In un post precedente citavo Pierre Vilar, storico marxista che, parlando della Conquista spagnola dell’America, scrive:

E’ degno di nota, per una potenza coloniale, avere avuto un Las Casas e non averlo lasciato isolato e privo di influenza. La Escuela de Salamanca, con Melchor Cano, Domingo de Soto e Francisco de Vitoria, a metà del s. XVI, riuscì a spostare la discussione dal piano umanitario a quello giuridico del “diritto delle genti”. […] L’essenziale, di fatto, è distinguere tra una pratica brutale (ma non più brutale di qualsiasi altra colonizzazione) e una dottrina, che include una legislazione dalle intenzioni sommamente elevate, che sono peraltro costantemente mancate in colonizzazioni più moderne.

Mi sembra quindi opportuno passare in rassegna un po’ della legislazione a cui si riferisce Vilar. Non con l’intenzione di sostituire la Leggenda nera antispagnola con una Leggenda rosa che sarebbe altrettanto inesatta, ma per aggiungere informazioni utili a comprendere meglio ciò che viene omesso e/o tergiversato nel discorso antispagnolo che, da secoli, viene propagandato dalle “colonizzazioni più recenti” di cui parla Vilar, allo scopo di dirigere il biasimo anticoloniale popolare contro un’immagine fantoccio per mettere in ombra i propri crimini, più efferati e recenti. Il mio elenco sarà per forza di cose parziale e incompleto: del resto questo non vuole essere un articolo scientifico bensì uno spunto di riflessione.

Gli spagnoli che arrivarono in America nel ‘500 erano pochi, in gran numero maschi e abituati in patria, da secoli, ai contatti con popoli diversi. Inoltre, a differenza degli inglesi che avanzarono nella loro conquista nella misura in cui scacciavano e allontanavano gli indigeni, visti come il peggior nemico, per gli spagnoli era fondamentale assicurarsene la collaborazione, affinché la terra continuasse a produrre e per essere guidati verso nuovi territori. La Corona vide con buon occhio da subito l’unione tra spagnoli e indigene – dati i vantaggi anche politici – a condizione che lo spagnolo fosse celibe (numerosissime e interessanti furono le leggi per impedire ai conquistadores sposati di tradire e/o abbandonare le mogli rimaste in Spagna) e che le cose fossero fatte in accordo con la morale cattolica del tempo. Già nel 1503, una Instrucción del 29 marzo raccomanda ai governatori di favorire i matrimoni misti purché santificati dalla Chiesa (vedi la storia di Doña Marina, la Malinche.) Nel 1515, una Cedola Reale del 5 febbraio specificava che era volontà del re che coloro che avessero voluto sposarsi con indigene lo facessero liberamente, purché nel rispetto assoluto della volontà della donna. Su questo dovevano vigilare severamente i ministri della giustizia e, soprattutto, del culto, affinché non si commettessero abusi. (cfr: “Que los indios se puedan casar libremente y ninguna orden real lo impida“. Il testo recita: “Es nuestra voluntad que los indios y las indias tengan, como deben, entera libertad para casarse con quien quisieren, así con indios como con naturales de estos nuestros reinos o españoles nacidos en la India […])

A partire da l¡ comincia a nascere quel meticciato che, oggi, conforma l’Ispanoamerica, e, allo stesso tempo, a porsi il problema della personalità giuridica del cosiddetto indio, in una situazione di fatto che, da subito, vide affrontarsi gli uomini di chiesa (frati francescani, domenicani, agostiniani, tra cui ricordiamo Ramírez de Fuenleal, Toribio de Mogroviejo, e de las Casas, tra gli altri) contro nobili, encomenderos e violenti vari, armati della potentissima arma della scomunica, mentre in Spagna la Scuola di Salamanca anima un dibattito che è così riassumibile:

In questa epoca di avvio del colonialismo dell’era moderna, la Spagna è stata l’unica nazione europea nella quale un folto gruppo di intellettuali ha sollevato il problema della legittimità di una conquista invece di cercare di giustificarla con motivi tradizionali. Si tratta della controversia dei Giusti Titoli (Justos Tìtulos), di cui uno degli episodi è stata la disputa di Valladolid (1550-1551), famoso dibattito tra Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de las Casas, che ha anche coinvolto numerosi discepoli di  Francisco de Vitoria, già morto: Domingo de Soto e Melchor Cano (entrambi dell ‘Università di Salamanca) e Bartolomé de Carranza (da Valladolid), tutti domenicani (come Sepúlveda e Las Casas).

I primi diritti vengono riconosciuti alle donne. Già alla morte di Fernando il Cattolico, le relazioni di Bartolomé de las Casas danno origine a una serie di Instrucciones in cui si stabilisce che le donne indigene non devono svolgere lavori duri o penosi. I prevedibili abusi faranno sì che queste Instrucciones siano ribadite più volte, fino alla definitiva Recopilación del 1680. Inoltre, si dovevano considerare per legge esseri liberi senza che nessuna causa potesse essere ammessa per la perdita giuridica di questo stato. Dal punto di vista tributario, nel 1618 una Cedola Reale di Felipe III stabilì che le donne di qualsiasi età (come pure i giovani fino ai 18 anni e i vecchi dei 50 in poi) non dovessero pagare tassa alcuna.

Per quanto riguarda gli uomini, da una primissima condizione di schiavitù passano ad essere nel 1500 vassalli liberi della Corona di Castiglia, giuridicamente uguali ai cittadini di Castiglia o León. Erano ammessi come schiavi solo i prigionieri catturati in “justa guerra”, ma nel 1530 (20 agosto) si abolisce anche questa disposizione. Ci sarà poi un’eccezione per caribes, araucanos e mindanoas, irriducibili ribelli alla Corona che, come ho scritto sopra, non si applicherà alle donne.

Nel 1542 vengono pubblicate le Leyes Nuevas, che erano state precedute dalle Leyes de Burgos (1512) e soprattutto dalle Ordenanzas de Granada (1526), che già ne introducevano gli aspetti fondamentali. Le Leyes Nuevas sono  riassumibili nei seguenti principi:

  • Garantire la conservazione del governo e il buon trattamento degli indigeni;
  • Divieto di schiavizzare gli indigeni per qualsiasi ragione;
  • Liberazione degli schiavi, se non si dimostravano delle ragioni giuridiche in senso contrario;
  • Gli indigeni non dovevano essere costretti a fare da caricatori contro la loro volontà o senza un salario adeguato;
  • Non potevano essere portati in regioni remote con la scusa della raccolta delle perle;
  • Gli ufficiali reali, ordini religiosi, ospedali e confraternite non avevano diritto all’encomienda;
  • Il possesso delle terre dato ai primi conquistadores doveva cessare totalmente alla loro morte senza che nessuno potesse ereditarne la detenzione e il dominio.

Queste leggi ebbero vita dura, a causa dell’opposizione degli encomenderos, ma segnarono la rotta di tutta la legislazione successiva e sono considerate la prima forma di Dichiarazione dei Diritti Umani.

Ora: se mi mettessi ad affrontare l’infinito capitolo delle encomiendas, gli abusi legati ad esse e le infinite serie di ordinanze per limitarle, abolirle, proteggere il lavoro degli indios e reprimere gli abusi, farei notte e andrei anche fuori tema, visto che, come ho detto, quello che mi interessa è questo:

L’essenziale, di fatto, è distinguere tra una pratica brutale (ma non più brutale di qualsiasi altra colonizzazione) e una dottrina, che include una legislazione dalle intenzioni sommamente elevate, che sono peraltro costantemente mancate in colonizzazioni più moderne.

Va comunque ricordato che la realtà dell’indio non era solo quella dell’encomienda: c’erano anche gli indios vassalli liberi e quelli delle cosiddette Reducciones, villaggi creati dai gesuiti dove gli indios, sotto la loro guida, si organizzavano autonomamente in quello che era il modello utopico di una società cristiana lontana dalla corruzione degli europei. Cito da Wikipedia:

 Un’organizzazione questa dei gesuiti che non fu invece adottata nelle colonie inglesi e in quelle protestanti. Gli indigeni erano esenti dalla giurisdizione dei funzionari regi e dipendevano direttamente dal viceré; erano liberi da ogni servitù e dovevano solo pagare un tributo al governo di Madrid (una certa quantità di mate). A sud del Brasile, unendo una trentina di reducciones, i gesuiti nel 1609 avevano proclamato la repubblica Gesuitica del Paraguay in un territorio grande due volte la Francia. Qui venivano favoriti non solo l’artigianato,la manifattura, le costruzioni con la fondazione di nuove località con edifici imponenti e strade lastricate, ma anche l’arte, come testimoniavano la presenza di orchestre sinfoniche composte da soli indigeni. Gli indios vivevano da uomini liberi e si era sperimentato un governo rappresentativo dello stato. Era questo il tentativo di creare una civiltà cristiana tipicamente indiana per favorire la pace e la convivenza tra gli spagnoli, portoghesi e i locali, come affermava nel 1609,il superiore dei gesuiti Antonio Ruiz de Montoya.

Tutto questo, è evidente, stride terribilmente con la nostra sensibilità odierna. Ma tra il ‘500 e il ‘600, la schiavitù era abbondantemente diffusa anche in Europa e nel Mediterraneo, parte delle usanze che, all’epoca, regolavano le guerre tra Stati. Lo stesso Miguel de Cervantes sarà schiavo in Algeria per cinque anni, dal 1575 al 1580, quando finalmente gli riescono a pagare il riscatto per liberarlo. Lo stesso dicasi, sulla la sensibilità di allora e di oggi, per ciò che riguarda il proselitismo religioso:

La intensidad del esfuerzo español por convertir a los pueblos del Nuevo Mundo al cristianismo sólo es comprensible dentro del contexto de las preocupaciones espirituales de la cristiandad de finales del siglo XV y principios del XVI, en particular en la península ibérica.

Gli spagnoli avevano finito in quel preciso momento (1492) di scacciare l’Islam, dopo secoli, dalla penisola iberica. Un cattolico del ‘500, per giunta orripilato da usanze indigene che andavano dai sacrifici umani al cannibalismo o alla poligamia, considerava che salvare l’anima a quelle popolazioni fosse un imperativo morale. Di più: evangelizzare il continente veniva a essere la giustificazione morale essenziale, se non l’unica, del semplice fatto di essere lì e colonizzare quelle terre. Per i puritani inglesi, invece, il problema non si pone, almeno fino al ‘700. Dell’anima dei loro indigeni, molto semplicemente, non gliene poteva fregar di meno. Né gli indios né, tanto meno, gli schiavi neri, erano considerati degni del battesimo, e i non bianchi andavano usati o scacciati: in nessun momento era previsto che ci si mescolasse né che si condividesse alcunché. Niente vita in comune, niente matrimoni misti, niente figli meticci, niente Dio comune. Apartheid, che di fatto è andato avanti fino ai giorni nostri. Perché:

Tra uno spagnolo o un portoghese e un membro di qualsiasi altra razza che ne condivida la fede religiosa, non esistono barriere insuperabili. L’elemento determinante non è quello razziale, come lo è per il britannico, bensì quello religioso. […] Attraverso l’insieme, estremamente ampio, della legislazione coloniale, troviamo come leit motiv delle “Leyes de Indias” la protezione dell’indio dalle usurpazioni e dallo sfruttamento dei coloni bianchi. Queste leggi hanno un carattere così inverosimilmente moderno che sembrano essere state scritte di recente. Organizzazione delle ferie, protezione delle donne incinte, dei minori e degli anziani, tutto è previsto. L’influenza della Scuola teologica di Salamanca salta agli occhi. Se la pratica fu spesso molto diversa, rendendo l’indio un servo del bianco, è perché gli interessi del colono bianco, come accade ancora oggi, tendevano al profitto materiale e non coincidevano con la posizione idealista dei missionari e dei funzionari coloniali, i quali erano economicamente indipendenti e colti sul piano giuridico. Si può quindi sostenere che, se le leggi avessero avuto un’impostazione meno idealista, si sarebbe probabilmente ottenuto un maggior vantaggio dal punto di vista pratico. […] Don Chisciotte è presente anche nella legislazione spagnola.

Nelle colonie britanniche, al contrario, l’indio non interessava al legislatore. Il rapporto con l’indigeno venne affidato al colono. Con alcune eccezioni, questi considerò la sua presenza inopportuna e, dopo anni di lotta, lo sterminò fino a non lasciarne che pochi resti miserabili. Alcune cifre illustrano questo dato: secondo il censimento del 1940, nell’America anglosassone c’erano 540.000 indigeni, mentre in America latina ce n’erano 16 milioni, a cui vanno aggiunti 34 milioni e mezzo di meticci.

Concludo dicendo, brevemente, che lo spirito religioso e umanitario della Conquista spagnola dell’America si esprime in modo particolare nel campo culturale: le primissime scuole per gli indios risalgono al 1505, mentre la scuola superiore, riservata ai figli della nobiltà indigena, arriva a Santo Domingo nel 1512. Nel 1524, Pedro de Gand pone le basi della scuola per adulti e della scuola di arti e mestieri, anch’essa frequentata dalla nobiltà indigena: si insegna il castigliano, il latino, la musica, e si praticano pittura, scultura, incisioni e arti varie. Fonda anche un ospedale che sarà considerato il primo centro per l’insegnamento della medicina in America. Allo stesso tempo si creano seminari per gli indigeni, da cui escono traduttori, trascrittori, maestri che insegneranno agli stessi missionari le lingue, la storia e i costumi dei nativi, affinché questi possano svolgere al meglio la loro missione. Assieme a una lunga serie di scuole e collegi, si fondano le università, dal 1538 in poi. Contemporaneamente, i missionari si applicano nell’apprendimento delle lingue locali. Appaiono dizionari e grammatiche náhuatl, huaztecas, totonecas, miztecas, tarascos, mayas, zaotecas, aymaras, quechuas e via elencando. Dalla seconda metà del s. XVI cominciano ad apparire opere di autori nativi: Hernando de Alvaredo Tezozomoc, figlio di un imperatore azteca; Fernando de Alva Cortés Ixtlilxóchitl, Garcilaso de la Vega el Inca.

Dovrebbe essere inutile specificare ancora, infine, che conoscere questi importanti aspetti della colonizzazione spagnola dell’America non vuol dire giustificare il colonialismo, né opporsi alla Leggenda con una controleggenda. Non è questo il punto. Il punto è rifiutare l’escamotage dei colonialismi successivi, passati e presenti, di attribuire alla sola Spagna (non del tutto europea, non del tutto bianca, non del tutto capitalista e borghese, quindi Altra) il massimo dell’orrore per lasciare passare in sordina l’orrore proprio. Il colonialismo è il peccato su cui si costruisce il potere di quello che oggi chiamiamo Occidente. Occidente, non Spagna. Ed è stato tanto più sinistramente efficace quanto più si è distanziato dalle inquietudini etiche e morali riflesse nei dati che ho proposto fin qui. Roberto Fernández Retamar, uno dei padri degli studi postcoloniali in America, avverte contro questa trappola e cita Marx, che scrive: “La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude.” Quell’ipocrisia e quella barbarie sono state e sono nostre. Non di Colombo, non della Spagna, ma dell’Europa e dell’Occidente.

Fin qui ho citato diversi autori marxisti. Vorrei citare, per finire, un’altra intellettuale al di sopra di ogni sospetto di simpatie colonialiste, Laurette Séjourné. Consiglio la lettura integrale della prefazione al suo America Latina. Antiguas Culturas Precolombinas,di cui riporto un paio di frasi (pp. 7-8):

Abbiamo anche visto che le accuse sistematiche agli spagnoli svolgono un ruolo pernicioso in questo vasto dramma, perché sottraggono l’occupazione dell’America alla prospettiva universale a cui appartiene, giacché la colonizzazione costituisce il peccato mortale di tutta l’Europa. Lo sfruttamento del continente americano era un obiettivo di tale portata da travolgere qualsiasi quadro politico, e abbiamo dati a sufficienza per provare che nessun altro paese si sarebbe comportato meglio. […] Al contrario, la Spagna si distingue per un tratto di capitale importanza: fino ai giorni nostri, è stata l’unico paese che abbia espresso voci potenti contro la guerra di conquista. Se si considera quanta energia morale esige, ancora oggi, la protesta contro le aggressioni verso gli Stati deboli, e quanta immaginazione richieda il sentimento di eguaglianza verso creature annichilite da meccanismi disumani, non possiamo non considerare degli autentici eroi quegli uomini che, nel s. XVI, lottarono controcorrente nel mezzo delle inaudite violenze scatenate dall’invasione.

Quegli uomini erano spagnoli. Solo spagnoli. Ce lo dovremmo ricordare, e invece.

NOTE:

(1) Poi ci sono miriadi di leggi di tutela minori che facevano capo ai diversi territori: ad esempio, durante la Conquista del Cile (notevole epopea che vide come protagonista una conquistadora donna, peraltro) Pedro de Valdivia proibì che le donne fossero obbligate a portare carichi. Se le indigene avessero voluto servire in casa di spagnoli, dovevano avere il consenso del marito o dei genitori se nubili e, per evitare abusi, i contratti non dovevano avere durata superiore a un anno. Il loro salario minimo era stabilito per legge. Se la donna si sposava durante il servizio, lo sposo andava a dormire con lei nella casa dove serviva.