monopolio dei mass media che mi fa pensare all’Italia berlusconiana, ma non c’è passione e non pare che ci sia motivo perché ce ne sia: il Messico che mi rimandano è post-politico e sono felice di non essere là, mentre li ascolto. Penso che potrei morirci di noia e tristezza, in un posto dove, avendo le spiagge, la gente fa a meno della politica, e mi si stringe il cuore pensando al mio Sinai dell’estate scorsa, Sinai post-rivoluzionario tra nuovo inquinamento e beduini incazzati, sudanesi eterni emigrati e le loro storie di Arabia Saudita, la sempre mortifera frontiera di Israele, un po’ più a Nord. Anche lì abbiamo le spiagge, forse più belle di queste. Eppure ce ne frega eccome, della politica. Per forza. Poi, certo, anche lì i cervelli della gente finiscono in pappa, ma per religione e non per cocaina, per frustrazione di ideali e non per rum.

Non sono in Messico, comunque. Sono a Cuba, adesso, e scrivo sulla terrazza del b&b che ospita i miei pasti e la cucina è piena di donne chiacchierine, mi offrono un chicharron appena fritto – mille calorie di cicciolo – e bevo una cerveza Bucanero sentendomi in colpa, ché voglio assolutamente approfittare di questo periodo per togliermi un po’ di chili di dosso e mi dicono di andare a camminare sul Malecón, la mattina presto e hanno ragione, ma sto facendo fatica a mantenermi non fumatrice – siamo a 11 settimane senza toccare una sigaretta – in questa patria del tabacco, e già mi avevano detto che il terzo mese era duro, ché non hai più l’entusiasmo degli inizi né l’ebbrezza della novità di respirare ma mantieni la dipendenza psicologica ancora intatta, e pretendo il diritto all’indulgenza e mi chiedo un’altra Bucanero e mordo la sigaretta elettronica portata dall’Italia che fa morire dal ridere i cubani, mi si avvicinano e mi chiedono come funziona, com’è, se è buona. “Più o meno”, rispondo. “Aiuta nei momenti difficili”, dico. Mi guardano con un po’ di pena.

Danno tutti per scontato che mi innamorerò, a Cuba, e la cosa mi irrita parecchio. Rispondo con assoluta schiettezza che non ho nessuna intenzione di fare di me stessa l’europea euro-munita col giovane cubano, ché di euro ne ho pochi e li voglio tutti per me e di giovani non ne voglio proprio, ché mille anni di insegnamento ai ragazzi hanno ristretto la mia libido alla fascia di età che va dai sessant’anni in su e i giovinotti mi fanno venire in mente solo registri e penne rosse e, comunque, identifico il fascino di un uomo con il suo potere – anche economico – e non con i suoi muscoli, non so che farci, e quindi no, non mi innamorerò.

Nemmeno in Egitto mi sono mai innamorata, del resto – e lì ne avrebbe beneficiato almeno la mia conoscenza dell’arabo, qui non ho manco ‘sto vantaggio – mentre cadono come mosche, le italiane che ci vanno, e affollano le ambasciate coi loro habibi.

E si offendono un po’, i miei interlocutori – “Ay, pero nuestros negros tienen muuucho sabor!!”, mi ha detto la mia padrona di casa, come addolorata per me – e comunque non mi credono, e Marco – il buon vecchio Cubanite con cui saranno quindici anni che ci si conosce, ormai, per le vie di internet – mi dice che in fondo è una questione di statistica, che le italiane della mia età arrivano qui a fiotti e ripartono convinte di avere trovato l’uomo della loro vita – l’animatore dell’albergo, in genere – e tornano ancora e così via, e che mi toccherà andare contro tendenza e solleva un sopracciglio, mentre me lo dice. Bah.

La banalità di tanta prospettiva mi lascia atterrita, dai. Quando mi è capitato di volere fare un bagno nell’esotico, come equivalente di un bagnino di Sharm mi sono presa il capo dell’islam italiano, ché almeno due parole in croce sapeva metterle, a prescindere dai concetti espressi. Non mi prenderò, adesso, un bagnino del Tropicoco. Su un vecchio rivoluzionario amante delle donne “bien envueltas en carnes” si potrebbe discutere, invece, ma temo che abbiano ormai oltrepassato ogni tentazione, per pura questione cronologica. Sfortuna, mannaggia.

Si è fatto primo pomeriggio, sera in Italia. Tra un po’ pioverà, per quanto ci sia ancora un sole ingannatore che può imbrogliare me ma non i cubani, che hanno già messo al riparo tavoli e sedie e mi avvisano che andremo avanti fino a venerdì, con gli acquazzoni.

Magari mi chiedo un’altra Bucanero. Poi andrò a collegarmi a internet in qualche albergo dove, inevitabilmente, è passato Hemingway, ed è che passava ovunque. E poi, certo, beveva molta più birra di me, il maledetto, ma faceva anche molto più sport. Magari lui sì che camminava per il Malecón, di mattina presto. Devo chiedere.