Sarà anche piccola e polverosa, Las Tunas, ma in pochi metri passo davanti a un recital di poesia lungo la strada principale, contemplo un’orchestra che prepara gli strumenti per fare musica all’aperto, poi una chiesa quacchera, la sede di una loggia massonica, poi fotografo due ragazzi che suonano la tromba per conto loro in mezzo ai giardini pubblici e infine, tornando in piazza, finisco in un internet cafè che mi lascia a bocca aperta. Perché si fa presto a dire ‘internet café’. Ma qui siamo a Cuba, cari miei, mica a New York. E invece.

Mi ritrovo in un bar vero, grande, al primo piano di un palazzo d’epoca con una balconata che domina tutta la piazza principale. Dentro ci saranno una ventina di postazioni, con computer nuovi di zecca a schermo piatto. Ci si collega comprando una tesserina a tempo che costa quattro dollari e mezzo l’ora: meno della metà di quello che si spende negli alberghi, che erano gli unici posti da cui mi potevo collegare fino a qualche mese fa. Contemplo una rivoluzione, insomma. E a Las Tunas. Nella provincia profonda. Mi collego col timore di trovare una linea lentissima e di infrangere l’incantesimo e invece no. Funziona meravigliosamente, apro Facebook, sfoglio le foto di mia figlia, apro i quotidiani online, apro tutto senza preoccuparmi del peso delle pagine. E grido al miracolo, alla rivoluzione internettiana, al progresso inesorabile e viva la revolución. Cuba su internet, che sorpresa, che meraviglia. E tutto in pochissimi mesi. Non ci si può distrarre un attimo, con questi qua.

Nei giorni successivi, il miracolo si ripeterà a ogni mia tappa. Internet a Cuba è diventato praticamente normale, sono – quasi – finiti i tempi della penuria. C’è il wifi in moltissimi posti pubblici, gli uffici di Etecsa (la compagnia telefonica cubana) fanno orario continuato weekend compreso, ovunque campeggiano questi schermi piatti e nuovi che non mi stancherei più di vedere scintillare. I prezzi, certo, sono ancora alti, ma non comparabili ai dieci dollari l’ora degli albergoni dell’Avana. Alle postazioni, quindi, vedi molti più cubani che stranieri, finalmente. Mi dicono, inoltre, che adesso ci sono abbonamenti che ti permettono di ricevere le email sul cellulare e altre meraviglie, a prezzi sostenibili. Manca ancora, purtroppo, l’accesso a Skype e simili, e tutti dubitano che sia previsto in tempi brevi. Permettere di telefonare gratis sarebbe molto doloroso per le casse di Etecsa. Ma pazienza, senti: se penso all’anno scorso, già così sembra un sogno.

Il giorno dopo decido, ottimisticamente, di cercare qualche spiaggia nei dintorni. La mia base di partenza dovrebbe essere Puerto Padre, a un’oretta da Las Tunas. Il mio mezzo di trasporto è un camion vagamente militare, chiuso, con delle feritoie per guardare fuori e, all’interno, quattro panche messe per il lungo su cui ci disponiamo in qualche modo mentre il rimanente spazio viene occupato da passeggeri in piedi. Fuori dal camion, la scritta a mano dice: “Servicio público”. Su una fiancata del camion c’è la porticina da cui si entra. Il portellone posteriore, chiuso, recita: “Salida de emergencia”. Cuba bada alle norme di sicurezza persino nelle situazioni più improbabili. In mezzo alla calca sgomitano venditori di qualunque cosa: bicchieri pieno di ghiaccio tritato e sciroppi colorati, pasta sfoglia ripiena di carne, dolci di guayaba, elastici “che in casa servono sempre”. Partiamo, festosi. E così scopro che Puerto Padre non è affatto a un’ora di strada: quando scenderò dal camion, dopo avere attraversato campagne, allevamenti di bovini, villaggi minuscoli e visioni di contadini a cavallo coi cappelli da cowboy, è quasi pomeriggio e, pesta e impolverata, mi ritrovo in una specie di città fantasma in capo al mondo, col mare ma senza spiaggia (“E’ a un’ora da qui”, mi dicono, mentre io penso che non mi fregano più col loro ottimistico calcolo delle distanze) e strade assolate lungo cui cammino senza incrociare anima viva, fino ad arrivare a un immenso, improbabile, incongruente – ma anche no – monumento a Don Chisciotte e al suo mulino a vento. C’è solo lui, e niente altro.

In un baretto sul lungomare (niente acqua, al solito, solo rum e birra) mi dicono che di sera c’è movimento, invece. Fanno musica, si balla. “Ci sono diversi italiani che vivono qui, sai?” E ti pareva.

Passeggio, cerco l’acqua un po’ ovunque, non la trovo e decido di tornare a Las Tunas perché ho sete e non me la posso togliere con l’Havana Club. No, non ci sono più camion per Las Tunas. Alla fine condividerò un taxi collettivo – la solita panciuta e ansimante macchinona anni ’50 – con dei ragazzotti dall’aria da rapper che mi faranno l’occhiolino per la prima metà del viaggio e dormiranno tutti spatasciati per la seconda metà.

Di nuovo a Las Tunas, un bicitaxi mi porta a visitare la casa-museo di Carlos Leyva González, uno dei Martiri delle Barbados. Si tratta di una bruttissima storia a cui credo di avere già accennato in passato ma che vale la pena di riportare così come la racconta Millar:

“Le Barbados sono qualcosa che io associo a splendide spiagge, cocktails a base di rum e turismo di lusso, non certo a dei martiri. Ma questo è perché ho imparato la storia dall’altro lato del mondo.”

Siamo nel 1976. Un DC-8 della Cubana de Aviación riporta a casa, tra gli altri passeggeri, la squadra nazionale di scherma che ha appena fatto il pieno di medaglie d’oro ai Campionati Centroamericani, che quell’anno si sono svolti in Venezuela. Il volo farà scalo a Trinidad e alle Barbados, prima di arrivare all’Avana. Carlos Leyva, 19 anni, fa parte della squadra. Il clima è festoso, Cuba li aspetta entusiasta, sono tutti così contenti che, quando a Trinidad sbucano due tizi alla ricerca di un volo per le Barbados, gli stessi ragazzi della squadra li aiuteranno a prendere i biglietti per imbarcarsi sul volo Cubana. I due scendono alle Barbados lasciando due cariche di esplosivo sull’aereo: una nei bagni sulla parte posteriore, l’altra nella zona centrale. Le cariche esplodono undici minuti dopo il decollo, aprendo uno squarcio nella fusoliera e causando un incendio. Il capitano ha il tempo di chiedere aiuto (“C’è stata un’esplosione a bordo! Richiediamo un atterraggio di emergenza!”) poi l’aereo precipita. Muoiono 11 cittadini della Guyana, cinque della Corea del Nord e 57 cubani, compresi i 24 membri della squadra di scherma, molti dei quali ancora adolescenti. Sarà il peggiore attentato a un aereo civile mai avvenuto fino ad allora nell’emisfero occidentale.

I due attentatori saranno poi identificati come Orlando Bosch e Luis Posada Carriles, due militanti anticastristi legati a organizzazioni associate alla CIA. Li arrestano in Venezuela, passano un po’ di tempo in carcere. Poi Bosch viene rilasciato, torna negli USA e muore tranquillamente a Miami libero come un fringuello, nel 2011. Posada invece evade dal carcere venezuelano e passa in Salvador, dove si dà da fare in diverse operazioni militari per conto della solita CIA. Più tardi – e siamo ormai a metà degli anni ‘90 –è implicato nella serie di attentati scatenati all’Avana per sabotare la nascente industria del turismo cubano. Morì anche un italiano, in uno di questi. Torna negli USA, infine, dove fingono di arrestarlo per una piccola irregolarità amministrativa e subito lo rilasciano. Che io sappia, se non è morto di vecchiaia negli ultimi tempi è ancora libero e felice a spasso per Miami, con una moglie americana e due figli. Lo chiamano “Bambi”. Per Cuba, è l’equivalente dell’Osama Bin Laden su cui tanto hanno strepitato gli americani.

La verità è che Cuba, presunto “Stato canaglia” messo all’indice dagli americani, è piuttosto, e da decenni, obiettivo del terrorismo che arriva dagli USA. Negli aeroporti cubani, il metal detector si passa per entrare, oltre che per uscire. Le vere minacce arrivano, più che partire. Dagli aerei esplosi in volo alle bombe, dai sabotaggi all’embargo passando per i mille piani per assassinare Fidel Castro, che incidentalmente sarebbe il capo di uno Stato sovrano: qui lo sanno a memoria, cosa vuol dire essere vittime del terrorismo.

Di tutto questo, noi – stolida provincia dell’impero – sappiamo poco e ricordiamo meno. Ci riempiamo la bocca di parole vuote – libertà, civiltà, lotta al terrorismo – e poi ci meravigliamo nello scoprire quanto la nostra ipocrisia risulti insopportabile a buona parte del pianeta. Che strano, già.

Il monumento nel giardino della vecchia casa di Carlos Leyva è un insieme di lamiere accartocciate. Chiedo ai due poliziotti di guardia cosa ne è stato della famiglia. Ricevettero, a suo tempo, un appartamento dallo Stato, mi spiegano. Stanno bene, mi dicono, e mi ringraziano per avere domandato.