Stasera un tizio (uno che lavora in Rai, non a caso) mi ha detto una cosa illuminante su uno dei miei maggiori problemi a Cuba. Io gli dicevo che di fronte a qualsiasi bella immagine, pure quella del nero che suona il sax da solo sul Malecon, sento di averla già vista in mille film e documentari e non mi emoziono mai.
E lui mi ha detto che è quello che succede a New York, per esempio, e che comunque: “Questo è un merito del cinema, non è un demerito di Cuba”. Ha ragione. Non l’avevo mai vista così.
Anche se suppongo che sia un demerito dello stesso cinema il fatto che, al contrario, tutto quello che di bellissimo succede in Medio Oriente mi sorprenda sempre perché nessuno lo filma mai.
Incontrare un italiano capace di concepire una frase intelligente vale comunque già un’intera serata, da queste parti.
Era seduto al tavolo accanto al mio alla Carboncita, mangiava da solo e, benedetto ragazzo, con gagliardo appetito. Era alla carne con patate dopo la pizza quando una cubana lo ha abbordato sedendosi al suo tavolo con un bicchiere di rum in una mano e un Montecristo spesso quanto il mio polso nell’altra. Collanona di perle anni ’20, lunghe gambe tatuate, tacchi altissimi e barocchi, una lunga lista di uomini di cui parlare. Non potevo non ascoltare, ero lì accanto. Ci è passata accanto un’altra coppia che aveva finito la cena. Lui tracagnotto e italiano, lei in tenuta sadomaso con lunghi stivali borchiati, minishorts e top di pelle nera, berretto da SS, capello biondissimo e un orsacchiotto di peluche rosa sotto al braccio. La tizia col Montecristo commenta scandalizzata e poi nota che anche io sto ridendo. Scambiamo due parole sul suo sigaro. Poi lei torna al suo monologo, è eccessiva, troppo avvolgente, esagerata, il povero italiano boccheggia un po’ e poi approfitta di una sua momentanea assenza per lanciarmi una muta richiesta d’aiuto da un tavolo all’altro. “Che fai, fuggi o cedi?”, gli chiedo io. “Fuggo, fuggo”, fa lui. Poi abbiamo chiacchierato un po’ ed era, appunto, intelligente. Che cosa insolita.
Le chiacchiere mi hanno tolto la voglia di andare a dormire, ovviamente, ma non mi hanno fatto venire quella di andare per locali. Me ne sono venuta all’Hotel Presidente, mia base di questo periodo grazie alla portentosa linea internet a soli (!) quattro dollari e mezzo l’ora 24 ore al giorno, e mi sono piazzata a scrivere al solito bancone di mogano. Mi piacciono ‘sti banconi, che devo fare.
Ecco: tra le cose che mi piacciono di Cuba, i banconi di legno scuro dei bar sono forse al primo posto. Come i bar stessi e la loro aria da prima metà del Novecento. Il fermo immagine cubano, per cui ogni ufficio o banca o bar del paese ti sembrano il set di un fumettone su Superman o qualcosa del genere, quelle robe con la protagonista femminile che fuma da un lungo bocchino con i capelli tutti gettati da un lato. Poi, per fortuna, mi piacciono anche altre cose. Vediamo cosa.
Vabbe’, le cose che ho già scritto altre volte: il fatto che ci siano diritti, l’istruzione, la sanità, ma stasera non volevo parlare di politica. Anche se, alla fine, mi sa che la politica è la cosa che apprezzo di più a Cuba, nonché la cosa che finisce sempre col rimandarmi al mittente le mie stesse – troppo – facili critiche. Pensate di me quello che volete, mi assumo la responsabilità di quello che dico: ritengo che la cosa migliore di Cuba sia Fidel. Senza, questo posto non so cosa sarebbe. Il giorno in cui sarà possibile coniugare questo pezzo di mondo con la dignità senza passare attraverso i Castro, fatemelo sapere. Per il momento, la vedo durissima.
Mi piacciono, di Cuba, le stesse cose che detesto. Detesto il ruolo di noi stranieri, il nostro essere in fondo alla scala sociale e anche al sottoscala, la nostra funzione di polli perpetui senza riscatto possibile. Amo, allo stesso tempo, la solidarietà che hanno tra di loro i cubani, il loro fare catenaccio, il “grande complotto cubano” che li rende tutti fratelli a nostre spese, il loro “noi contro tutti” che è nel DNA del paese e di cui sono vittima ma che, allo stesso tempo, ammiro.
Detesto la fatica che ti costa fare ogni più piccola cosa, e le frasi che più senti ripetere quando sei qui, a partire da quello che dovrebbe essere lo slogan nazionale: “No es fácil”. Lo senti dire come intercalare: quando sei in coda, quando manca un prodotto o anche la luce, quando l’autobus non arriva o hai una sfiga qualsiasi o quando si parla, semplicemente, della vita. Nessuno dice mai: “Es difícil”. Si dice che “no es fácil”. E questo mi piace.
Accanto a “no es fácil” c’è la ben più tremenda “No hay conexión”. Quando ti dicono che “no hay conexión”, sai che ti aspetta l’inferno sotto forma di pellegrinaggio da una banca all’altra per prelevare soldi in qualche modo, mentre i quattrini che ti rimangono in tasca diminuiscono sempre di più e te la cominci a fare a piedi sotto al sole perché temi di dovere ormai scegliere tra prendere un taxi o mangiare. Mai ridursi all’ultimo momento per prelevare, a Cuba. Mai fidarsi di nulla di tecnologico o meccanico. Mai pensare di fare presto a sbrigare alcunché. Questo è un paese che richiede organizzazione. Ferrea, e per tempo.
Poi, per contro, c’è il miracolo: la tua gioia da bambina quando la macchinetta del POS sputa fuori, festosa, la tua autorizzazione a un pagamento. Ti batte il cuore, pensi che Dio abbia guardato giù verso di te. La sorpresa festosa di sapere che al Presidente hanno ancora tessere per collegarsi a internet, anche se è sera e non ci speravi proprio e diventi persino un po’ rossa, baceresti l’impiegata. Quella stessa impiegata che altrimenti ti direbbe “no hay” con l’aria distante e scostante e il sottotesto di “Non scassarmi il cazzo e arretra senza fiatare”, e invece ora addirittura ti sorride e tu ti commuovi tutta. A Cuba impari a non dare niente per scontato, e ogni volta che qualcosa va come la desideri è una festa autentica, il cuore che, letteralmente, si fa sentire. E poi sono belli certi piccoli gesti gentili, la solidarietà cubana quando decide di includerti. La fila in cui qualcuno, indicandoti, dice che “la compagna è prima di me” salvaguardando il tuo posto, e sono le volte in cui ti senti un pizzichino meno straniera. Ma anche le volte in cui sei stranierissima e un cubano, dimostrandoti una coscienza di classe dinanzi a cui puoi solo toglierti il cappello, ti spiega perché. Ricordo un viaggio tra Guantanamo e Santiago, e il taxista che voleva da me un dollaro in più di quello che chiedeva ai suoi compatrioti in cambio del “privilegio” di farmi sedere davanti. E io che protesto, che mi dico discriminata, che rivendico di pagare come gli altri visto che viaggio come gli altri. E lui che mi fa: “Ma lei non dorme come me, e non mangia come me”. E io ammutolisco. Ha ragione. Caccio il mio dollaro e taccio per sempre. Cuba sa insegnarti delle lezioni, per quanto la cosa lì per lì ti faccia incazzare.
Torniamo sempre lì: il meglio di Cuba, per me, è la politica, figlia della sua storia. E’ la sua offerta culturale, infinita. Sono i libri che compri a pochi centesimi, introvabili e impensabili in Occidente. La lettura della realtà che c’è in quei libri, alternativa e rigorosissima allo stesso tempo. Io che esco da ‘ste librerie con lo zaino pieno da rimanere stroncata sotto il peso di quello che ho comprato, e ho speso quello che avrei speso per un mojito.
E poi mi piace moltissimo salire, di notte, su una macchina colma di negroni con le catene al collo, gli avambracci da culturista, il cappellino da baseball al contrario e l’aria da gangsta e sapere che è un semplice taxi collettivo che mi porta a casa e che manco li sfiora l’idea di torcermi un capello, pure se gli basterebbe un mignolo per fare di me una polpetta. E’ sempre bello potere girare di notte e di giorno senza ricordarti della sempiterna menata di essere una donna che viaggia sola.
Per contro, io non ho accesso a quello che piace a tanti stranieri di qua perché non partecipo al grande gioco locale della seduzione. E’ un handicap ma non so cosa farci. Non sopporto di essere fraintesa ogni volta che scambio mezza chiacchiera con qualcuno. Il lavoro che faccio qui, per giunta, è solitario, è studio senza colleghi. Faccio il topo di biblioteca o l’occupatrice di tavolini, la mia socialità è minima e faticosa. La famosa “allegria cubana”, quindi, mi è ignota o, al massimo, la situerei nell’Oriente dell’Isola. Molti la vedono diversamente da me e me ne compiaccio. Beati loro. Però, permettetemi che lo dica, io ricordo l’allegria egiziana, dove pure non giocavo a nessun gioco di seduzione ma non passava un’ora senza che, in strada, mi scappasse da ridere per qualcosa. Dovrei smetterla di fare paragoni, lo so, ma il cuore continuo a averlo in Egitto e le battute di lì, meno sarcastiche ma tanto più sottili, mi fanno ridere di più. Sarà che io sono mediterranea, non caraibica. Come gli egiziani, appunto. Non posso farci niente, è qualcosa che non va via.
Amare un altro paese non mi impedisce di rispettare profondamente questo in cui sono ora. Non fossi venuta qua, non avrei mai saputo quanto meritevole di stima fosse. Suppongo che sarei finita nello stereotipo di tanti europei. Proprio io, che disprezzo tanto gli stereotipi sul Medio Oriente. Ed è che non finiscono mai, gli stereotipi: appartengo alla cultura più apparentemente libera e più intimamente condizionata del globo.
Non saprò mai raccontare Cuba come, a suo tempo, raccontai l’Egitto. Sono diverse le condizioni, sono diversa io. Sono, però, grata di essere qui, per molte ragioni. Tra queste, c’è l’avere ritrovato il senso di cosa vuol dire essere di sinistra. Venendo da un mondo in cui la stessa differenza tra sinistra e destra viene messa in dubbio, mi sa che mi ci voleva. Come ho già scritto altrove, se qualcuno ha dubbi sulla differenza tra i due concetti, faccia un giro tra Salvador e Cuba. O tra Guatemala e Nicaragua. La differenza tra destra e sinistra diventa chiarissima, di colpo.
Potranno passare mille anni, ma questa rimarrà la cosa più importante che ho imparato qui. Ed è un ottimo motivo per essere grati a questa strana, bizzarra, difficile e importantissima isoletta che rende significativo un mar dei Caraibi che, altrimenti, sarebbe poco più che vacanziero.
Ciao Lia, immagino che tu abbia fonti più autervoli, ma just in case:
http://ideas.ted.com/2014/06/24/need-to-know-whats-going-on-in-egypt/
Leggo i tuoi post da…una decina d’anni, più o meno. Abbastanza per doverti esrimere una serissima gratitudine, e per comprendere che la tua felicità è fuori dall’ Italia, lontanissima dall’ Italia.
ciao, Mirella. :)***
vedo pochi commenti e quindi voglio dire che i racconti su cuba me li sono letti tutti. magari non commento ma se ne scrivi ancora io ripasso da queste parti e mi faccio un’alrta abbuffata di cuba. anche quelli sul mondo arabo erano belli ma questi lo sono di più.
saluti alla prof lia. ^_^
Ciao. :)