Senza stare a spiegare i perché e i percome, io ho cominciato a viaggiare da sola quando avevo 14 anni e, da allora, mi sono fermata due volte e per ottimi motivi: la prima, per fare crescere mia figlia, a Milano. E la seconda, per la scuola. A Genova. E questa è tutta la mia Italia.
La prima volta che tornai in Italia, dopo il mio esilio a 14 anni, ero una giovane mamma che non capiva niente del paese in cui era finita e che figurava sul suo passaporto. Milano, poi. Chi diavolo la conosceva. Avevo 24 anni, una figlia di tre e, per la mia età, ero in regola alle isole Canarie, dove avevo passato gli anni formativi, ma in Italia non c’era mamma che non avesse almeno dieci anni più di me. E io, tutta spagnola, per fare amicizia proponevo di andare a bere una birra assieme e loro mi guardavano come si guarda una pazza, ché in Italia si propone un caffè e non la birra. I malintesi culturali di quando condividi la nazionalità sono i più duri di tutti.
Vorrei poter dire che, con il tempo, mi sono abituata ai codici altrui. A tutti gli infiniti codici che ho appreso, ri-appreso o che avrei dovuto apprendere. Ma temo che, in fondo, quello che ho imparato a fare davvero bene è a starmene per conto mio fino a che non trovo gente realmente affine.
Una cosa che mi è pesata parecchio e che ancora mi pesa è il non condividere con nessuno i miei riferimenti culturali giovanili, che poi sono quelli che valgono per una vita intera. Ho ascoltato la musica e letto i libri che leggono gli italiani dall’infanzia ai, boh, 16 anni, poi quella che ascoltavano gli inglesi, poi il bagno nella Spagna con cui però non condividevo i riferimenti dell’infanzia. Sono italiana quando penso a Paperone e a Doretta Doremì, ma anche a tutto quel Frank Zappa o Lou Reed di quando tornavo e facevo l’adolescente terribile, e non so niente di Mortadelo y Filemón e me ne strafrego di Elvis che piaceva tanto agli spagnoli. Ho passato un tempo significativo della mia crescita col sacro terrore degli Hell’s Angels, e con la consapevolezza di essere molto, molto scura. In Inghilterra facevo, a 15 anni, quello che è proibito fare se non hai 16 anni, e alla fine la polizia chiamò papà mio che venne a salvarmi per la prima volta ma non per l’ultima. Cominciai anche a conoscere il mondo musulmano, in Inghilterra. Soprattutto, a capire che mi somigliava molto di più di quanto non mi somigliassero gli inglesi. Come dicevo, io ero assai scura. E spesso avevo ottimi motivi per avere paura, in Inghilterra. Perché ero scura, appunto, e non l’ho mai più dimenticato. Le discoteche inglesi avevano le serrande che si chiudevano attorno al bar, quando arrivavano i razzisti inglesi e cominciavano a volare le bottiglie, e ricordo un vetro spaccato in faccia a una ragazza uguale a me, bruna come me, amica mia di Teheran. Da un tizio biondissimo, e posso assicurare che c’era poco da sentirsi “occidentali”, in quei frangenti. Che sorpresa, anni dopo, scoprire che il mio passaporto mi situava dalla parte del biondo.
La letteratura. Io, attorno ai 18 anni, venni folgorata da Esther Tusquets. Dimmi tu se c’è un’italiana che la conosce. Parlavo con le amiche italiane e sembravo la più ignorante delle donne, non c’era libro che avessimo in comune. In compenso, sapevo tutto di quello che succedeva in Argentina a cavallo della guerra de Las Malvinas (in Italia le chiamavano Falklands, giacché le parole sono importanti) perché la mia stampa era El País fin dalla transizione, e dominavo la questione di Felipe González e nulla sapevo del funerale di Berlinguer. E non era solo che a me paresse normale leggere Cela e agli italiani non so cosa. Erano anche i riferimenti stranieri, a essere diversi: più autori francesi in Spagna, mentre in Italia si leggevano autori USA. O El Cuarteto de Alejandría, che se non lo avevi letto non eri nessuno. Alla fine, non ho fatto il tempo a vivermi la Movida spagnola che già ero in Italia a contemplare, sconcertata, la Milano da bere.
La faccio breve: ho passato buona parte della mia vita a non avere la più pallida idea di cosa mi stesse dicendo la gente, e a dire cose di cui i miei interlocutori non avevano la più pallida idea. Non è una grande premessa per fare molte amicizie. In compenso, in qualche modo misterioso, trovi delle anime affini, ogni tanto, e quelle ti seguono per un bel pezzo di vita. Funziona così.
Credo di avere visto un sacco di cose e di saperne parecchie. In modo caotico, disordinato. Più con la pelle che per metodo. Molte sono, soprattutto, le cose a cui in genere non penso ma che riconosco quando si affacciano, ché le ho già viste prima. Il mio approccio con la conoscenza non è lineare, è a contrappunto. Non potrebbe essere altrimenti. Poi, vabbe’, se devo mettere in tavola quello che ho studiato seriamente e che insegno, lo so fare. Ci mancherebbe pure. Ma quello è mestiere, è una piccola parte di me che sta lì come un’abilità acquisita, ma io intanto sono andata altrove. Da nessuna parte in particolare.
Quella piccola parte di me che è il mio mestiere, tuttavia, è ciò che mi ha permesso di socializzare la mia vita, o un buon pezzo di essa, e di renderla utile. Di dotarla di senso. Lassù, qualcuno ha deciso che vale la pena che io comunichi quello che ho imparato nel mondo e ritiene che ciò valga il prezzo del pane che consumo. Il mio mestiere mi ha dato una collocazione nell’universo. Non è che non sia poco: è che è tutto. Per quanto passino gli anni e si accumuli la fatica, la prima cosa che sento quando penso alla scuola continua a essere la gratitudine. E, se un giorno dovessi lasciarla definitivamente – la scuola non è un posto dove invecchiare – sarà un’amputazione. Seria. Grave.
Intanto, stasera sono reduce da un viaggio di molti, moltissimi chilometri, e ascolto un tizio che suona la chitarra a poca distanza dall’aereo per Cuba che prenderò tra tre giorni. In valigia ho il lavoro che consegnerò all’arrivo all’Avana. Il chitarrista sta cantando una cosa che non c’entra niente con quello che faccio adesso ma che conosco bene, che è banale per chiunque conosca la Spagna anche solo di striscio: “Caminante, no hay camino, se hace camino al andar”. Immagino uno qualsiasi dei miei alunni degli ultimi vent’anni, davanti a questo chitarrista, e penso che la riconoscerebbero tutti.
E non ditemi di no, santo cielo. Eugenie, bimba di questa costa, anche tu come me ci sei incappata in Messico? Ti sei ricordata? Uff, dimmi di sì. Ditemi di sì. E’ la sintesi di tutta la mia vita, essere quella che spiega che caminante no hay camino, se hace camino al andar. Almeno questo, cavoli, ve lo avrò pur insegnato.