Incontro n. 1, Anika

Siccome la vita è strana assai, girando per l’Avana sono incappata in Anika.

Anika è una delle ex amiche di Dacia Valent e Miguel Martinez, Campo Antimperialista, quel giro là, a sua volta fuggita a gambe levate dopo averci avuto a che fare. A suo tempo ne ereditai un po’, di queste loro ex amicizie, e con qualcuna sono ancora in contatto. Non mi aspettavo di andarci a spasso per Cuba, questo no. Litiga su internet e girerai il mondo, pensavo mentre attraversavamo i vicoli della città vecchia montate su un traballante bicitaxi.

Davanti a un mojito sul Malecón, ci siamo fatte un po’ di chiacchiere. Mi ha raccontato di avere vinto un processo contro la sua ex amica, facendola condannare a otto mesi, se non ricordo male, e a 4000 euro di risarcimento che prima o poi vedrà, forse. E poi mi ha chiesto perché non la andavo a trovare a Caracas, dove sta vivendo al momento. Ci ho pensato un po’, ché il Venezuela da qui è vicino, ma poi ho concluso che Caracas deve essere una città davvero bruttissima. Io me la immagino tipo le Vele di Secondigliano, ma in formato metropoli. Lei ha ammesso che non avevo torto, anche se con Chavez, dice, si sta un po’ abbellendo. Magari aspetto che si abbellisca ancora un po’, ecco. Intanto mi incuriosisce di più il Messico, ci farò un salto sulla via del ritorno in Italia, per Natale.

Ci siamo divertite entrambe, in questo incontro. Sentire il botto del cañonazo de las 9 davanti al mare e ripercorrere quelle lontane vicende e ridere dell’improbabilità del tutto. Lì, in maniche corte a dicembre, davanti a un mojito e a una Bucanero, con la sua nuova avventura che si incrociava con la mia. Che cosa bizzarra.

Incontro n. 2, l’Olandese

Io amo molto gli alberghi, così come amo i bar e, in generale, tutti i luoghi di passaggio. Mi piace la solitudine tra la gente, la socialità senza impegno, guardare senza fare parte di ciò che osservo. Per gli alberghi ho un debole particolare, da sempre. Da quando, a quattordici o quindici anni, mio padre cominciò a spedirmi in giro per il mondo perché non sapeva bene dove mettermi, regalandomi, senza manco farlo apposta, una passione per i traslochi che mi terrà compagnia finché avrò fiato.

All’Avana, l’albergo per eccellenza è l’Hotel Nacional, monumento storico e mirabile miscuglio di eccellenza e approssimazione, che ha un meraviglioso giardino che, per certi versi, ricorda il Marriott del Cairo in versione fané. Mi piace moltissimo e, quando sono arrabbiata con Cuba, vado là a bere qualcosa e faccio pace.

La sera che litigai con la mia ex casa e decisi di andarmene un po’ a Trinidad, avevo il pullman alle cinque del mattino e nessuna voglia di stare in calle Soledad un minuto più del necessario. Me ne andai al Nacional con la mia borsa a fare l’alba, quindi, davanti al mare e a qualche birra, Ero seduta al bancone del bar, arrivarono un paio di olandesi, ci mettemmo a chiacchierare. Si fece tardissimo, uno dei due se ne andò a dormire e l’altro rimase. Un biondone di Rotterdam, mio coetaneo, e non so come mi ritrovai a litigare con lui sulla questione palestinese, tanto per cambiare. E’ che stavano bombardando Gaza, quindi i miei discorsi tendevano a finire tutti là. L’olandese era sionista, ci scannammo e, alla fine, lui decise che gli piacevo moltissimo e che ci dovevamo baciare a lungo.

Ed è che il mondo è un posto stranissimo e non ha nessuna logica, non possiede senso. “Ma scusa, abbi pazienza: come ti viene in mente, con tante donne da baciare che ci sono a Cuba, di volere baciare una tua coetanea sovrappeso che ti ha appena fatto un culo così sulle vicende mediorientali? Ma non hai di meglio da fare? Ma come ti viene in mente, dico davvero!

E poi eccomi lì, al bancone del Nacional e sotto le palme, a baciare senza troppa convinzione, non so se per gentilezza o perché detesto discutere,  uno dei diecimila vichinghi che qui, normalmente, baciano fanciulle con la metà dei miei anni e dei miei chili. Il barman ci sorrideva, paterno. Poi mi sono stufata dopo tre ptciù, ovviamente, e l’alba mi ha visto sul pullman e non da lui. Dice che a gennaio sarà al Cairo per lavoro. Forse pure io. Appuntamento al Marriott, perché no.

Incontro n. 3, il Jinetero

Mi piacciono gli alberghi, dicevo, e stasera me ne sono venuta al Deauville a perdere un po’ di tempo col mio pc. Al Nacional non c’è una presa di corrente, se vuoi stare all’aperto, e poi il Deauville ha un suo perché di modestia caciarona a tre stelle e di bar aperto 24 ore e connessione internet a sei dollari l’ora che a Cuba, ci crediate o no, è poco.

C’è una bionda cubana che balla flamenco mentre farebbe molto meglio a ballare la rumba, e ho nostalgia della mia Pupina che la straccerebbe in due olé, se fosse qui. Ai cubani piace, il flamenco, ma non mi pare un amore corrisposto.

Mi sono seduta e, accanto a me, c’era un tale che stava insegnando a una giapponese i primi rudimenti di spagnolo. Si è girato, ed era il tizio che aveva cercato di rubarmi il portafoglio al Nacional qualche settimana fa. “Tu!!”, ho detto io. “Tu!”, ha risposto lui. E poi mi ha presentato alla giapponese: “Una brasiliana che conosco, una storia strana!” “Sì, mi avevi rubato il portafoglio, e comunque non sono brasiliana.” “Non è vero, il portafoglio lo hai ritrovato, non ero stato io!” E’ passata un’oretta, abbiamo stabilito un bizzarro cameratismo che consiste nel mio assicurargli che non mi spillerà un soldo e nel suo assicurarmi che sono una stronza che gli è simpatica. Ha cercato di ballare flamenco pure lui, e gli si è strappata la camicia sotto entrambe le ascelle. Per darmi uno schiaffo morale, mi ha mostrato una patente di guida del Nevada. Io ritengo che sia un jinetero DOC e, quando si avvicina, abbraccio la borsa e lo respingo a pacche sulla mano tesa. Lui all’inizio faceva l’offeso. Ora, visto che non mi impressiono, ride e mi lascia in pace. In questo momento, gli amici della giapponese lo stanno fotografando abbracciato a lei e le ballerine cubane di flamenco sono raddoppiate e non le posso guardare, ma perché non la piantano, perché non ballano le cose loro? Sono troppo dolci per ballarlo, hanno il bacino troppo mobile, non hanno il piglio né l’arroganza, non sono sicure di quello che fanno, non lo sentono. Proprio no. Non le posso guardare. Dov’è la mia Pupina, quanto mi manca, gessù.

Incontro n. 4, Alicia Alonso

Uno spettacolo di flamenco assai diverso l’ho visto l’altra sera al Gran Teatro de la Habana, che è come dire la Scala di Cuba. E’ stato tutto un po’ casuale, a dire il vero: mi ripromettevo da tempo di andarci e poi, semplicemente, ci sono passata davanti mentre la biglietteria era aperta e sono entrata. C’è stato un piccolo brainstorming tra me e il bigliettaio su quanto dovessi pagare per l’entrata: “Dunque, lei è residente, ma temporanea e non permanente. D’altra parte, la sua residenza è per via dell’università, cosa che le dà diritto allo sconto, ma sul suo documento non è specificato, cosa che le toglie il diritto e la obbliga a pagare il prezzo per stranieri…” Sarebbe andato avanti a pensare ad alta voce ancora a lungo, se non avesse incrociato il mio sguardo da bracco triste. Si è interrotto, quindi, e ha staccato un biglietto: “Diez pesos”, mi ha detto. Circa quaranta centesimi di dollaro.

Nella sala Garcia Lorca c’era gente di ogni tipo: eleganti e sgualciti, vecchietti e giovani coi piercing, un mucchio di bambine che, era evidente, studiavano danza. Teatro pieno e all’improvviso, pochi minuti prima che iniziasse lo spettacolo, il pubblico comincia a girarsi verso il palco centrale e prima applaudono alcuni, poi tutti. “Está Alicia?”, mi domanda il vecchietto accanto a me. Direi di sì: il nome “Alicia” corre ovunque, tutti guardano in alto con un sorriso dolce, di affetto vero, ed io mollo la mia poltroncina e mi sposto dove la visuale è migliore ed eccola là: Alicia Alonso, con il suo inconfondibile turbante, il suo profilo regale, i suoi quasi cent’anni belli che ti toglie il fiato. La prima volta che vado al teatro all’Avana e becco Alicia Alonso, dimmi tu.

La compagnia di ballo le dedica lo spettacolo, le arrivano dei fiori, le dicono: “Grazie di esistere, Alicia.” La settimana dopo, durante il corso di cultura cubana, si parla di musica del Novecento e il professore la definisce “l’anno zero del balletto di Cuba”.

Il flamenco che vedo al Gran Teatro fa propria la contaminazione con i ritmi di qua, la usa consapevolmente e la impasta di teatro, improvvisazione, danza classica, e siamo quasi tutti in piedi ad applaudire e scopro che il pubblico cubano è caldo, generoso, istintivo e, anche, individualista nel suo apprezzamento. La standing ovation non è generale, non c’è emulazione. Moltissimi si alzano, altri applaudono da seduti, ognuno fa quel che gli pare, è un pubblico troppo intento a dare per avere coscienza di sé come insieme, non guarda se stesso. Un pubblico preoccupato solo di dire che è stato bene, che ciò che ha visto gli è piaciuto. Capisco, mentre lo guardo, di essere davanti a qualcosa che, nella nostra civiltà dell’applauso, si è perso. Gente che applaude senza pensare di stare in tv.

Lo spettacolo si conclude con una coreografia de “El crimen fue en Granada”, di Machado. Sono nella sala García Lorca del Gran Teatro de la Habana a vedere una compagnia cubana che interpreta, tra tutti, proprio quei versi. E con Alicia Alonso sulla testa. Un’ispanista di sinistra può anche morire, a questo punto. No, io non muoio. Vado, invece, al ristorante italiano all’angolo a mangiarmi un piatto di spaghetti, felice.

Incontro n. 5, il Taxista

Salgo, per una volta, su un taxi dotato di tassametro. E funzionante. E’ notte, voglio comprare una bottiglia d’acqua prima di rincasare e, qui, l’acqua in bottiglia è roba da stranieri. Sarebbero 40 centesimi, mi chiedono un dollaro, protesto, insistono, rischio di rimanere senza acqua per la notte, gli do il dannato dollaro e ritorno al taxi furente: “Senta, mi dica, ma a Cuba odiate gli stranieri?” Mi guarda sconcertato, ride, mi assicura di no, è proprio stupito ed è evidente che non aveva mai visto il rapporto stranieri-cubani da questo punto di vista. Io sono incazzata, invece, e gli espongo tutte le mie lamentele, le mie difficoltà, il mio punto di vista. Lui rimane per un po’ zitto e, intanto, arriviamo a destinazione. “No, non mi dia tre dollari, me ne dia due.” “Cosa succede, si sente in colpa per quello che le ho detto?”, faccio io. “No, però il prezzo giusto è due dollari, e lei non deve chiedere a noi il prezzo, deve proporre il suo, e poi bla…bla… bla…

Mi ha fatto un corso intensivo di sopravvivenza a Cuba in cinque minuti, lì sotto al mio portone, nel buio e a tassametro spento. Lo ha proprio fatto per me, o perché gli dispiaceva che fossi arrabbiata col suo paese. Mi sono sciolta come un cioccolatino, ovviamente, e sono salita a casa pensando che però gli volevo bene, a ‘sti cubani.

Loredana, il giorno dopo, mi  diceva: “E’ che sembrano burberi ma in fondo sono buoni.”
Già.
Dannati isolani.

E una mancanza, infine, le sigarette.

Le chitarre elettriche, qui nell’atrio del Deauville, hanno mollato l’improbabile flamenco e stanno suonando Santana. Il mio amico jinetero è andato via con i giapponesi e con la sua camicia strappata. Vendono dei panini, al bar, ma sono imbottito con prosciutto, salame e formaggio. Tutto insieme. Non credo di poterli affrontare. E va ancora bene, ché per fare un classico panino cubano gli manca l’aggiunta di una bistecca di maiale. Un tedesco accanto a me fuma Marlboro light, che il cielo lo fulmini, e – come ogni sera – la mia determinazione a smettere di fumare vacilla. Ma vacilla da quasi cinque mesi, ormai, eppure regge: non ho mai più fumato, dal 18 luglio scorso. Una notte ho sognato che compravo un pacchetto di sigarette ma poi, nel sogno stesso, lo buttavo giù da un ponte.

Da quando ho smesso di fumare non ho più fatto un colpo di tosse. Nemmeno uno. E ho i denti più bianchi, la pelle più distesa. E salgo le scale soffrendo ma senza stramazzare e, per la prima volta in vita mia, prendo in considerazione l’idea di non morire giovane, e considero l’ipotesi, per me inedita, di riuscire a invecchiare. Vorrei tanto farcela, davvero. A smettere di fumare, dico. Perché non ce l’ho ancora fatta, non posso ancora considerarmi un’ex fumatrice. Soffro ancora troppo, certe volte. Adesso, per esempio. Però tra un po’ saranno cinque mesi, poi sei, poi otto, poi un anno. Prima o poi dovrò pur smettere di rischiare di ricominciare, dico io. Oppure no, ma vabbe’. Si gestisce.

In questi cinque mesi ho capito questo, che smettere di fumare non ti cambia, non è grave, non è nulla di impegnativo sul piano dell’identità. Smettere di bere, o di drogarsi, o di giocare d’azzardo, ha ripercussioni molto più profonde sullo stile di vita di chi lo fa, direi. Persino mettersi a dieta ha ripercussioni più forti, ti cambia di più.

Smettere di fumare vuol dire solo abbandonare un gesto, invece. Tu rimani uguale, la tua vita pure. Questo non vuol dire che non sia un vizio subdolo e potente. Vuol dire solo, secondo me, che in una scala di difficoltà è un vizio stupido da eliminare, l’unico che non ti obbliga a farti una personalità nuova.

Una personalità nuova me la darebbe, invece, il vivere per anni attaccata all’ossigeno, senza respirare, nella claustrofobia più da incubo che io possa immaginare e che mi è stata garantita, per iscritto, una settimana prima che smettessi. No, dai.

Domani mattina mi sveglierò e sarò felicissima di avere resistito alle Marlboro del dannato tedesco accanto a me, all’ennesima serata pericolosa.

Smettere di fumare a Cuba, tra sigari e foglie di tabacco e mancanza di divieti. Sono una gran figa, e ‘fanculo a tutti. No, non fumo più.