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Poi, presto o tardi, qui due chiacchiere serie le torneremo pure a fare: non siamo ancora alla lobotomia, no, e di schiaffoni da tirare a diestro y siniestro ne avrei in serbo un po’.
Presto o tardi, ché qui c’è prima da fare fronte ai bisogni primari.
Ma poi mi pare anche che ripiegare sull’ombelico sia una doverosa misura di igiene mentale da praticare con regolarità, in questo paese sciocchino. Ero rimasta alla distruzione del Libano, io. Mi era parsa una cosa grave, non l’attualità di un paio di settimane estive. E invece, boh: bastano due chiacchiere su cosa ha detto il Papa, due chiacchiere su chi dice cosa sull’Olocausto, due chiacchiere su qualsiasi cazzata e ottieni le stesse emozioni, lo stesso stridor di denti, lo stesso stracciarsi le vesti che si ottiene radendo al suolo un paese intero con annessi abitanti. Uguale. Magari anche peggio.
E’ un mondo cretino.
Tutto, senza distinzioni tra gli schieramenti: la distribuirei molto equamente, la responsabilità di tanta cretinaggine.
Meglio l’ombelico, tutto sommato.

E il mio è un ombelico campeggiatore, ultimamente, nel senso che abita assieme a me in una casa ma il livello abitativo è quello di un camping. In pratica, io vivo al quinto piano di un edificio ma è come se me ne stessi in tenda. Divertente, anche: l’effetto finale è un po’ quello di una vacanza nel Sinai.

L’acqua calda non ce l’ho ancora.
In compenso, dopo molti combattimenti – anche contro la stupidità umana, sia detto, ma è che è appunto un mondo cretino – adesso possiedo un letto, con mia vivissima soddisfazione.
Stancantissimo portarsi un letto a casa, a proposito: dovevo fargli fare un cento metri, al mio, e in un impeto sparagnino e solidale al tempo stesso, ho pensato di assoldare qualcuno della folta comunità marocchina locale affinché provvedesse all’incombenza. E poi ho pensato anche che non è la città più tranquilla che io conosca, Genova: l’altro giorno ho beccato un tizio con la mano nella mia borsa, sul 18, e l’ho dovuto sgridare. Portarmi marocchini ignoti in case dove la mia amica vive da sola ed io vivo da sola non era una grande idea, ho pensato. “Devo vedere come farmi indicare un marocchino fidato”, ho pensato infine. E’ stata una missione complessa, in realtà: a un certo punto ho avuto la certezza che mi sarebbe stato più facile farmi presentare il sindaco, giuro. Poi ce l’ho fatta, invece, e tanto per cambiare ce l’ho fatta grazie a un lettore di questo blog, che ringrazio.
Prima o poi avrò anche una cucina e potrò dispensare ai pazienti lettori di questo blog ringraziamenti più sostanziosi di ‘ste due righe in blu.

Una cucina, già: ho fatto i conti e risulta che io non mangio un pasto cucinato in casa, inviti a cena a parte, dai primi di luglio. Siamo a fine settembre. Tre mesi. Ecco perché ero giù di magnesio, santo cielo.
I risultati di tanta sregolatezza sono terrificanti: oggi mi guardavo allo specchio dell’ascensore (no, in casa non ce l’ho ancora) e non credevo ai miei occhi: chi cavolo era quel mostro che mi fissava?
E quindi mi sono precipitata a comprare almeno il frigo, che è molto più semplice da comprare di una cucina e me lo portano domani. Lo riempirò di yogurt e verdurine, che devo fare. Qua bisogna ripigliarsi, assolutamente. L’alternativa è un doveroso e meritato suicidio. Preceduto da un’auto-scarica di schiaffoni, ché una è realmente una deficiente, più spesso che no. Sono indignata con me stessa.

E poi mi portano anche la lavatrice, domani.
E la linea del telefono, dopodomani.
Si va avanzando dall’effetto-camping all’effetto-albergo, un po’ alla volta. Prima o poi ci arriverò, all’effetto-casa, ma non oso fare previsioni.
Io non l’avevo mai fatta in vita mia, tanta fatica per avere un tetto sulla testa.
E’ strano.
Certe volte cerco di ricordarmi come ci ero arrivata, le altre volte, ma non mi viene in mente nulla che serva a rendermi più efficace adesso.
A pensarci bene, anzi, mi sembra completamente irreale anche solo ricordare di averla avuta, una casa normale in passato.
Deve essere stato molto tempo fa.
Forse ci viveva un’altra, mica io.
Una perde il conto delle proprie reincarnazioni.

Però, in qualche modo – se togli lo stress, la forma fisica agghiacciante, il conto in rosso cupo, il gas che non arriva e lo sballottolamento generale – io in fondo mi ci ritrovo, qua.
Seduta sul materasso, ché non ho ancora le sedie, a tamburellare sui tasti del pc offline, ché non ho ancora la linea, mi guardo ‘sta casetta simpatica e il mucchio di cielo che si vede dalla mia finestra e mi fa sorridere, ciò che mi circonda.
Tutta precaria, circondata da tutta ‘sta Zena e da tutti ‘sti zeneizi da contemplare, col costume da bagno nello zaino della scuola e tante cose davanti da fare succedere, io sarei – a dirla tutta – nella mia condizione ideale.
E me ne accorgo a scuola, che in fondo ho trovato casa: serena e rilassata come sono là – quando entro e mi lascio i cavoli miei fuori dalla porta e non mi accorgo del tempo che passa e sto nel mio brodo, come se fossi sempre stata lì – io non lo avevo mai iniziato, un anno scolastico.
Ho ritrovato il mio mestiere – e per davvero – ed era un pezzo che non lo vedevo.
E mi viene in mente a questo punto – dopo avere parlato di scuola – che la verità vera, quella che va al di là dei momenti, degli episodi e delle circostanze passeggere, è che – santo cielo – sto bene.
Sì, pensa te.
Sono sbalordita da questa rivelazione.