Sono dalle parti del mercato, poco più a sud dello Zócalo, e passeggio tranquilla quando comincio a vedere polizia in assetto antisommossa dappertutto. La strada in cui sono è stata chiusa al traffico e questi qua sono appostati ovunque, pure dentro i portoni, e sono tantissimi e, soprattutto, orrendi: divise nere, caschi neri, manganelli neri, protezioni tipo robocop alle gambe e alle braccia. E, ancora, giubbotti antiproiettile neri, manganelli neri, nere le pistole enormi e i mitra, nerissimi i capelli e i baffi e scure le facce, in ogni senso, e ci sono anche le donne e sono enormi, fanno paura quanto gli uomini. E i manganelli li hanno in mano, e pure i mitra, e quanti sono.

“Ma che succede?”, chiedo a una negoziante. E lei mi dice che verso lo Zócalo c’è una manifestazione. “Madonna quanto fa paura la polizia messicana”, penso io. “Poveri manifestanti”.

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Oltrepasso delle barricate fatte con gli autobus del trasporto urbano disposti in modo da chiudere le strade e mi avvicino allo Zócalo. E, mentre cammino verso la piazza, mi cominciano a apparire dei tizi con le facce coperte dai fazzoletti, bastoni in una mano ed enormi machetes nell’altra. Sono i manifestanti. E hanno una faccia da “poquísimos amigos”, come dicono in Spagna, un cipiglio che abbasso gli occhi e affretto il passo, ma tu hai visto quei machetes? Machetes enormi, affilatissimi. Con quelli si taglia la canna, e la testa di una persona in un attimo. Ma che è? “Poveri poliziotti”, penso ribaltando il pensiero di un attimo prima. Questi fanno molta più paura. Soprattutto, non sono contemplati nel mio concetto europeo di come va il mondo.

Nella piazza, i negozi sono tutti chiusi. Saracinesche abbassate, e non mi sorprende. I tizi con le facce coperte e i machetes sguainati fanno capannello in ogni angolo. Tanti sono seduti a terra sotto i portici, appoggiati alle saracinesche. Altri passeggiano, e quei fazzoletti sulla faccia sono uguali a quelli dei banditi dei western, allacciati dietro, a coprire dal naso in giù. E quei machetes. Ho gia parlato di quei machetes? “Esta guerra no es mi guerra”, penso io, e me ne vado su verso la parte del centro che è più salotto, quella con gli stranieri a passeggio e i locali belli, che è a solo pochi isolati dallo Zócalo ma è come spostarsi in un altro mondo: la gente mostra il volto e le facce che vedi sono serene. Le frontiere invisibili, già.

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Mi infilo alla Biznaga e chiedo lumi alla ragazza che serve al bancone. “Ma che è, che succede allo Zócalo?”

“E’ il presidio dei lavoratori della scuola, quelli accampati in piazza da due mesi, e dovrebbero liberare la piazza”

“No, aspetta: mi stai dicendo che quelli coi fazzoletti in faccia e i machetes SONO PROF??”, chiedo io, e non so se essere stupefatta o genuinamente ammirata di fronte a questi temibilissimi colleghi.

“No, quelli col machete no. Sono simpatizzanti, diciamo. Gente che li appoggia.” (Devono essere quelli di Antorcha Campesina, deduco.)

“Ma… ma scusa, hanno i machetes.”

“Sì. Caso mai li volessero sgombrare con la forza. Servono per dissuadere la polizia.”

“Ma … ma scusa, con un machete lo uccidi, uno.”

“Certo”, mi fa lei, guardandomi come si guarda chi ribadisce l’ovvio. “Quindi la polizia non interviene, sta solo nelle strade attorno.”

“Ma scusa, se la polizia intervenisse questi li prenderebbero a machetatas?”

“Be’, se cerchi su Google quello che è successo qui nel 2006 capisci la dinamica.”

Passo dai ragazzi che vendono il pane, poco più giù, e pure loro mi dicono che è meglio seguire la via della trattativa, che le autorità lo sanno. Altrimenti si crea “un problema social. Un problema social muy serio.” E se so di Oaxaca 2006. I prof hanno imparato molto, da Oaxaca 2006.

Torno a casa cercando di immaginare le mie colleghe genovesi accampate con le tende a piazza De’ Ferrari coperte da gente che impugna sciabole, e l’idea mi affascina mentre tengo a bada l’angolo della bocca che mi chiede di scoppiare a ridere da sola per strada.

Poi, siccome il cielo è saggio, viene giù il peggiore temporale che io abbia mai visto in Messico, e diluvia sui mitra e sui machetes, sui caschi e sui fazzoletti da cowboy, e non c’è guerra possibile se la natura non vuole.

Intemperanze messicane a parte, devo comunque dire che era da due mesi che mi ripromettevo di scrivere di questo sciopero dei professori in lotta contro una legge di riforma che ricorda molto da vicino le nostre. E’ un tipo di sciopero strategicamente notevolissimo: in pratica, i prof hanno messo su un accampamento, con tende e tutto, nel mezzo della piazza principale della città e tutto attorno, trasformando l’area in un immenso campeggio. Tutta quella zona della città è in ginocchio, letteralmente: negozi che non riescono a lavorare perché le tende ne coprono l’entrata, ristoranti vuoti, strade chiuse, pedoni che avanzano a fatica, piegati in due sotto i tendoni stesi da un lato all’altro delle strade per proteggere dalla pioggia le tende in cui dormono i colleghi. Da due mesi e rotti: quando sono arrivata c’erano già, e ci sono ancora.

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Non solo: occupano le stazioni radio e i giornali che non riferiscono correttamente le loro richieste, fanno azioni dimostrative come picchettare i caselli autostradali e fare andare via le macchine gratis o richiedendo il pedaggio per sostenere la loro lotta, attaccano la quotidianità di tutto lo stato di Oaxaca. Ma, intanto, le scuole sono aperte, il servizio scolastico è garantito e loro ci vanno, a scuola. Quindi, non perdono lo stipendio. Semplicemente, mantengono il presidio attraverso un sistema di turni che coinvolge le famiglie, i parenti, i prof di altre zone, tutto studiato alla perfezione. Mi è persino capitato di vederli correggere i compiti, fuori dalla tenda, e tutto attorno al presidio sono sbucate bancarelle che vendono software didattico e roba di aggiornamento professionale. E a Città del Messico vidi, assieme a Enrica, un presidio piccolo, con tende in piazza della Rivoluzione (nomen omen), dove vendevano biglietti a basso costo per Oaxaca, per i professori che volevano venire qui a contribuire. Enrica e io ci fermammo a conoscerli e pareva di parlare coi colleghi della CGIL o dei Cobas: stesse rimostranze, stessi ragionamenti, problemi estremamente simili nella loro sostanza. Solo che il risultato del modo di procedere di qui è che la scuola funziona normalmente e a essere in ginocchio è la città. Altro che i nostri scioperi di un giorno in cui perdiamo lo stipendio, i ragazzi ci smenano o fanno festa e nessuno se ne accorge tranne noi.

Certo, bisogna essere uniti per fare una cosa del genere (machetes a parte, li sto escludendo dal pensiero). Avere uno spirito di corpo fortissimo. E la voglia di politica che noi abbiamo perso ma che nella giovane America Latina è viva e vegeta.

Io, che dire: la cosa dei machetes è lontana dalla mia sensibilità, diciamo così. Ma il concetto – trovare forme di lotta che non penalizzino gli studenti e che siano economicamente sostenibili, oltre che seriamente incisive per quanto riguarda la vita quotidiana della popolazione tutta – forse merita qualche ragionamento.

E perbacco, i colleghi messicani.