
C’è questo tale che ha esattamente la mia età e che, a suo tempo, si è laureato in una di quelle facoltà a cui ci si iscrive per passione, per interesse culturale o, semplicemente, perché si è giovani.
Poi, una volta laureato, ha olimpicamente snobbato il territorio naturale su cui piantare paletti di professionale previdenza, quando si esce da quelle facoltà lì, ovvero l’insegnamento.
Mi dice che si offese persino, quando un’amica per poco non lo iscrive in graduatoria a sua insaputa. Difficilmente gli uomini vogliono insegnare nella scuola.
E’ andato a fare altro, forse in modo un po’ caotico.
Lo stage presso l’ente pubblico, i progetti della Regione, cose così. L’impresa che poi taglia il personale e lui ci incappa.
E poi ha cominciato ad accettare lavori per mantenersi lì per lì. Lavori a contratto, cose lontanissime da ciò per cui aveva studiato.
Sono passati gli anni e la qualità dei lavori che si presentavano è andata calando. Lo stipendio, pure.
L’ho conosciuto che lavorava in un call center e mi ha raccontato la storia perché, evidentemente, deve venirgli voglia di spiegarlo, il motivo per cui è in una simile situazione professionale.
E tu lo guardi, sorpresa e spiazzata. Simpatico, colto, l’aria buona.
Preoccupato perché sulla soglia dell’ennesimo non rinnovo di contratto causa tagli del personale. Durano poco, ‘sti lavori.
Prendeva 700 euro al mese, quando l’ho conosciuto, e per dormire ne spende 200. La sua casa è una stanza.
“E dove mangi?” gli chiedo.
“Eh… in giro. Nei bar. Mi organizzo.”
Meno male che hanno inventato gli aperitivi, penso.
Poi penso che io ci ho vissuto tre mesi, senza una cucina, e ho avuto la certezza che mi sarei devastata la salute, se fossi andata avanti ancora un po’.
Sono pure andata a farmi gli esami del sangue, a cucina ottenuta e calma ritrovata, e di corsa. Per poco non mi faccio accompagnare a ritirarli, preoccupata come ero. Invece no, tutto a posto. Miracolosamente, penso. Ma non vanno sfidate più di tanto, ‘ste cose, e guardavo preoccupata il mio coetaneo che, nei bar, ormai ci mangia da chissà quando.
“Sì, sono ingrassato”.
Ci credo.
Poi gli è finito il lavoro nel call center, appunto, e ha di nuovo iniziato il giro dei colloqui.
Pare si sia affacciata la possibilità di un part-time, a fare l’ennesima cosa per cui non ha studiato e non c’è bisogno di studiare.
Era contento, con la sua aria un po’ distaccata dai discorsi pesanti, con la sua nulla voglia di autocompatirsi.
Io non l’avevo ancora mai vista da vicino, nella mia generazione, una situazione simile.
L’ho vista nei trentenni. Con loro la prendi diversamente, però: pensi che poi risolveranno. Non durerà per sempre, pensi.
Nella mia generazione è diverso. Dura per sempre, sì. In mancanza di miracoli, almeno.
La povertà di ritorno di questa piccola borghesia che ha studiato e che è cresciuta in tempi che non lasciavano assolutamente presagire un futuro di precariato atroce – altro che quello dei prof – di questa portata, mi sconvolge non poco.
Come si prevede, come si previene una roba simile? Quanti piccoli, impercettibili errori messi in fila ti portano a fotterti la vita, a non potere avere nulla di normale? Una casa vera, dico. Una famiglia, le cose ovvie. E senza che tu abbia mai deciso di non volerla, una vita normale.
Perché, sai, quando lo decidi è un’altra cosa: metti in gioco la tua esistenza in nome dello spirito d’avventura, della voglia di divertirti, del tuo personale desiderio di rottura, e vabbe’.
La mia generazione è stata particolarmente incline a farlo, peraltro.
Ma così?
Che senso ha, così?
Io le detesto, le cose senza senso.
E quindi tocco con mano un fenomeno che sarà pure comune, ma che non percepisci davvero se non lo vedi da vicino.
Tutte isole, le persone che fanno i conti con la povertà di ritorno. Tutti solitari, nel farlo. Poco percepiti, appunto.
Perché a occhio non lo vedi.
Se uno non è culturalmente, psicologicamente preparato alla propria povertà, non lascia nemmeno che si noti. Non dai vestiti, non dai modi, non dalle abitudini.
Tu vedi un tizio normale con un aperitivo davanti.
La cena.

In un mondo di precari, essere migranti può essere ua buona strategia di adattamento.
Forse è vero che noi trentenni siamo molto più preparati dei quarantenni a improvvisare una vita nella precarietà (o flessibilità, come suona meglio). “Il lavoro è un diritto”, ci sembra uno slogan fuori tempo. D’altronde è un’esigenza di tipo’darwiniano’, direi. Chi non si adegua al cambiamento muore, e anche noi siamo ‘evoluti’ in una specie strana che si arrabbatta, cambia, trasloca, si butta in avventure professionali insolite, divide appartamenti come quando era all’Università…qualcuno in questo scenario riesce anche a imbastire una famiglia. (Complimenti a quel qualcuno).
Tuttavia, il fatto che molti di noi oggi siano riusciti a trovare un equilibrio (se non altro psicologico) nella precarietà, non significa che domani la società non si troverà ulteriormente frammentata e impoverita da questo situazione. E non è una povertà solo di tipo finanziario, purtroppo. Ciao
Lia,
anch’io sono della stessa età, dello stesso percorso di studi e della stessa sorte: 44 anni, lettere.
Primo co.co.co: nel 1987. Manco esistevano, ufficialmente. Mai avuto contratti fissi.
Ma non sono in subaffitto a mangiare salatini. La differenza? Un marito che guadagna, e mi permette di ostinarmi a fare la giornalista che mette insieme si e no 400 euro al mese. Certo, del doman non c’è certezza, ma non l’avrei avuta comunque, la certezza.
Un uomo in una situazione analoga, chi se lo piglia? Se fossi stata uomo, sarei stato al call center, solo come un cane. Tira tu le conclusioni.
Il post che hai scritto mi ha gelato il sangue. Perché racconti di una precarietà che è quella che potremmo trovarci ad affrontare domani mattina: una “vita normale” che potremmo perdere di colpo con un taglio del personale o con una riorganizzazione aziendale, o magari con un altro errore impercettibile come quello dell’orgoglio che rifiuta l’andare ad ad insegnare a scuola.
Mi chiedo però se il tema è solo il precariato e se la soluzione è solo il “posto fisso”. L’organizzazione di una vita salta anche a causa di un divorzio, di un conto in banca in rosso per un prestito ad un amico, di un incidente stradale coi danni da pagare, non soltanto per la perdita di un lavoro stabile.
Tanti anni fa tutto questo era ammortizzato dalla “famiglia”, quella che ti riprendeva a casa se le cose erano andate storte. Ora boh. Avrà mica ragione il Ruini? :-D
be’, due pensieri: la precarietà (di lavoro e quindi di vita) non credo la si possa prendere bene; non mi piacerebbe essere nei panni di questo laureato, io son spassino diplomato e già penso alle occasioni perdute, agli errori commessi, figuriamoci lui
L’osservazione di Una Qualsiasi fa riflettere. Quanto al merito tuo post, la situazione è terribile. E non credo che tornare al posto fisso possa risolvere i problemi.
Io me lo sono messo in conto, che con la mia laurea quinquennale, se non finirò così, comunque poco meglio (bell’affare, dice uno dopo quasi cinque anni di università; saperlo, facevo ragioneria+economia aziendale. Ma ne sarei uscito ancora più pazzo).
Per di più, qui a Venezia neanche ci fai cena, agli aperitivi. Ti danno solo le patatine.
Che tristezza.
Di persone così, senza una certezza o stabilità, è piena l’Italia.
Alcuni hanno un incapacità ad integrarsi in un sistema lavorativo, altri (la maggioranza) vengono tenuti a margine del sistema produttivo, riempiendo degli spazi economici temporanei.
Non la noti la povertà in queste persone, perchè la nascondono molto bene. Un giorno, vedi quel signore (o signora), in orari “strani”, cercare nel cassonetto della mondezza qualcosa da mangiare, e ti senti stringere lo stomaco.
aggiungo anche la mia testimonianza, a questo punto .. 45 anni, scelta del corso di laurea basata sulle prospettive di lavoro e non sulla passione (tanto per dire che non conta poi moltissimo, alla fine), 2 lavori buoni e poi 17 anni nell’azienda dove sono tuttora, con stipendio e professionalita’medio alti. Tutto finisce tra un mese, l’azienda ha deciso di chiudere la sede. E, per citare un classico della letteratura popolare, e’ piu’ facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che trovare a torino qualcosa di simile. Milano la detesto quanto la proprietaria del blog, se non di piu’. Poi magari ci si adattera’, in mancanza d’altro. Forse per incoscienza, non sono cosi’ preoccupato .. credo che le cose che accadono non sono in se’ belle o brutte, ma necessarie. Che poi e’ un’opinione strettamente personale …..
La precarietà è nelle pause. Quei momenti nei quali pensi che la prossima volta sarà meglio. Il futuro incombente e irrinunciabile, il rilancio contro la sorte infame, la scommessa che sarà l’ultima volta. Ridicolo, essere precari è quasi drogarsi, forse per quello lo si nasconde. Forse per quello si dice che è normale solo perché è frequente. Forse per lo stesso motivo per il quale si dà la colpa agli altri, forse perché contemplare un panorama senza fotografarlo con il cellulare sembra più povero che esibire un cellulare senza ricarica. Forse ce lo meritiamo Alberto Sordi, cara Lia.
Rat
Beh,io niente laurea ma lavoro dai 19 anni direi per forza. Artigiano da 37 anni.
Passato da apprendista a titolare della ditta in cui lavoravo.
Il mio capo sono io,mai avuto problemi di licenziamento. Non ho mai anteposto una laurea al lavoro ed ora sono soddisfatto della scelta (scelta obbligata..quindi pochi meriti al sottoscritto).
Oh sì..ci si sbatte da mattina a sera,si fanno le ore piccole per finire i lavori,si attraversano momenti poco rosei,ma sai che se vuoi cambiare il colore tutto dipende da te,dalla tua fantasia e dalla tua voglia di fare.
Tutto qua.Il posto fisso per me è una catena corta.Per di più oggi anche pericolosa.
Non avrò la vostra pensione,ma avrò il mio lavoro finchè campo e regge il fisico e col lavoro sopperirò.
Non ho dipendenti…non amo creare problemi agli altri.
Messaggio per Lia.
Ho aggiunto il suo sito nel mio blogroll: spero non le dispiaccia.
Onoratissima, Malih. :)
la precarietà è terrorizzante. forse è vero che per i trentenni sembra solo una situazione temporanea, la cosiddetta “zona di passaggio” verso un avvenire dalle prospettive migliori… eppure spesso queste prospettive non si concretizzano. tutto sembra avere una scadenza. esaurito quel tempo – sei fuori. la storia che descrivi mi spaventa ancora di più. perchè si pensa sempre che a quarant’anni la situazione si capovolga. e invece i lavoratori si trovano ad annaspare con l’acqua alla gola, davanti all’incertezza del loro presente. mi atterisce guardare avanti. vedo solo un tunnel buio, quello dell’instabilità. un caro saluto
Mi sono riletto.
Volevo scrivere insomma che è perfettamente inutile piangere sui propri guai quando non si fa nulla per mutare la situazione,quando non si rischia per paura.
Oggi è diventato meno vergognoso lavorare manualmente..piuttosto che non lavorare affatto,ma qualche anno fa anche i somari dovevano prendere il pezzo di carta per far felici papà e mammà…all’università si andava e si va anche per non lavorare.
Spiacente ma è una verità.
Sporcarsi le mani non è mai piaciuto a nessuno..ma alla resa dei conti ci si trova senza un minimo appiglio ed una vita per lo meno angosciante. Troppi cervelli non zappano la terra.
Ho letto questo post già quattro o cinque volte e, ogni volta, mi viene la pelle d’oca. Mi sono trovata in una situazione di precariato imprevisto per un periodo piuttosto lunghetto della mia vita (praticamente dall’apertura del mio blog attuale fino a pochi mesi fa) e la sensazione di essere sull’orlo di un precipizio la conosco bene. E (naturalmente) sono ingrassata anch’io!