Passo il tempo a canticchiare vecchie canzoni cubane che ti si mettono in testa e non te ne liberi più.

E cerco ancora di capire se mi piace o no, Cuba, ché in certe zone e momenti non mi piace affatto – questo mio centro scassato, polveroso, faticoso da percorrere e in fondo triste, con i suoi negozi bui e vuoti – e poi vai nella città vecchia, invece, e in plaza de la Catedral ti si stringe il cuore per quanto è bella.

L’ho scritto alla mia vecchia prof, che ancora non sapevo se Cuba mi piace o no. Lei mi ha risposto che in effetti è presto per capirlo: “Io non ho ancora capito se l’Italia mi piace o no, e ci vivo da quarant’anni”, ha detto.

Più leggo e studio e più mi coinvolgo, ovviamente. E la storia di questo paese sembra un romanzo di avventura, è brevissima – cinquecento anni, pensa – ma ne hanno alzato di casino, i cubani. Gente che, come padre della patria, ha un poeta morto giovane. E il primo laboratorio dell’imperialismo USA, il loro primo esperimento neocolonialista e, poi, il loro cinquantennale sasso nella scarpa, mezzo secolo di mal di denti alleviato da un embargo stizzoso e insensato – ma dimmi tu, un paese meta di turismo di massa ma sotto embargo – e il primo turista che ho conosciuto, la sera dopo essere arrivata, veniva dall’Oregon.

E tu che ci fai qui?”, gli ho chiesto.

Mi godo Cuba”, ha detto lui.

Ma tu non dovresti essere qui!”, ho esclamato io.

Sono passato dal Messico e i cubani non ti stampano il passaporto, non se ne accorgerà nessuno”, ha detto lui. “Spero”, ha aggiunto.

Non facciamola lunga, comunque: io – mi fa un po’ ridere specificarlo, ma cosa vuoi – sono una donna di sinistra e, di conseguenza, sarei folle a non guardare con simpatia alla storia e alla fatica di questo paese. Che valga come premessa, disclaimer e sottotitolo a ogni cosa che scriverò da ora in avanti, ché già al primo accenno alla Yoani Sánchez ho visto sollevare qualche sopracciglio, in giro per la rete. Questo non vuol dire che io sia cieca o che mi sfuggano i problemi e le contraddizioni di questo pezzetto d’America. Però – ed è un ‘però’ bello spesso – non esiste una Playa Girón in cui io non sarei stata o non sarei in futuro dalla parte dei cubani, e tanto vale dirlo subito e levarsi il pensiero, e farlo levare anche a chi volesse leggermi da adesso in avanti. Non perché pensi di fare chissà quali discorsi politici – non penso di farne nessuno, francamente – ma perché conosco la rete e il suo meraviglioso e stancantissimo potenziale polemico, e non ci ho voglia.

Sarebbe eroico, da parte mia, dopo una vita passata a sgolarmi sul Medio Oriente, ripetere la performance su Cuba. Manco morta, ecco. Che sia ben chiaro. E poi, qui, non ho la rete, non riesco a seguire i commenti, non riesco a mantenere una conversazione manco con mia figlia, figuriamoci. Non so’ mica Yoani, io, che ci ha internet. Non ce l’ho. Scrivo offline e posto quando posso, e ciao.

E, a proposito di simpatie, avevo già accennato alla bottega che c’è giusto di fronte a casa mia, con i pupazzi di cartapesta fatti col Granma , i bidet trasformati in barche e stranezze varie. Mi scervellavo a capire cosa potesse essere: l’atelier di un artista? Certo, ma che se ne fa di tutti questi fantocci? Mica è una strada dove passano acquirenti di esperimenti artistici, la nostra.

E quindi, alla fine ho bussato alla porta e sono entrata chiedendo spiegazioni, e mi ha accolto un mulattone rasta – notevole, sí – e mi ha spiegato che è un laboratorio per i bambini del quartiere, il suo. Gli insegna a creare riciclando, usando vecchi giornali e fili e bottiglie e fanno pupazzi e giochi vari. Gli insegnanti usano il Granma – lo riconosci dai titoli rossi – e i bambini usano Juventud Rebelde, vedi le loro opere dai titoli blu. “E tutti questi titoli che alla fine esibite?””Polisemia”, ha detto lui, e poi ha alzato le braccia al cielo e si è messo a esultare, ridendo, per la bellissima parola che gli era venuta fuori.

Il suo letto era coperto da un’enorme vanga di cartapesta, ma mi ha detto che non ci dorme dentro, la tiene lì solo per il significato: “recogerse” vuol dire coricarsi, anche se tradotto letteralmente sarebbe “raccogliersi”. E con una vanga ti raccogli, appunto.

Pare che abbia anche una pagina su Facebook ma non la cura lui: neanche lui è Yoani, neanche lui ha internet. Gliela aggiornano ogni tanto certi amici suoi che curano una rivista.

L’ho cercata e l’ho trovata: é qui, con le foto della bottega e della mia strada: http://www.facebook.com/lazaro.salsita#!/lazaro.salsita/photos_stream

Stanotte, poi, è venuto giù il diluvio universale, pioveva che pareva dovesse venire giù il tetto, sbattevano porte ovunque e mi sono alzata temendo che la mia porta di casa fosse stata buttata giù dal vento, c’erano boati dappertutto. E mi sono affacciata un po’ alla finestra a guardare il buio e la pioggia e mi ha fatto piacere pensare che avevo un vicino amichevole, dall’altra parte della strada.