I paesi la cui identità si basa su una forte carica ideologica hanno il costante problema delle nuove generazioni. Come fai a tramandare la tensione ideale da cui scaturiscono i comportamenti che devono caratterizzare la società che hai costruito, che la tua bandiera rispecchia? Se vivi in pace, è un casino. Guarda Cuba.
Il ragazzo cubano medio si lamenta. Molto. Ti fa la lista delle cose che non vanno e allora tu gli fai notare che, comunque, si potrebbe considerare fortunato, ché qui non hanno avuto le tragedie e gli orrori dei paesi vicini: Panama, Nicaragua, El Salvador, Guatemala, Haiti, luoghi che grondavano sangue fino all’altro giorno, scenari di invasioni, guerre, stragi, soprusi. E loro ti dicono che sì, che lo sanno, che è ovvio che Cuba non è uno di questi paesi – come se non lo fosse per grazia divina, per un decontestualizzato diritto naturale – ma che chissenefrega, insomma, che queste sono considerazioni di un’altra generazione, ai ragazzi interessa il futuro. Come è giusto e naturale, del resto. Solo che ‘sti ragazzi – come i nostri, del resto – si riferiscono al futuro loro, personale, individuale. Non a un futuro di gruppo, a un progetto sociale. Pensano per sé. Come da noi.
Anche se, periodicamente emergono cause attorno a cui mobilitarsi e compattarsi. Il piccolo Elian, i Cinque. I manifesti che esortano alla giustizia, quelli che ricordano le aggressioni subite. L’aereo abbattuto alle Barbados, che il mondo ha serenamente dimenticato ma i cubani no, e le foto dei passeggeri di quel volo sono esposte nell’atrio dell’edificio della Cubana de Aviación.
Mi pare che ci sia comunque uno stacco, tra le generazioni, e non esattamente a favore dei più giovani. E’ uno stacco che, per certi versi, ti fa pure tenerezza. L’altro giorno, sul giornale, c’era l’accorata denuncia di un lettore che si lamentava perché la gente cerca stratagemmi per salire sugli autobus senza più rispettare la coda. Perché, sì, a Cuba c’è la coda per salire sugli autobus, e chi arriva prima si siede. Da noi, sugli autobus, si siede chi è più forte e più veloce, e sennò ditelo a me, che ho preso l’autobus davanti a scuola per anni: i ragazzoni con gli zaini scavalcherebbero i cadaveri di qualsiasi vecchina, pur di accaparrarsi un sedile. A Cuba no: tutti in coda, ordinatamente, e il grido: “Chi è l’ultimo?” risuona a ogni fermata di autobus e non solo.
Grondano simbolismo, i diversi modi di salire su un bus. Solidarietà sociale contro individualistico cinismo, in un paese dove il legame tra ideali e identità è cruciale.
Ce l’hanno anche in Israele, il problema di tramandare alle nuove generazioni la tensione ideale dei padri fondatori. Del resto, anche Israele è un progetto politico, e prima ancora che un paese.
Lessi un articolo su questo, la prima volta che ci andai, credo sul Jerusalem Post. Era ancora l’epoca di Rabin, parlare di pace sembrava una cosa seria e mi colpì moltissimo la riflessione dell’editorialista che, in pratica, diceva che la pace avrebbe fatto sparire Israele. Che le nuove generazioni di israeliani, senza guerre, si sarebbero rammollite, e il paese si sarebbe ritrovato con ragazzi come tutti gli altri, consumisti e individualisti, e tanti saluti alla difesa del sionismo.
Con certa brutale chiarezza – molto israeliana – l’articolo teorizzava la necessità di una guerra per ogni nuova generazione, in pratica, come training motivante per gli israeliani del futuro. Un po’ drastico, certo. Specie per chi le subisce, le guerre, e senza esercito o con eserciti più deboli, con meno strumenti di difesa e alleati molto più sgarrupati di quelli che può vantare Israele.
Guerre che puoi solo vincere, quindi. Perché – e questo, l’articolo non aveva la spudoratezza di notarlo – le guerre perse li spengono, certi sacri fuochi ideologici, e ridimensionano l’ego dei popoli che le provocano. Ditelo a noi. La guerra motivazionale bisogna farla a chi può solo perdere, perché funzioni.
Anni dopo, direi che il progetto educativo nazionale che vidi sbozzare in quel vecchio articolo, in un bar di Gerusalemme, continua a funzionare egregiamente. Non c’è generazione di israeliani che non abbia sparato, che non abbia ucciso, che non abbia fatto strage. La paranoia più o meno indotta impera, la sproporzione di un missile contro mille è un dettaglio, la realtà è plastilina che deformi e modelli come ti pare. Il sionismo non rischia di stemperarsi nelle mollezze occidentali, gode di ottima salute. L’educazione al sopruso, all’arroganza, all’abuso di potere è capillare e di grande efficienza. Il progetto identitario israeliano non corre pericoli, a differenza di quello cubano.
E gli arabi?
Due mesi di Cuba mi fanno pensare, per contrasto, che se c’è un modo di essere che non fa parte del DNA culturale arabo, neanche a volercelo innestare a forza, quello è il cinismo. No, non sono cinici. Possono essere e sono molte altre cose, non sto dicendo che siano buoni. Dico che il cinismo non li riguarda e non gli appartiene, nemmeno in prospettiva. Non è un pericolo, non rischia di annacquargli l’identità.
Di fronte a paesi che fanno di tutto per conservare più o meno artificialmente l’identità che hanno voluto darsi, il mondo arabo mi appare inerme, innocente nel suo non essere altro che se stesso. L’identità, agli arabi, viene naturale.
“Hanno più cultura”, mi dice qualcuno. O ce l’hanno da più tempo, non l’hanno creata l’altro giorno.
E poi hanno la fede, certo, e chi ha fede non può essere cinico. Alejo Carpentier dice che chi non ha fede non può sperimentare la meraviglia. E un cinico, figurati, di fronte alla meraviglia è sordo e cieco.
Strano mondo, questo in cui alcuni decidono a tavolino come bisogna essere, mentre altri non riescono a essere null’altro che ciò che sono.
“Con certa brutale chiarezza – molto israeliana – l’articolo teorizzava la necessità di una guerra per ogni nuova generazione, in pratica, come training motivante per gli israeliani del futuro.”
Immagino che anche i razzi sparati a cazzo in mezzo alle case dei propri villaggi e i 30 secondi per correre in un rifugio dopo aver sentito la sirena rappresentino un buon training motivante per un giovane israeliano. Sperando che il giovane israeliano sopravviva.
A questo punto mi chiedo quale idea degli italiani si può fare uno straniero che legga in un bar di Milano un editoriale di Sallusti.
Si spera nel suo buonsenso (dello straniero, intendo).
Le prime quattro righe sono una sana intuizione. E spiegano perche’ tutti i paesi ideologici (fanatici) sono pericolosi e hanno bisogno di stare sempre in tensione. Il mondo arabo e’ un esempio lampante: invece di cercare progresso, liberta” e giustizia sociale sprofonda nel fondamentalismo islamico e cerca nemici esterni sui quali scaricare le proprie frustrazioni.
ma cosa dici!!!!!
a si adesso sono gli iracheni i libici i siriani iraniani ad massacrare la NATO e
USRaele,il bue che da del cornuto all’asino!!!!!!
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