Non mi sfugge, purtroppo, quello che succede in altre parti del mondo, ma io in questo momento sono in Messico da due notti, dopo quasi tre mesi a Cuba, e sto per salire su un bus da cui scenderò tra altre due notti. Sono un essere umano composto da una persona sola, però, e, con la mia attenzione, faccio quello che posso. Lo dico per i portentosi sionisti apparsi nei commenti al post qui sotto: adoro il vintage, ragazzi, e mi avete fatto ripiombare nel 2005, ma vi rispondo settimana prossima, se volete. Anche perché quello che avevo da dire l’ho detto e il resto sono schermaglie dialettiche che servono a fare ammuina, niente altro.

Sto cercando di essere consapevole per quello che riguarda i posti in cui sono adesso. Ci ho messo quasi due anni a costruirmi una preparazione decente sulla storia e la cultura cubane. Non ne avevo idea: sono un’ispanista tradizionale, cresciuta in Spagna e laureata in letteratura spagnola. Il mondo latinoamericano lo conoscevo molto superficialmente, prima di venire qui, e la mole di roba da imparare è stata notevole, e ancora non so un cazzo.

Sono due anni che lavoro su Cuba. Ho imparato, ho capito, la vedo. So parecchio sull’immenso casino che è essere caraibici, essersi liberati dall’oppressione europea, ritrovarsi con l’oppressione USA, dovere scegliere se sopravvivere essendo schiavi di un paese straniero, con una classe media che ha accesso alle merci, o se essere indipendenti e con tutti che sanno leggere e scrivere ma con nessuno in grado di comprarsi un cazzo di barattolo di Autan contro le zanzare perché non li vendono, dove sei tu, e se li vendono costano troppo.

Dove mi piazzo io ideologicamente è, credo, abbastanza chiaro. Poi, però, sono anche un essere umano fabbricato in Europa, e l’Autan mi manca. Inoltre, anche tolto questo primo strato di me stessa – quello che vuole internet, che vuole parlare con sua figlia, quello che vuole lo yogurt scremato e i sapori diversi, quello che vuole essere un essere umano femmina di 50 anni e non un portafoglio erotomane che cammina – vedo che esiste un mondo intero che non conosco, fuori da una Cuba che ci ho messo due anni a conoscere. Ed è che qui non si finisce mai: è un continente, guarda un po’, e nessuno ti insegna a conoscerlo, se vieni da un continente diverso.

Ti dico, per esempio: a Cuba non sto facendo altro che leggere di come la rivoluzione messicana influenzò gli intellettuali cubani, a suo tempo. Ma io non so un cazzo, di rivoluzione messicana. Quindi mi tocca mettermi lì e saperne un minimo. Perché nessuno te le insegna seriamente, ‘ste cose, se sei un’ispanista europea, e quindi sei qui, tu e il culo che ti devi fare. E le tue impressioni: quelle che sono materia di riflessione seria e quelle da blog, che ti vedono umana e disarmata nel vasto mondo, e che ti impongono la fatica di prendere posizione anche se la tua ragione ti dice una cosa e la tua debolezza te ne dice un’altra.

Perché io sto qui e vedo ‘sti bimbi messicani che chiedono l’elemosina e sono bimbi inesistenti a Cuba. Oddio: anche a Cuba può succedere che un bimbo lo faccia, ma in modo estemporaneo, fuori dal sistema sociale e non per sopravvivere. Qui c’è una classe sociale che produce bimbi accattoni. A Cuba, non c’è.

D’altra parte, io non sono un bimbo messicano ma una signora europea, e il Messico colma i miei bisogni più di quanto non lo faccia Cuba. Sono inchiodata in questa contraddizione, quindi, e non è detto che sia un male. Ricordarsi che il mondo è un posto complesso fa sempre bene.

Festeggio, intanto, la mia wifi gratis aperta giorno e notte, e i mille aggiornamenti dei miei apparecchi elettronici che paiono tarantolati di notifiche, dopo quasi tre mesi di blackout cubano. Skype. Whattsapp. La posta elettronica, tutte le meraviglie. Mia figlia con la sua voce. Parlare con i miei cari spendendo 50 centesimi e non 30 dollari per dieci minuti. E il lavoro, anche. Avere accesso alla rete, ora che so molto meglio cosa cercare. Fare ricerca nel 2014.

Che vuoi che ti dica: mi sento Alice nel Paese delle Meraviglie, da quando sono sbarcata in Messico per rimanerci almeno tre mesi, e mi sento una merda per questo.

Nessuno sa cosa sarebbe stata Cuba senza l’embargo. Come nessuno può dire cosa sarebbe oggi il Medio Oriente se non fosse spuntata Israele come un fungo, lì in mezzo.

Vediamo, tutti, il risultato di un mondo costruito senza rispetto, senza amore, senza pensare ai figli di nessuno. E tutti cerchiamo di sopravviverci dentro, finché è possibile.

Io sono qui col wifi, il Messico che mi tratta assai meglio di Cuba, le cose che per me sono la vita, la comunicazione normale con gli stranieri di qui che non sono erotomani malati ma gente che ti parla col solo scopo di chiacchierare, i negozi con la merce dentro, e vorrei non sentirmi in colpa. Ma non ce la faccio.

Sono felice, felicissima di essere in Messico. Ci rimango fino all’ultimissimo giorno utile. Però Cuba non si merita che io stia qui afferrata a uno scoglio senza nessuna voglia di andarmene. Non dovrebbe essere così.

Vivo il ripugnante senso di colpa dell’Europea “ricca” (che ridere) che sa che, fosse nata latinoamericana e povera, non starebbe dove sta, in Messico, ma in qualche favela. Ma che, essendo europea, bacia il suo wifi e il suo yogurt scremato e si sente restituita al mondo, dopo tre mesi senza sentire la voce di sua figlia e sentendosi carne da sfruttamento e macello senza potere nemmeno dare veramente torto a chi ti fa sentire così.