Piove parecchio. Assai. Dicono che sia la città più piovosa di tutta Cuba. Oltre che la più isolata e la più affascinante. Non hanno torto.

E’ effettivamente diversa, Baracoa, anche se non è facile spiegare in cosa. Ha una sua dolcezza e una sua eleganza. Lo percepisci nel cibo, per prima cosa. La cucina cubana tende a essere, come non mi stanco di ripetere, brutale. Serve a nutrire, con poche storie. E’ fatta di pochi piatti, a quanto pare bilanciati dal punto di vista nutritivo – lo dico perché i cubani sono, in media, in evidente splendida forma – ma tristemente monosapore e senza nessuna concessione alla fantasia, come se qui non ci fosse tempo da perdere in simili mollezze. I messicani, per dire, con un avocado, un po’ di pomodoro e cipolla e una spruzzata di lime si sono inventati il guacamole. I cubani, più sbrigativi, ti mettono un avocado a pezzi nel piatto, accanto ci mettono del cavolo a fette e più in là, se rimane spazio, ci fanno stare due fagiolini bolliti. A Baracoa, invece, con i loro ingredienti si sono sbizzarriti di più. Condiscono il pesce e i crostacei con una salsa al latte di cocco che è francamente buona. Fanno una polentina che si chiama bacán, a base di banane verdi e cocco, arrostita nelle foglie di banana, che per me è un po’ amara ma che, santo cielo, è un piatto tipico, locale, in un paese in cui la cucina tipica tende a riassumersi nel riso e fagioli onnipresente in tutti i Caraibi. Hanno delle zuppe insolite, originali. E hanno i loro dolci, tra cui impera il cucurucho che è a base di cocco e frutta secca, da quello che ho capito assaggiandolo, e che è dolcissimo che non vai oltre il secondo cucchiaio ma buono. E il cioccolato, in questa terra di coltivatori di cacao, e te lo danno in tazza la mattina per colazione, caldo e spesso al punto giusto. Alla Casa del Cacao ci aggiungono pure il rum, e ci sta benone. Per quale motivo, mi domando, la stessa salsa, le stesse aggraziate creazioni culinarie non si espandono oltre i confini di Baracoa? Ecchennesò, è un mistero.

La cittadina è fatta di casette basse, molte di legno, coloniali. C’è una chiesa, al centro della piazza, che dalla fondazione della città, nel 1511, fino a oggi, è stata ricostruita un’infinità di volte e la si vede nuova, ma ospita una croce che pare sia stata piantata da Colombo in persona. Trovo la chiesa chiusa per due giorni di fila e poi finalmente un sabato sera ci passo davanti mentre c’è la messa. Mi infilo dentro, veloce, e aspetto la fine della funzione prima di fare la turista. C’è parecchia gente, un bel gruppo di ragazze che cantano, dei deliziosi chierichetti mulatti e ricci con le loro tonache bianche. Sgattaiolo verso la famosa croce, ne ammiro gli attestati di autenticità ottenuti presso laboratori europei che hanno calcolato l’antichità del legno, contemplo la bandiera vaticana accanto all’altare. A Cuba ho visto chiese di tutti i tipi, oltre a quelle cattoliche. Quacchere, pentecostali, pure una grossa sinagoga all’Avana, e so che ci sono diversi centri di preghiera per i musulmani. Chi accusa l’isola di ostacolare la libertà di culto è poco aggiornato, come quelli che credono che qui stiano ancora a discriminare gli omosessuali. Sono cambiati i tempi, da parecchio. All’uscita dalla chiesa il parroco, ancora molto elegante coi suoi paramenti e alto, statuario, mi saluta e, da padrone di casa, mi porge la mano. Encantada.

Un paio di giorni dopo, al bancone del bar dell’Hotel Habanera – dove hanno addirittura il wifi o, meglio, lo avrebbero se solo funzionasse – la barista mi chiede di dove sono e poi mi fa: “Ma in Italia ci sono le chiese?”La guardo a bocca aperta: “Be’, sì, abbiamo il Vaticano, hai presente il Papa?” Lei scaccia l’idea del Papa con un gesto e mi chiede delle chiese pentecostali, le uniche che evidentemente ritiene tali. “Be’, di quelle ne abbiamo di meno”, ammetto. “No, perché io ho un cugino che vorrebbe una moglie europea”, mi spiega. “Non per andare all’estero, ma per stare qui con lei. Però lui è molto cristiano, quindi la vuole cristiana”. Ma tu pensa, due preghiere e trovo marito. Non sarebbe manco la prima volta. “E tuo cugino cosa ha da offrire?”, chiedo. Mi guarda, un po’ offesa per il sorriso che non riesco a trattenere, e non risponde. Pensandoci, forse il suo silenzio è un gesto di riguardo verso il comune senso del pudore, cristiano o meno che sia ‘sto cugino.

Che cerchino moglie o meno, gli uomini di Baracoa – ma un po’ di tutto l’Oriente cubano – dispensano bacetti e complimenti vari con grande prodigalità e assoluto buon umore. Il politicamente corretto qui non ha fatto breccia. Né li trattiene il fatto che io sarei una signora, ormai, mica una giovincella. Ridendo e scherzando (molto di entrambi) ho superato i cinquanta anni, come qui non mi stanco di ripetere. All’ennesimo tizio che mi lancia un bacio, sbotto ed esclamo: “Ma che vi prende, a tutti quanti? Ma che mania è questa?” Lui si schianta dal ridere, ora mi trova anche simpaticissima. Ma dimmi tu.

In uno dei rari giorni in cui non piove, vado a Playa Maguana con un tassista che mi parla con nostalgia struggente di quando l’URSS ancora esisteva e a Cuba si viveva bene. “Allora contavano l’amicizia e la lealtà, erano la cosa più importante”. Passiamo davanti a una costruzione adibita a albergo e lui mi parla di quando era riservata ai bambini che ci venivano in colonia. “Era para los pioneritos”. Non per i turisti. Teme che Cuba sia distrutta dalle giovani generazioni, dagli attuali ragazzini affamati di soldi. Diresti che abbia settant’anni, da come parla, e invece ne ha a stento quaranta. La generazione che è cresciuta in una storia e si è ritrovata in un’altra. Più tardi, mentre sono in acqua, vedo due figure familiari che mi salutano dalla riva: sono i due trentini di Guardalavaca. Piccola, Cuba. Ci ritroveremo ancora ogni tanto, a Baracoa, per condividere due tragos di rum e qualche chiacchiera.

Baracoa è uno di quei posti che ti risucchiano, dove i giorni scorrono senza che tu te ne accorga. Quando mi riscuoto dal torpore contemplativo, dall’osservazione della pioggia, dalla lettura e dalla scrittura, è passata una settimana. Come se fosse volata. E non ho nemmeno accumulato cose da raccontare, niente. E’ il posto in cui mi sono fermata di più, fino a ora, e quello su cui saprei meno cosa dire, se non che sono stata bene. Se mi decido a ripartire è, fondamentalmente, perché la pioggia incessante rende molto difficile prelevare soldi in banca, il collegamento per il pos funziona a singhiozzo. E poi ho un debito con Santiago, l’altra volta l’ho vista a stento. Mi schiodo, molto a fatica, e vado. Indovina come? Con un altro camion, sì.