Sono tornata, e ne avevo voglia.

E’ stato un viaggio che ci voleva, è stato importante. Volevo vedere gente a cui voglio bene, e non mi rimarranno molte altre occasioni per farlo: Pepe si trasferisce definitivamente a Istanbul lunedì prossimo, e ci siamo salutati l’altra sera a casa sua, con lui che aveva mille bottiglie da aprire e io che sarei partita la mattina dopo alle 7, erano le 2 di notte e dovevo ancora fare le valigie. “Dai, apriamo il cava?” “A me non ne versare, ho bevuto birra e sake, non ci arrivo all’aereo…

Sono uscita da casa sua con un abbraccio, un cd di musica turca, un invito ad Istanbul e un magone infinito: Pepe è il primo ma, dopo di lui, partono tutti i miei punti di riferimento forti. Entro giugno non mi rimarrà più nessuno, al Cairo. Mi toccherebbe ricominciare dalla Pensione Roma, tornandoci, come in un gigantesco gioco dell’oca che si chiamerebbe “La mia vita”, e non posso. E’ da 13 anni che, se posso, sono lì. Tredici anni. E’ arrivato il momento di provare ad andare altrove.  E mi sono preparata a questo, quindi, salutando persone che ho stampate nel cuore, e posti e sentimenti a cui devo il meglio che sono riuscita a fare di me. Umm el dunia. La madre del mondo. Di tutti noi: tutti messi e rimessi al mondo, in un modo o nell’altro, e le madri si salutano, prima o poi.

Ultima sera, col collega al Sapporo, lo stesso ristorante dove feci la mia ultima cena da residente cairota: “Sono qui da 5 anni”, dice lui. “E’ da 5 anni che amo questo posto, poi lo odio, poi lo amo, poi lo odio… mi sono consumato. Devo andare in un posto dove non mi succeda questo. Meno emozioni da spendere così, non ne posso più. Cinque anni sono tanti, e la mia esperienza qui è conclusa.”

E poi da Pepe, appunto, con le sue bottiglie, la sua casa vuota perché i traslocatori gli stavano imbarcando la vita in direzione Turchia. E c’era persino Miriam, la mia vicina di pianerottolo di un tempo. Flahback: “Ciao, apro una bottiglia di vino e un chorizo, vieni?” “Certo”. E le volte che ero io a portare una torta a lei. E i suoi racconti da archeologa che si immergeva nel porto di Alessandria a recuperare meraviglie e tutti che la guardavano mentre si metteva la muta e scopriva il corpo per un attimo, e la sua incazzatura e la sua passione, e la volta che mi disse che non avrebbe saputo vivere fuori dall’Egitto e che però lo sapeva, che il prezzo era rimanere sola per sempre, sposata al suo lavoro. Miriam, con quei capelli biondi lunghissimi e le caviglie sempre gonfie. Condividere un po’ di anni di pianerottolo, quando lei tornava dai suoi campi di lavoro e io dall’Alto Egitto, e fare circospetti tentativi di amicizia mangiando una la roba dell’altra o bagnandoci le piante a vicenda, e poi addio, fino all’altra sera. C’era anche lei, da Pepe, in questa cerimonia degli addii. Miriam, non me l’aspettavo.

E poi, la più importante di tutti: la colleghina, Julia.

Affetto, tensione, allegria, difese, chiacchiere e litigi, lei che è cresciuta e io che sono invecchiata, lei che mi prende per i capelli quando sto per andarmene troppo in là e io che la vedo spaesata, tesa, con i suoi amici già partiti – anche loro – e tutto da riprogrammare e poi l’ultima sera, che torniamo a casa sua e, prima che io cominci a fare la benedetta valigia, lei scoppia a piangere ed io so solo dirle: “Non perdiamoci…“. E, a partire da lì, di nuovo sul divano a parlare, e a parlare del Cairo: “Devo andarmene, devo chiedere un’aspettativa per poi decidere una nuova sede. Devo avere dei figli e non posso averli qui, con questo inquinamento pazzesco e tutto ciò che sai. Ma come riuscirò ad andarmene? Come faccio, dopo tutto quello che mi ha dato questa città? Umm el dunia. Io ci sono cresciuta, qui. Mi ha dato tutto, il Cairo. Il Cairo, senti come suona questo nome, ti rendi conto? E, sai, la cosa peggiore è il senso di gratititudine: come faccio ad esprimerla, la mia gratitudine per questa città?

Io ci ho messo tre anni, a elaborare il lutto della mia partenza dal Cairo. Pensavo che non sarebbe finito mai. Dall’arrivo – io che inciampo a Milano e mi slogo un piede, io che  litigo con i “compagni” filoarabi parlando di sigarette e mi ritrovo con Miguel Martinez e consorte nemici a vita perché rimpiango la libertà egiziana di fumare al ristorante, e lì mi rendo conto che vanno trattati e assecondati come fossero pazzi, gli italiani con cui dovrò riprendere contatto, ché sennò litigherò col mondo tutto. Io che mi ritrovo in 25 metri quadri di casa a Milano e il posto di lavoro in un istituto professionale pieno di guai in cui devo fare l’assistente sociale e non la prof, e mi ci consumo. Io che mi ritrovo con l’islam italiano sotto al portone del mo palazzo. Ed è un pio islam che non solo è piazzato sotto casa mia ma mi deve pure scopare urgentemente e però è peccato, quindi prima mi deve sposare islamicamente, ché sennò va all’inferno, ed io che ormai non vedo altro che pazzi e dico che ok, come vuoi, visto che pure io ho voglia di sgranocchiare te e potrebbe essere bello, e invece da lì al delirio e a consumarmi da sola per non essere inghiottita e digerita da altri, e le comiche con il travolgente finale dello scandalo mediatico, e il mio preside di Genova che leggeva delle mie prodezze e, ovviamente, domandava alle mie colleghe: “Ma questa nuova prof, ci riesce a lavorare nonostante ‘sto casino? E non è che fa propaganda islamica in classe, per caso?” E le colleghe: “Ma no, preside, lavora ed è seria, no che non fa propaganda…” Mamma mia, quanto tempo è passato anche da ‘sta cosa. Ed io che infine vado di nuovo al Cairo, come sempre quando ho un attimo libero, e che mi accorgo che mi manca Genova.

Perché è andata così: mi è mancata, Genova.  Avevo voglia di tornare a casa ed ho scoperto che casa mia è Genova; e che sono contenta che sia così.

Marzia: “E’ la prima volta da sempre, che torni in Italia contenta di farlo…” Vero. Genova mi è mancata. Non so cosa ne sarà della mia vita, prima o poi – ho come obiettivo tornare a partire, si sa – ma so che casa mia è qua, ormai. Tre anni, ci ho messo, per smaltire il lutto del Cairo. Tre anni, sono tantissimi. Ma è passata. Mi pare un miracolo, nonché il permesso per una felicità nuova. E’ passata, come passa ogni grande amore. Tre anni, e adesso ho casa mia e so che è a Genova. Va bene, è ciò che mi serviva. E capisco Julia, quando parla di gratitudine per la propria città, visto che io ne faccio indigestione, di gratitudine, dall’Egitto a Zena, e poi penso che sono una tizia felice, io, tutto sommato, e che anche Julia lo sarà: “E’ che tu sei stata felice, al Cairo. E la felicità tende a riprodursi, una volta che ti si è installata dentro. Sarai felice anche fuori di qui.” Inshallah.

E’ stato un viaggio importante. Sono successe tante cose. Solo che io ho più bisogno di andare al mare, adesso, che di scrivere.