(Scritto il 25 aprile 2019 e poi non pubblicato.)
Se la Spagna ha avuto un libro come Canijo, di Fernando Mansilla, il nostro paese smemorato e perbenista ha raccontato ben poco la guerra della mia generazione. Mara come me, di Marco Salvia, è l’unica eccezione che mi viene in mente.
Mara è un romanzo, potente come lo sono le cose vere, ed è una denuncia, una battaglia, una sfida lucidissima a quel nostro bigottismo peloso, reazionario, sentimentale e assassino così ben rappresentato dai vari Don Gelmini e Muccioli che hanno infestato l’Italia. Ci mise tempo, Marco, a venire allo scoperto dopo averlo pubblicato e a dichiararne la valenza autobiografica. Non perché avesse qualcosa da rinnegare – figuriamoci – ma perché non voleva essere incasellato, costretto a forza in un ruolo che era solo una parte di lui. Una parte che, sì, lo aveva segnato, ma non esauriva neanche da lontano la persona che era. Quando alla fine si decise, lo fece per generosità. Per rendere più efficace la sua battaglia. Perché esponendosi in prima persona sarebbe stato, forse, più efficace e incisivo nel proteggere la dignità, se non la vita, di chi stava combattendo la guerra che aveva combattuto lui. Gli si deve della gratitudine, per questo.
Ma, appunto, Marco non era riducibile a questo sprazzo di autobiografia. Non lo è mai stato, in tutta la sua vita. Non a caso, tutto il resto di ciò che ha scritto, pubblicato o no, esplora, sperimenta e gioca con tutt’altro. Poesia, racconti, altre guerre, come quelle di camorra a Napoli. Avrebbe potuto scrivere e fare molto di più se la salute non lo avesse tradito ormai da anni, spezzandolo un po’ alla volta. Ma è che fragile, a modo suo, lo era da sempre. Non c’è mai stato un momento – ed è nella mia vita da quando aveva quindici anni – in cui non sia stato certo di morire anzitempo. Provocando sbuffi, alzate di spalle, accuse di ipocondria. Rileggo le nostre chat di quando io ero in Messico e lui ai Caraibi: “Cmq mo ti dico una profezia e non commentare: se mi vuoi venire a trovare, fai presto”. Io protesto, ovviamente, e lui – mi piace immaginarlo con quel sorriso suo: “E che è, mica so’ immortale”. E poi, sempre di più. Non so quante volte mi avrà detto addio. Finché, sabato scorso, ha costretto me a dirlo a lui.
Aveva quindici anni, dicevo, ma il primo ricordo che ho di lui è di quando ne aveva otto o nove. Eravamo alla festa di un amichetto comune e qualcuno aveva scoperto il diario segreto della sorellina piccola del festeggiato. Lo leggevano ad alta voce, ridendo con la crudeltà dei bambini, ed era tutto un “Amo Marco”, “Marco amore mio” e cuoricini e stelline. La bambina era fuggita chissà dove e io guardavo ‘sto Marco: un caschetto di capelli neri, lo sguardo serio, scocciatissimo, di uno che non si sta divertendo affatto, che ordinava a tutti di piantarla. Eravamo attorno a un tavolo in cucina, lo ricordo come fosse adesso, e vedevo chiaramente che: 1) sapeva benissimo che ‘sta bimba era innamorata di lui, non aveva avuto bisogno della rivelazione del diario; 2) non era interessato perché lei era ancora più piccola di noi; 3) era comunque fermamente deciso a proteggerla dalla villania degli altri, e ci riuscì. La piantarono tutti. Mi sembrò un uomo, lo ammirai moltissimo. E dire che non avevo ancora nemmeno incominciato.
Lui, invece, ricordava me poco dopo, a una festa a casa sua che tirò fuori dal mio oblio: io appoggiata alla porta del suo salone che chiedo: “Marco, posso fare una telefonata?” e mi diceva che ero la bambina più bella del mondo, con due occhioni giganteschi. Ricordava quelli. Io lo rivedevo seduto a terra come faceva lui, col sedere tra le gambe, mingherlino, scomposto, che non capivi perché ma ti piaceva tanto.
E infatti: Marco e le donne. Bruttino, con quel naso, quel modo di correre strano, magretto e sornione, ma ti trapassava il cuore come voleva. Mia figlia, tanti anni dopo, disse: “Sai, mio papà è più bello ma Marco è proprio sexy”. Eh. Se ne era accorta pure lei, e pure lei da bambina. “Figlia mia!”, pensai. Ma c’era di più: è sempre stato capace della più strana delle magie, quella di avere tante donne senza che nessuna, in fin dei conti, provasse animosità per l’altra. Perché monogamo non lo è mai stato. Come me, del resto. Ma ognuna delle sue donne era unica, e lo è stata sempre. E questo ha fatto sì che, persino in questi giorni, sia stato tutto un ricordarsi l’una dell’altra, avvisare, sentirsi, preoccuparsi di chi non c’era e rintracciarla. Io non conosco nessun altro capace di questo. E credo che la spiegazione sia questa, appunto: che avevi la certezza del suo amore, del suo affetto, comunque. Pure quando ti criticava, ti squadrava, vedeva quello che non volevi che vedesse e te lo diceva pure, anche allora ti voleva bene, e tu lo sapevi. Aveva una grande capacità di perdono, quindi gli si perdonava qualunque cosa. E aveva una grande capacità di ironia, quindi nulla era davvero serio, alla fine. Tranne, appunto, quei suoi legami di acciaio.
E poi: sarà stato mingherlino e fatto più di mente che di corpo, ma aveva coraggio quanto ne vuoi. Ricordo che eravamo finiti a vivere in una comune spersa nelle campagne attorno a Crema, verso i diciassette anni. Allora usava. E il padrone della casa teneva i viveri chiusi in un frigorifero col lucchetto. Una sera, affamati come lupi, scassinammo ‘sto lucchetto e ci mangiammo il contenuto del frigo, poi andammo al bar del paese. Arrivò il padrone dei viveri, come un pazzo e armato di martello. Si avventò contro di me e, in un baleno, Marco si era già lanciato tra noi due, a farmi scudo col suo corpo contro il martello dell’altro. Rabbioso, cattivo, disposto a farsi male contro un pazzo che era grosso il doppio di lui, per proteggermi. L’altro rimase talmente esterrefatto che lo abbassò, il martello. E a me quasi scoppiò il cuore, per l’amore e la paura per lui. Pensa che cose mi vado a ricordare. Quanto eravamo piccoli, madonna. Minorenni tutti e due.
Poi c’è stata tanta altra vita, altri amori. Grandi. Si cresce. Una volta mi confessò che ero stata la sua prima donna. Attraversavamo una strada in Spagna, e se ne esce con ‘sta rivelazione. Io mica me ne ero accorta, e lui si era ben guardato dal dirlo prima. Lo avevo creduto scafatissimo in cose di sesso da ben prima di me e, invece, solo su quelle strisce pedonali – ormai eravamo entrambi genitori – mi resi conto dell’ovvio. E mi misi a ridere. Maledetto imbroglione.
Si sposò l’anno in cui io mi separavo, e mi sgridò per non essermi lanciata a prendere al volo il bouquet della sposa. “E ja, dovevi essere spiritosa!”. Si separò, mi raccontava perché, io solidarizzavo sempre con le sue donne. Lui sbuffava. Quando mi innamorai seriamente di un altro avevo 38 anni. Ci fu un episodio che lo fece sentire ignorato, dimenticato da me. E si arrabbiò come un pazzo, litigammo come mai prima. Ci dicemmo cattiverie tremende e poi ce le scrivemmo pure. E, mentre eravamo lì presi a ferirci, all’improvviso mi manda un’email: “Senti, smettiamola, non ne posso più, ti voglio troppo bene”. E io scoppiai a piangere, grata. Era quello che io più volevo e che meno sarei stata capace di fare.
E’ trascorsa tanta vita. Quando ero in Messico giocavamo a rifidanzarci: “Ti prendo pure chiatta”, mi diceva. E poi: “Ma come, già ti sei dimenticata che ci siamo fidanzati? Uhm, mi sa che l’affidabilità tua è sempre la stessa”. Io ridevo, ma in fondo riusciva a farmi sentire ragazzetta pure quaranta anni dopo.
Mi sgridava tanto, negli ultimi anni. Perché non mi prendevo cura di me, mi ero lasciata andare. Riuscì a farlo pure quando lo andai a trovare in clinica, l’ultima volta che era stato male. Mi avevano detto che non voleva vedere nessuno, ma io non ero “nessuno”. Presi un treno, andai, aprii la porta della sua stanza ed entrai. Lui sgranò gli occhi, poi si mise a ridere. E mi scrutò da cima a fondo, come sempre: “Ma la vuoi finire di inchiattire?” Così mi disse. Era sulla sedia a rotelle, stava malissimo, eppure fece come se, in quel momento, il problema fosse quello.
Faccio fatica a smettere di scrivere. Ma, in fondo, con ‘sti quattro aneddoti alla rinfusa volevo solo dire che gli ho voluto tutto il bene del mondo e che sono orgogliosa di averlo avuto nella mia vita. Il mio punto di vista, così parziale e coinvolto, non rende l’idea di chi fosse, di cosa fosse.
Una volta, mentre parlavamo di islam italiano – volevamo scriverci un libro assieme, su ‘sta cosa – mi disse: “Ma tutta ‘sta gente che si converte, ma non farebbero prima a cercare di essere, semplicemente, persone perbene?”
Lui lo era.
I funerali sono stati celebrati oggi. Dentro di me, ci rimarrà fino ai miei, e pure oltre.
Ciao Lia, che bello leggerti ancora, torno di tanto in tanto sperando di ritrovarti. Spero tu continui a scrivere ancora sul tuo blog-giocherello ;-)