Altro pullman, altra città. Tocca a Holguín, di cui so che è capoluogo della provincia che diede i natali tanto a Batista come a Fidel – tu chiamala, se vuoi, par condicio – e poco più. All’ingresso della città, un altro grande monumento al Caballero de la Triste Figura, stavolta assieme a Sancho Panza. E’ il terzo che vedo, dopo quello all’Avana e quello a Puerto Padre. Un giorno dovrò contarli, i monumenti che quest’isola – chisciottesca come nessuna –ha, a buon diritto, dedicato a Don Chisciotte.
Holguín non mi colpisce molto – grandicella, grossi giardini polverosi e qualche bar grazioso, poco altro – e decido di proseguire il giorno dopo per Guardalavaca, in un nuovo tentativo di trovare una spiaggia.
Questo delle spiagge è, nella mia esperienza, il punto più dolente del girare l’isola come viaggiatrice indipendente. Il turismo individuale è fatto per le città, a Cuba, soprattutto se non hai una tua macchina per spostarti. Le spiagge belle sono lunghe da raggiungere – a volte su isolotti dove si arriva solo in taxi o in pullmini turistici, pagando l’ingresso e con l’obbligo di sloggiare a una certa ora – e comunque orientate sul turismo delle grandi strutture alberghiere. Guardalavaca non fa eccezione, scopro. Pur essendo una delle spiagge più belle di Cuba, a quanto dicono, è difficile godersela se non si è ospite degli albergoni che si intravedono lungo la strada. Il paese di Guardalavaca esiste e offre anche delle casas particulares da cui la spiaggia si può raggiungere a piedi. Ma è un paese dall’estetica improponibile, una trentina di condomini malconci che offrono al visitatore stanze buie e malinconiche. Ci ritroviamo lì io e un’altra coppia di perplessi italiani, due trentini simpatici che nella vita fanno grappa e, per il resto del tempo, viaggiano. Mi dicono che loro lo hanno scovato, un posto di mare come lo vorrei io: si chiama Boca ed è dalle parti di Playa Santa Lucía, nella zona di Camagüey. Potrei passarci lungo la strada del ritorno verso l’Avana, magari. Il giorno dopo, comunque, riparto diretta a Santiago de Cuba.
E pure Santiago non me la godo molto, ahimé: la prima notte sogno che un insetto mi sta pungendo. La mattina dopo, al risveglio, ho un piede gonfio e dolente. Non era un sogno, dopotutto. Sulle prime ignoro il dolore e me ne vado a spasso, zoppicando. Poi me ne pento, ovviamente, e mi metto a letto in preda a dei crampi terrificanti. Il giorno dopo, il dolore non è diminuito di una virgola, tanto da farmi pensare che potrei persino essermi rotta un osso senza manco accorgermene, altro che insetto. Mi arrendo e vado alla clinica per stranieri, dove una bella dottoressa, con la solita minigonna e calze a rete che costituiscono l’abbigliamento preferito dalle donne cubane, mi dice che secondo lei mi ha morso un ragno e sto reagendo con un’infiammazione di primissima categoria. Mi riempie di Ibuprofen e mi manda a casa, senza nemmeno farmi pagare. Bontà sua. In tutto mi costerà tre giorni di immobilità, il dannato ragno. Quando finalmente sono in grado di camminare di nuovo, il desiderio di muovermi è tale che cambio direttamente città. Santiago, magari, la esplorerò meglio al ritorno. Intanto vado a Guantánamo e, da lì a Baracoa.