Questa taverna (cantinas, le chiamano qua) dalle parti del mercato di Oaxaca esiste da così tanti anni che le pareti, spesse quanto quelle di un convento, rendono il cellulare inutilizzabile. Siamo io, un barista grosso e sudato, quattro signore dai tratti indios (qui sono in genere zapotecas, non maya come in Quintana Roo) sedute al tavolo in fondo e un ragazzotto dall’aria inquietante e la felpa bucherellata che beve mezcal seduto al bancone con la testa bassa, senza guardare nessuno. Le zone attorno ai mercati non sono eleganti in nessun paese del mondo.
Il grande vantaggio di fermarsi in una cantina così poco trendy sta nella musica: corridos, uno dopo l’altro, invece della bella musica che si ascolta altrove, e io adoro la musica popolare e se è in spagnolo la amo di più. Storie di donne traditrici, insulti messi in musica (Paquita la del Barrio, ma dimmi tu), cavalli bianchi che muoiono per avere cercato la libertà, vicende di narcos e codici d’onore. In messicano, ciò che Los Chichos e Los Chunguitos sono per la Spagna. E, con certe canzoni, ritmi che vorresti alzarti in piedi e ballare a saltelli sventolando una gonna immaginaria e un tovagliolino di carta a mo’ di fazzoletto, lanciando urletti qua e là. Coi Chichos avrei voluto sapere ballare il flamenco, ricordo bene. E, mentre sono qui che penso a quanto condivide un’anima tremendamente simile, il mondo ispanico, arriva Rocío Jurado, altra immensa insultatrice canora, e mi scaccia Los Tucanes de Tijuana cantando, indovina, Señora. Él me dijo que era libre y yo lo creí. Ciao, Spagna, sapevo che ti saresti affacciata. Succhio la mia fetta d’arancia cosparsa di polvere di verme e sono completamente, profundamente nel mio brodo. Questa è casa mia, ci sono nata.
Il Messico è sempre stato un paese ospitale, generoso con i paesi fratelli. Accolse frotte di spagnoli repubblicani dopo la Guerra Civile (c’è una mostra che li ricorda a Città del Messico, in questo periodo) e non c’è paese latino che non abbia visto qui gente in fuga dai colpi di stato, dai genocidi, dalle persecuzioni che hanno marcato la storia di questo continente. In Messico ci finì Che Guevara, in fuga dal Guatemala messo a ferro e fuoco con la solita benedizione degli USA, e ci incontrò Fidel Castro, a sua volta esule dalla Cuba di Batista. Passano tutti di qua, si direbbe.
E’ un paese dove potrei vivere. Dove forse vorrei vivere. Non mi era mai successo di pensarmi in un posto che non fosse l’Egitto, prima di venire qui. Ed è che, strano a dirsi, ci sono un mucchio di cose in Messico che mi ricordano l’Egitto. La gentilezza della gente, l’assoluta cortesia, l’importanza delle forme. Un’eleganza antica che attraversa le classi sociali. E questo trionfo dei sensi coniugato in modo apparentemente diverso dal Medio Oriente ma in fondo così simile: profumi, sapori, stoffe, mollezze. Immagini che sembrano bellissime fotografie e invece sono solo passanti o pezzi di strada. E la voglia di fare festa. Tutta questa gente che ride, ce n’è tantissima. Come là.
E l’essere complicati, ovviamente. La prevalenza dei sensi e la centralità delle forme usate per rendere la vita vivibile. Perché sennò ti fai male.
C’è come un filo che lega tutto: la mia Napoli, la Spagna, il Medio Oriente, questa America Latina. Nei Caraibi non lo senti con tanta forza, questo filo, e il Centro America è fatto di paesi piccoli che sanguinano ancora, non è fatto per questi pensieri. In Messico lo senti eccome, invece. Capisco che gli spagnoli dell’esilio venissero qui a frotte. Lo avrei fatto anche io.
C’è tantissima Spagna. Quella bella, quella hidalga. E lo spagnolo che parlano qui sembra la bella copia di quello d’Europa. Aprono la bocca e sembrano tutti colti, splendidamente educati. “Y usted, ¿de dónde nos visita?” In Spagna ti chiederebbero, molto più brutalmente: “Oye, ¿de dónde eres?” Sono antichi, l’ho già detto. Allo stesso tempo, la Spagna non ha cancellato quello che c’era prima del suo arrivo. Lo ha affiancato, volente o nolente. C’era una civiltà vera, qui. Evoluta, importante, complessa. E c’è ancora. Il mondo preispanico è arrivato fino a qui nei tratti somatici della gente, nel gusto estetico, nel cibo, nella sensibilità, nella storia e nelle tante cose che ancora non so e che ci vogliono varie vite per sapere, ma intanto le percepisci d’istinto, a pelle. Il Messico è figlio di due genitori e ha preso da entrambi. Chi dice che gli spagnoli distrussero quello che trovarono è pazzo o ignorante, o non è mai stato qua.
Il barista simpatico, grasso e sudato è stato affiancato da una signora a cui le mie domande curiose su questo e quell’altro sono riuscite simpatiche, e si sta prendendo cura di me come se fosse la mia mamma. Ogni tanto arriva con qualcosa da farmi assaggiare. Ora mi ha portato un pezzetto del cuore del maguey, la “palma” dell’agave. E’ dolce e fibroso. Potrei non andarmene più da questo posto, e intanto Rocio Jurado non canta più e sono tornati quelli di prima, sicuramente vestiti di nero, con i cappelli e gli stivali di pelle d’iguana.
Come è tipico dei popoli ospitali, i messicani sono immensamente patriottici. E’ fatta di orgoglio, l’ospitalità. Del piacere di fare scoprire all’altro quanto si ha di buono, della certezza di leggergli l’ammirazione negli occhi. Forse è per questo che i popoli più razzisti e respingenti sono i più disgraziati, quelli dove il piacere incide meno nella vita quotidiana. E settembre è il “mes patrio”, ho appreso. Il 16 è la festa nazionale ma si stanno preparando dal giorno 1. Hanno messo bandiere tricolori ovunque, e il rosso bianco e verde della loro bandiera impera nelle vetrine, nelle camiciole dei bambini, nel chile en nogada che improvvisamente viene offerto dappertutto: il verde del peperone, piccantino e ripieno di carne e frutta secca, il bianco della salsa di noci che lo ricopre e il rosso dei chicchi di melograno di cui viene cosparso. La versione messicana della nostra pizza Margherita tricolore. Dicono che il 16 bisognerà essere allo zocalo, non si può mancare. Non ne ho nessuna intenzione, infatti.
Non è che io abbia molto spazio per nuovi amori, in ‘sto cuore stropicciato assai. Vivo sulle difensive ormai da anni, di passaggio ovunque, col terrore di crearmi nuove nostalgie se lascio che le cose mi oltrepassino la pelle. Nostalgie, santo cielo: l’ultima cosa di cui ho bisogno. Madonna. Eppure ‘sto paese scava.
Vorrei restare.
La musica cantanta nelle strade di Cuba è molto più allegra. Almeno a vedere i video dei concertini in strada su YT.
Ma è anche molto meno interessante sul piano dei testi, ci sto riflettendo molto in questo periodo. In realtà sono un po’ stanca di sentire le strofe ripetute all’infinito, l’Ay sabroso, quelle robe là. Poi non ho mai avuto una grande passione per il son e compagnia.
Comunque c’è tanta roba allegrissima pure qua. ‘Sti messicani sono dei caciaroni.