Circulacion(13).JPG

Forse questo sarà il mio ultimo post sui taxisti del Cairo.
Non è detto, però: mi rimane ancora una settimana, qui, quindi di tempo per tornare ad accapigliarmi ne ho.
Epperò potrebbe anche essere davvero l’ultimo, e la cosa mi mette un po’ i brividi.
In fondo credo di essermene accorta solo ieri mattina, che io tra una settimana parto e smetto di vivere al Cairo. Mi sono svegliata, mi sono accorta di avere ormai poco tempo per fare tutto quello che ho da fare e ho capito che me ne stavo andando. Ma andando, proprio.
Nonostante buona parte del mio cervello sia segretamente convinta che parto per le vacanze ma poi torno, e in fondo è pure Agosto.
Una ad Agosto è preparata ad andare in vacanza, sarà per questo che mi confondo.

I taxi, dicevo.
Sono stati una specie di estensione della mia casa, in questi due anni, e lì dentro mi è successo di tutto.
Da quello che mi sequestrò sui tetti a quello con cui, per la prima volta, mi accorsi di comprendere un intero discorso in arabo e mi parve che mi si aprisse il cervello, tra Zamalek e Dokki, e lui parlava e io rispondevo ed era arabo, non ci potevo credere.
Poi il cervellino mi si è richiuso quando ho smesso di seguire il corso che seguivo allora, ma vabbe’. Però quel giorno lì mi emozionai e me lo ricordo ancora.
E quello che mi raccontò di essersi laureato nella mia facoltà, si sfogò con tutto il cuore per la rabbia di non avere mai trovato un lavoro e poi, dopo lo sfogo, si rifiutò di farsi pagare.
Non ci fu verso.
E il Fratello Musulmano. L’unico che, in due anni, mi abbia mai dato il resto, e senza che glielo chiedessi. Barba, zucchetto, gallabeya immacolata, Corano ovunque e due LE di resto.
Chi se lo scorda più, sono ancora sbalordita.

E le incazzature che mi sono presa. Migliaia, milioni di incazzature. Una al giorno, a volte due o tre. Sono terribili, i taxisti cairoti, e ogni straniero ha le sue strategie difensive nello sceglierseli: Pepe li prendeva solo giovani, per esempio, ché diceva che così c’erano più probabilità che non avessero fatto in tempo a incattivirsi.
Io, al principio, di sera prendevo solo quelli coi fari accesi. Col tempo mi sono arresa, però, e poi hai voglia ad aspettare, prima che te ne arrivi uno coi fari.

Le volte che mi incazzavo io, quando fingevano di sapere dove volessi andare e invece non ne avevano idea, e quelle che si incazzavano loro, quando mi caricavano sognando la straniera spennabile e poi mi vedevano lì aggrappata ai miei LE come una furia e non glieli volevo dare e, infatti, non glieli davo.

E’ così e basta, se vivi qua.
A Milano c’è il freddo, qui ci sono i taxi. A Milano ti metti la sciarpa, qua litighi col taxista.
Quotidianità.

E siccome sono in partenza, sono distratta e pacifica e non ho più voglia di ragionare da residente nelle minime cose, mi sta capitando di prendere il taxi per la palestra avendo in borsa solo 5 LE interi.
Da casa alla palestra, la corsa è di 3 LE.
Se tu ne hai 5 interi, chiedi: “Ha 1 LE di resto?” giusto per salvare la faccia. Il taxista mette su l’aria affranta e ti dice che, ahimé, quanto gli dispiace ma proprio non ce l’ha. Tu alzi le spalle, gli lasci i 5 LE e te ne vai.

Il taxista che dico io, invece, non ha messo su l’aria affranta.
Invece di fare la sua parte nella collaudata convenzione di cui sopra, ha messo su una faccia scandalizzatissima e si è messo a urlare, tutto aggressivo: “No, no! It’s five pounds! Five pounds!”
E io: “Eh?? E perché mai, se io qui ci abito e pago tutti i giorni 3 LE?” E lui, a voce ancora più alta: “No! It’s five pounds!”

Ecco: in fondo c’è del vero, nella voce che circola secondo cui io avrei un brutto carattere. Io mi affanno sempre a smentirla, ‘sta voce, ché normalmente mi autoconvinco che si tratti di una leggenda nera, ma in queste occasioni mi accorgo che, no, qualcosa di vero c’è.
Essendo stata presa completamente contropelo dal taxista gradasso quindi, sono semplicemente scesa col mio biglietto da 5 LE in mano e me ne sono andata.
A passo di marcia, nella piazza buia, facendo rotta decisa verso la bottega dello stiratore, un po’ più in là, allo scopo di ottenere spiccioli e protezione.
E il taxista, incredulo, che mi vedeva andare via e mi inseguiva a marcia indietro, continuando a ripetere: “Five pounds” e chiedendosi dove diamine stessi andando, presumo.

Ho raggiunto la bottega dello stiratore, ho messo la ventola alle ciglia e, tra un battito d’ordinanza e l’altro delle suddette, ho spiegato con tono affranto che “taxi, problema, uomo no buono, povera me, 5 LE, aiuto”.
E siamo usciti dalla bottega, io e tre stiratori, determinati a dare all’incauto taxista 3 LE e non un centesimo di più.

Le scene successive hanno toccato vette di grande drammaticità.
Il taxista che spiegava l’improbabile perché dei 5 LE, gli stiratori che controbattevano cercando di riportarlo alla ragione, i passanti che accorrevano fino a formare una folla determinata a dire la propria sull’appassionante questione, il mio portiere che accorreva pure lui (“Ma che sta combinando madame?”) e con la prole, di cui l’ultima nata in braccio, e tutti gli abitanti della piazza affacciati alle finestre e tutti che urlavano e l’incazzoso taxista, in assoluta minoranza, che si sbracciava ma già non parlava più di 5 LE e spiegava che ne voleva 4 perché io gli avevo chiesto solo un LE di resto, perché adesso gliene volevo dare tre?

E il signore dignitosissimo, per quanto in canottiera, che da un secondo piano cerca di mettere ordine e ci urla: “Ma davanti a quale Sheraton è iniziata la corsa? Lo Sheraton di Dokki o quello di Gezira?”
E io: “Ma quello di qui, di Dokki!”
E tutti: “Ooohhh!”
E il signore in canottiera: “Ma allora sono 3 LE!”
E il taxista che, ormai dimentico del taxi, si piazza sotto il balcone del signore e spiega e si sbraccia e il signore gli ribatte colpo su colpo e io e il portiere che ci guardiamo di sottecchi, ridiamo ed è che ridono tutti, di sottecchi, ma poi fanno tutti la faccia serissima appena il taxista si gira verso di loro – ed è che è un taxista proprio cattivo, truce che di più non si può – e il dibattito sembra non finire più e, insomma, comincia a non essere una cosa granché femminile, stare in mezzo a un simile casino, e infatti lo stiratore-capo mi sussurra: “Mi dia i 3 LE e vada pure, madame. Ci penso io.”
Sorriso commosso, ciglia, mille grazie e me ne vado.

Alla fine della storia ho assistito pacifica dalla finestra, con tutti che litigavano entusiasticamente fino a quando il taxista si è preso i suoi 3 LE e se ne è andato maledicendo il momento in cui mi ha caricato, suppongo, e il capannello che alla fine si è disciolto e io che, vedendo rincasare il portiere, gli chiedo dalla finestra: “Bastawi, ci sono stati problemi?”
E lui, col suo smagliante sorriso: “Nooo, maafish mushkela! Non ci sono problemi.”
E tutto è bene quel che finisce bene.

Un giorno, quando sarò in Europa, penserò a quanto equivalgono, in euro, i 2 LE per cui ho così duramente combattuto.
E rimarrò costernata.
A mia discolpa devo dire che io non vivo in euro e non penso in euro, e il particolare ha una sua rilevanza, quanto meno psicologica: se avessi dato soddisfazione a tutti i taxisti del Cairo, in due anni, mi avrebbero divorato tutti i miei stipendi e pure il fido bancario.
Non se ne parla nemmeno.

Però io ero preparata a darglieli, i 5 LE.
Se non mi avesse urlato, se non avesse fatto il prepotente, se non mi avesse trattato male, glieli avrei dati.
E’ che io detesto essere trattata male, ecco.
E’ più forte di me.

(No, non posso tacere. Devo dirlo. Ho appena fatto il calcolo e sono 0.28 euro, 2 LE. Ho fatto tutto ‘sto casino per 28 centesimi di euro. Non posso crederci, di averlo fatto. Quando mi rileggerò dall’Italia mi autoseppellirò, basita. Questa è una confessione, più che un post.)