Mi sono svegliata riflettendo sul commento di Ahmad a un post qui sotto, stamattina (ognuno si sveglia pensando a ciò che vuole, del resto).
Provo a mettere un po’ di ordine in ciò che pensavo, sapendo già che ci riuscirò solo in bozza.
Ahmad in pratica (se ho ben capito) associa Shada Hassoun a un modello culturale occidentale ed estraneo alla tradizione culturale “musulmana” (che non è sinonimo di irachena) e ritiene che tale modello venga imposto oggi (“continuare a dire ai musulmani come devono essere per essere accettati come soggetti di diritto“) con un’operazione applaudita, in Occidente, tanto a destra come a sinistra ed avente come scopo l’indebolimento della resistenza irachena.
E conclude con una sorta di battagliera rassegnazione all’ineluttabilità dello scontro di civiltà.
In questo scontro, mi pare di capire, Shada finirebbe dalla parte degli occidentali.
Ora: non è un mistero che io, da un bel po’, avverta un senso di forte artificiosità nell’islam inteso come modello sociale che vedo proposto – o sognato, immaginato – qui in Italia.
Non è una posizione politica, la mia. E’ un puro e semplice non riconoscere l’oggetto di cui si parla. Non riuscire ad associarlo a ciò che io ho in mente quando penso al mondo arabo.
Per dire: Shada che, senza velo e con statalistico patriottismo, canta una canzone di Fairouz a un festival panarabo, non è un innesto culturale veicolato dall’invasione. E’ quanto di più anni ’60 o anni ’70 io possa immaginare, nel mondo arabo. Risulta familiare alla generazione dei nonni, ormai, oltre che a quella dei padri. Forse soprattutto a loro.
Ai figli, chissà. Lì ormai si complica, il discorso.
Credo, comunque, che non ci sia iracheno vivo che non ce l’abbia nei propri schemi culturali, una cosa così.
Io, quando penso all’Iraq, penso a un paese moderno, una sorta di Germania mediorientale, che è stato distrutto dall’Occidente mediante un embargo di oltre un decennio, prima, e la guerra poi. Penso con nostalgia – l’ho detto migliaia di volte – alle università, ai centri di ricerca, alle donne scienziate, alla multiculturalità che, in Medio Oriente, c’è sempre stata. E credo che il cosiddetto Occidente abbia voluto distruggere questo, non altro.
Nessuno è andato a bombardare un’Arcadia islamica, e nessuno se ne prenderebbe la briga. E’ un mondo arabo moderno e competitivo, il pericolo. Una ruralizzazione di ritorno frammentata in mille clan sta benissimo a tutti. E che preghino e si velino quanto gli pare, a quel punto, i musulmani. Chi vuoi che se ne importi. Dopo avere distrutto qualunque cosa stia in piedi, però.
Lo scontro di civiltà è artificiale, dovremmo saperlo tutti.
Nessun popolo vive in una cappa che lo separa dagli altri popoli, e tantomeno in Medio Oriente.
Se domani gli americani venissero a invadere Napoli, quale dovrebbe essere la mia risposta culturale, la mia reazione identitaria? Butto tutta la musica che mi ha formato e mi impongo la tarantella? Mi vesto come nei quadretti del folklore, imbraccio un tamburello, faccio dieci figli come le donne raccontate da Matilde Serao? E poi? Sarebbe autentica, una napoletanità del genere? Mi sintonizzerei sulla cosiddetta anima profonda del mio popolo, così facendo?
Direi di no: sperimenterei una napoletanità ricreata in provetta, ricostruita prendendo l’immaginario a modello e mai vista prima. Spacciandola per antica. Una specie di comò identitario venduto da antiquari disonesti.
Vado per paradossi, certo, ma a me pare che sia questo, lo scontro di civiltà: aderire a identità fittizie e difenderle.
Perdendo, poco alla volta ma inesorabilmente, la memoria di ciò che si è davvero. Nella realtà, dico.
Adeguarsi al ruolo che ci viene assegnato. Dal nemico, per giunta: ché, vorrei ricordare, quando gli americani cominciarono a parlare di scontro di civiltà, il Medio Oriente ne rimase per lo più basito.
La realtà mi dice che il Medio Oriente è un’immensa distesa di paraboliche, di radio che trasmettono canzonette pop, di momenti comunitari vissuti attorno a svaghi tra cui un festival della canzone ci sta tutto. E che questo è prodotto di un’invasione culturale tanto quanto il nostro festival di Sanremo, come dire.
La gente è normale. Pure in Iraq.
Io vorrei capire dove li mettiamo, nel nostro scontro di civiltà, i sei milioni (o quanti ne sono) di iracheni a cui è piaciuta Shada.
Temo che sia difficile fargli posto, da una parte e dall’altra.
Solo che, per me, il Medio Oriente sono loro.
E, come sempre, ne apprezzo la tenacia.
Temo di avere accumulato dubbi senza ritorno, sul cosiddetto islam politico.
Perché propone un’identità fittizia, appunto. Innaturale. E quando l’individuo cerca di aderire a un modello identitario preconfezionato, i casi sono due: o si lobotomizza, o diventa ipocrita.
Credo che l’islam sia, e meriti, qualcosa di meglio della riduzione a ideologia, da partitello o da PCUS che sia.
E credo che sia un problema soprattutto nostro, questo.
In Medio Oriente, appunto, la normalità resiste.
Che poi, in guerra, ci si debba difendere, è un altro discorso.
Nessuno ne dubita, qui.
Io dubito solo dei desideri di noi che assistiamo. Vorrei che fossero chiari, almeno.
A noi stessi, innanzitutto.
Mah! Sinceramente non credo che la guerra all’Iraq sia la prova del timore occidentale di un mondo arabo “moderno e competitivo”: se avessimo di questi timori allora dovremmo “distruggere” anche paesi come il Giappone, la Cina, l’India… insomma, perchè dovremmo temere lo sviluppo dei paesi arabi più di quello delle “tigri asiatiche” tanto da far guerra ai primi?
devi scusarmi se scrivo un commento: io odio commentare.
Ma nello scorrere, a volte, determinata letteratura, non posso non parlarne.
E per determinata letteratura, intendo ciò che in realtà è il nucleo, il fulcro di buona parte del mio pensiero. Mi spiego meglio: sono un italo-siriano, ho vissuto in entrambi i paesi, e, soprattutto, ho viaggiato (soggiornando, se necessario) in una caterva di luoghi, arabi e non.
Ma chissenefrega di me: ciò di cui, leggendoti, sento l’impellente dovere di segnalarti, è la terminologia da te utilizzata.
“Normale”.
Ecco, ovviamente, sopra a tale mot potremmo ricamare notevolissima quantità di contorti ragionamenti filosofici, siano essi qualitativamente mediocri, o, magari sforzandoci, ai limiti della ponderatezza dovuta. Ma non è nel temine in se che voglio parlare; è nell’uso, quasi lapalissiano, che ne fai.
Sembra di carpire che il “normale” sia per una ragazza irachena, in piena guerra, cantare in un programma televisivo una canzone di Feiruz, ed essere apprezzata ed applaudita da tutti come portatrice di manna un’agognato momento di relax.
E senza velo, sottolineamolo.
Perchè ovviamente non avere il velo, da quel che capisco, significa essere emancipata, libera, moderna, all’avanguardia. Normale, dunque. Ovvio.
Evvabbè.
Ma il problema, (e scusami se lo definisco tale), è che tu traspondi questa “normalità” puntiforme (della piccola ragazza emancipata, per inciso), su di un livello più elevato, generale, che tocca gli sfocati contorni di quello che chiamiamo “cultura araba”. In questo caso, non condividi questo pensiero di un ritorno ad un’arabismo utopico, mai visto, narrato nelle leggende e nelle poesie. Inesistente, a tuo dire. O esistito, ma in uno ialino passato, come un’onda, remota, che giunta a riva sfuma nella sabbia del presente, penetrandola INEVITABILMENTE, diventando, a mio avviso, fanghiglia.
Ed è questa inevitabilità ciò che non condivido nel tuo scritto, e ciò che a mio avviso, nessun arabo che sia arabo come dico io (perchè gli arabi sono come dico io sennò no), può condividere:
citi Feiruz e gli andati anni 30 come cultura araba, per così dire, moderna e, appunto, normale. Diciamo, usando un neologismo che mi sono inventato adesso, la “cultura ricordabile”. Dunque quella vera ed unicamente rappresentabile, in questo periodo storico.
Essendo arabo, però, tengo a ricordarti che gli andati anni 30, anni nei quali la gente si baciava in bocca nei telefilm egiziani, e Feiruz cantava, ossanata, senza veli, dinnanzi ad ebbro pubblico maschile, erano gli anni della colonizzazione europea, ed erano gli anni della distruzione culturale araba (così come ci si può aspettare da qualsiasi buon colonizzatore che si rispetti). Ed erano gli anni del moderno “inhitat” (capirai, sono sicuro), “inhitat”, questo, che continua ancora adesso.
Ma ovviamente, la colpa non va certo solo in direzione del colonizzatore. E’ il pubblico ebbro, ciò che inquieta. D’altro canto, quelli erano gli anni di rinascita di un arabismo che vedeva il tramonto proprio ad inizio secolo, erano gli anni dei Fratelli, erano gli anni delle lotte civili contro Francia ed Inghilterra. Diciamo, dunque, che quegli anni verranno ricordati come scossa del mondo arabo in ricerca di un arabismo che andava smarrendosi.
Andava smarrendosi, ma non è mai smarrito.
Perchè se la letteratura e le leggende, le poesie e la religione, le scienze e l’arte, se tutto ciò fosse astratta proiezione di un utopica cultura, che adesso non esiste, io mi chiedo, oggi: cos’è la cultura araba?
cos’è la cultura araba, cara Lia, se non le poesie del Mutanabbi e del Maarri, la letteratura del Jahez e di Taha Husein, le scienze dello spazio e l’arte della linea?
Il deserto.
Dov’è il deserto, Lia, su di un palcoscenico televisivo, se non dentro le inerti menti degli spettatori?
Perdonami se mi dilungo, ma non so commentare, riesco solo a scrivere.
Sicuramente, da quel che ho capito, hai conosciuto un paese, l’Egitto. Avrai conosciuto tanta gente, immagino. Parli l’arabo, sicuramente.
Sono certo che hai anche visto il deserto. E le sue stelle. E il suo vento.
Dunque, probabilmente, capirai il motivo del mio blaterare: ti assicuro che non vi è niente di moderno, inteso di americano, che possa penetrare in quella che le stelle e il vento chiamano “cultura araba”, e il motivo, te lo spiego subito:
Arabo, in arabo, significa “fiero”. Ma non fiero come avete inteso tutti. Non il fiero dell'”onore”, dei “valori”, delle “tradizioni” e di altre bislacche idee.
E’ il fiero inteso come fierezza di natura, di libertà, di selvaggio rapporto con il cosmo. Di totale armonizzazione con ciò che, nel profondo, e sottolineo, nel profondo, lo forgia.
L’arabo porta in se questo. Anche l’arabo che ha vissuto nella “normalità”, come me, ad esempio.
Io porto in me questo. Profondamente, io porto in me il Mutanabbi, il Maarri, il Jahez ed Ibn Sina, Taha Husein e gli artigiani di Aleppo. Il gelsomino di Damasco e il vento della steppa.
Le stelle. E il deserto.
Ti prego, ti scongiuro, non confondermeli con una ragazzina e il suo microfono.
Suri
Infatti, quando diciamo scntro di civilta’ e ci armiamo di raffinati strumenti storico-sociologici, e abbiamo letto Huntington,, non ci rendiamo conto di quanto sia arruginita l’armatura intellettuale di cui ci rivestiamo.
“Noi” e “loro”: tutti sotto l’occhio di una telecamera che non e’ americana piu’ di quanto non sia pachistana, giapponese piu’ di quanto non sia brasiliana.
E tutti i nostri atti e ragionamenti, anche i piu’ neri e tragici, tendono a metter da parte (ce lo scordiamo sempre, come il nonno che si appisola ogni 5 minuti) che e’ come se almeno tre cameramen ci seguissero da almeno tre angolazioni diverse, con zoomate sapienti, come succede su Scherzi a Parte.
Quindi e’ giusto far riferimento all’immensa distesa di paraboliche che presidia lo scontro di civilta’: un misto di tragico e frivolo che e’ bene sempre aver presente.
Buona Pasqua a tutti.
Fairuz cantava già negli anni 30? Aiuto!… mi pare fossero i ’60 e ’70… anche se.. aldilà di ciò, negli anni 30 in Egitto c’era già Umm Koulthum (uso la grafia …. diciamo irachena, visto che chi me ne ha parlato e me l’ha fatta sentire per la prima volta viene da lì)…
Mah… Suri… quello che dici riguardo all’uso dell’aggettivo “normale”…. è da prendere in seria considerazione, però non è che non si capisca quello che voleva dire Lia. Io l’ho capito, o perlomeno sono convinta di avere capito che per normalità, in quello che scrive Lia si intende significare una società, quella irachena, che prima di questo ultimo ventennio aveva trovato un suo modus vivendi, una sua evoluzione verso modelli che tenessero conto e della tradizione, e dell’evoluzione della tradizione stessa. Per esempio, non più tardi di una settimana fa, io ed il mio “iniziatore” iracheno parlavamo dell’assurdo scempio che ogni anno si compie a danno del patrimonio faunistico ovino, in occasione della Pasqua come in occasione della Festa islamica del Sacrificio, e di come sarebbe, forse, molto più opportuno cercare di adeguare certe tradizioni al naturale evolversi delle società, e di come, nella fattispecie, forse sarebbe più opportuno destinare gli stessi soldi occorrenti all’acquisto e alla macellazione di un così esagerato numero di capi ovini ad una (diciamo così)”zaqat supplementare”, per coloro che veramente sono bisognosi di assistenza e che vivono nell’indigenza, anzichè continuare con la macellazione indiscriminata per poi produrre tanto di quello scatolame che presto o tardi è comunque destinato a diventare merce scaduta e deperibile. Così dicasi, comunque, di usi e costumi tuttora vigenti nelle nostre società e che andrebbero tassativamente ed immediatamennte superati ed aboliti, poichè certe tradizioni sarebbe meglio rimanessero un ricordo dei tempi andati, o che perlomeno ci auguriamo che vadano! Definitivamente!… e e penso alla Corrida, o alle varie Vie Crucis con tanto di impiccati che da simulati diventano, ahimè, qualche volta reali. Il governo di Saddam Hussein, per esempio, aveva proibito gli eccessi che si verificvano durante le processioni delle festività della comunità sciita, con tanto di flagellanti che martoriavano le loro carni fino all’osso. Cose che ultimamete sono tornate a rivivere nelle cronache dell’Iraq di oggi. Forse non fu legittimo proibirle, ma a me pare che in nome della tradizione e della democrazia sia veramente alto il prezzo pagato con il ripristino di tali pratiche per me assurde. Ripeto… poi magari alla gente va bene così… ma ti sembra poi così assurdo cercare di rivedere il concetto che ogni società dovrebbe avere di se stessa e della propria “normalità” od attualità? E’ proprio così difficile ristabilire certi parametri e principi delle proprie tradizioni senza farsi influenzare da nessuna pressione che non venga dalla stessa società civile? E’ l’importazione tout court del modello occidentale imposto dal di fuori che va senza dubbio criticato, ma non certo un auspicabile cammino verso una possibile modernizzazione che tenga nel dovuto rispetto i canoni fondamentali (non fondamentalisti nel senso deteriore del termine) e basilari, come ultimamente ho sentito auspicare da illustri imam vicini addirittura ai fratelli musulmani!…
Con simpatia, qarmida
Suri: come già ti ha fatto notare Qarmida, ti confondi.
E non è un errore da poco, associare Fairouz al colonialismo e dipingerla come una che canta senza veli.
Permettimi di segnalarti questo mio post, su di lei:
http://www.ilcircolo.net/lia/000568.php
che a sua volta parla di questo (gran bel) film che forse ti illustrerà meglio il discorso che cercavo di fare e che ti esorto a esplorare:
http://www.frif.com/new2004/much.html
Poi, una volta rimesso ordine nell’argomento, se vuoi ne riparliamo.
be’, rispondendo a una domanda forse retorica, che c’è tra i miei desideri? La pace, direi, quella delle battaglie giornaliere che non sono niente dinnanzi alle guerre vere e proprie. Ed è da un po’ che penso che gli stati canaglia, alla fine, vengano scelti tra i modelli evolutivi della cultura araba. Cioè quelli in grado di sovvertire l’asservimento alle 7 sorelle. E la domecrazia in Iraq si è risolta con un bel contratto definito nei minimi particolari sulle concessioni petrolifere. Non so, leggendo i commenti mi ci sono un po’ perso, però Suri mi fa pensare a una cosa, alla fierezza. Il mondo occidentale forse ne
ha sempre posseduto una versione che si basa più sull’apparenza che sulla sostanza. Quello arabo? boh?
Parlando di scrittura certo sono portato più a fidarmi di chi poco svolazza tra stelle cieli e deserti e cerca sempre di mantenere l’obiettivo focalizzato sulla sostanza. Parlando di fierezza, be’, parafraso un po’ il mitico Albert, dovrebbe essercene una di fierezza, quella umana
pero’, se dalle nostre parti uno dichiara di apprezzare Donatella Rettore, tutto ‘sto casino solitamente non succede.
Fairouz, mi pare che sia una cantante libanese, se non ricordo male.
Qualcosa di suo ho scaricato da internet, sarà anche bravissima, però il genere musicale medio-orientale non è il mio preferito.
Mi piacerebbe tanto trovare il film-documentario su cui hai scritto… Ho scoperto di Fairouz proprio in un breve soggiorno a Beirut, e l’amore di tutti-tutti per questa cantante e’ proprio commovente.
(comunque ho riso molto pensando a Fairouz che canta Il cobra non èèè un serpente, grazie acidosignore!)
Io credo che il problema sia distinguere la realtà dall’immaginario.
La realtà, nei paesi mediorientali come qua da noi, non è mai univoca, in bianco e nero, lineare; è piena di contraddizioni e di mille sfumature, è flessibile e in continua evoluzione. la modernità consiste nel fatto di avere identità molteplici e sguardi molteplici, a volte conflittuali. i paesi arabi hanno una pluralità di lingue, di culture, di tradizioni, a volte di religioni; in uno stesso paese (ad es. iraq, o egitto, o tunisia) coesistono mentalità rurali premoderne e stili di vita occidentalizzati, e tutte le mille gradazioni “contaminate” che stanno in mezzo a questi due estremi. a volte i linguaggi della modernità sono utilizzati per veicolare un messaggio antimoderno: vedi i videoclip dei kamikaze diffusi tramite dvd piratati. a volte linguaggi premoderni sono utilizzati per adeguarsi al presente: vedi il neo-islamismo “moderato” di ritorno, (tipo amr khaled) che rielabora il discorso religioso per creare un nuovo modello culturale di islam. tutto è mescolato, tutto si contamina.
L’immaginario invece è quella parte di realtà che noi estrapoliamo dal tutto perchè è quella che a noi fa più piacere vedere, che sostiene il nostro discorso, che conferma le nostre ideolgie/teorie, che ci rassicura. perciò l’immaginario tende ad essere univoco, monocolore, e riduttivo. è come un fermo immagine che coglie, di tutta l realtà in movimento, solo il frammento che interessa a noi. e spesso rispecchia lo sguardo di chi l’immaginario lo crea. Ad esempio, nell’immaginario di magdi allam il medioriente è un luogo astorico, ageografico, popolato da fanatici potenziali kamikaze sempre in procinto di nuovi attentati, di donne sempre e comunque vittime sottomesse, di una religione onnipresente e che ingloba ogni cosa. nell’immaginario dei fondamentalisti, il medioriente è sempre astorico, ageografico, popolato solo da masse oppresse dalla tirannia di governi empi e venduti agli stranieri, da vittime e martiri (che vanno vendicati) provocate delle invasioni degli “infedeli”, da donne o sante-sottomesse o degenerate che hanno perso la retta via. come ha scritto l’intellettuale libanese Samir Kassir (http://www.samirkassir.net/) nel libro “l’infelicità araba”, c’è la tendenza-da parte sia dei filo-usa che dei filo-resistenza- a fare della palestina e dell’iraq “tutto un jihad”, ad trasformare queste realtà in un immaginario schematico e riproducibile all’infinito. la coca-cola, mc donald e certi format tv (come quello citato nel post) hanno come caratteristica principale quella di essere uguali in tutto il mondo, e simboleggiano una modernità intesa come libertà di aderire ad uno stile di vita standardizzato e “made in USA”. il jihad mondiale di certi integralisti è come la coca-cola: propone un modello standardizzato di mondo arabo e di islam “made in Saudi arabia”, riproducibile da Città del Capo a Kuala Lumpur con gli stessi identici linguaggi.
A chi aderisce a questi immaginari non interessa la vita “normale” degli arabi, quella che non può essere politicizzata o strumentalizzata per demonizzare l’avversario o usata per provare una teoria. In questi immaginari, gli arabi/musulmani non ascoltano canzonette, non fanno l’amore, non hanno dubbi, non sono frivoli nè dotati di autoironia. Mi pare che il pregio dei post di lia, soprattutto quelli sull’egitto, sia proprio il restituire la complessità di un mondo invece di ridurlo ad un immaginario ad uso e consumo di una teoria. Se mai le si può rinfacciare di avere uno sguardo a volte un po’ malinconico, che rievoca il passato in maniera nostalgica (ma guardando il presente, non ha tutti i torti).
per qarmida: durante muharram, gli sciiti vestono a lutto, vanno in processione, leggono e recitano inni religiosi, pregano, piangono, riflettono, si battono il petto con le mani, commemorano e tramandano la loro tradizione. In alcuni casi-ampiamente ripresi dai media anti-sciiti, la pratica è degenerata in autoflagellazioni sanguinose ed esibizionismi vari. queste pratiche sono condannate da tutte le autorità sciite serie, che proibiscono l’autolesionismo e invece esortano i fedeli a donare il sangue per commemorare ashura. Saddam non ha certo vietato queste pratiche perchè le considerava barbare-in quel caso avrebbe potuto fare un discorso culturale di adattarle ai tempi, ma le ha vietate come tutto ciò che era espressione della specificità religiosa sciita, che lui reprimeva perchè ne temeva le spinte autonomiste (come per i kurdi). ovviamente la repressione brutale crea solo risentimento e ripiegamento identitario, e perciò in iraq ora sono di moda le pulizie etniche e quelle pratiche estreme di autoflagellazione che tu citavi.
mmmm…
come spesso accade in una comunicazione “internettiana”, il fraintendimento è cosa facile.
Qarmida: ammettiamo che io non sappia in che epoca abbia vissuto Feiruz, ammettiamo che io non conosca le sue canzoni, la sua storia e la sua influenza sul mondo arabo (anche se le sue melodie riecheggiano in memorie che sfumano nel nebuloso limbo della mia infanzia), ammettiamo che io parli senza conoscere, del tutto, Feiruz, e che l’errore temporale sia frutto di una mia ignoranza anzichè della spensierata stesura di un commento cibernetico.
Ammettiamo tutto questo.
Dunque, facciamo una cosa.
Prendiamo Feiruz, gli anni 30 e il colonialismo, impacchettiamoli, e gettiamoli un attimo nel cestino.
Fatto? Bene.
Torniamo adesso a parlare di ciò che è il fulcro del mio discorso. E di quello di Lia, immagino.
Io ho scritto quel commento per porgervi la mia testimonianza in quanto persona MATERIALMENTE araba, che conosce (perchè cazzo, lo conosce) il suo popolo, con la sua storia, le sue tradizioni, la sua cultura e tutte le sue più intime correnti di pensiero. Fino a qua ci siamo tutti, sbaglio?
Ebbene, io so benissimo che non esiste una sorta di standardizzabile, incapsulata identità araba che possa essere somministrata a 400 milioni di arabi (e lo stesso vale per l’identità religiosa per un miliardo e mezzo di umani). Ovvio. Logico. Palese.
So benissimo che all’interno del mondo arabo ci sono migliaia e migliaia di tradizioni, folclori ed espressioni raffinate di una cultura totipotente.
Ma così come so che esiste tale evidenza, (che, per la cronaca, io amo in quanto diversità=ricchezza), so anche che nel profondo dell’arabismo, inteso di identità, c’è una SPESSISSIMA base culturale che non può in alcun modo essere rimossa, e che consiste più o meno in quello che ho descritto, e che qualcuno ha definito “svolazzare del pensiero”.
Dunque, per quanto mi riguarda, il dialogo, la dinamicità e l’adattabilità sono fattori essenziali per la continuazione e lo sviluppo di una società. MA SENZA DILUIRE LE PROPRIE IDENTITA’ (fate caso che ho scritto diluire, e non mescolare).
E il mio concetto è semplice quanto ovvio: l’attaccamento all’identità di cui parlo non è assolutamente da vedere sotto la prospettiva dell’etnocentrismo, del “noi” culturale o della superiorità del proprio popolo. No. E’ quel tipo di attaccamento che propelle verso un utile e fruttuoso dialogo: conoscendo le nostre basi culturali possiamo dialogare meglio col nostro interlocutore, porgendogli le nostre conoscenze ed aspettandosi una risposta altrettanto generosa che possa arricchire la nostra visione.
Ed è per questo che, per quanto mi riguarda, e, dicendovelo sinceramente, per quanto riguarda tutti gli altri arabi con i quali ho parlato su questo tema (non rappresento nessuno sia chiaro), posso accettare, anzi, accetto a braccia aperte la DINAMICITA’ culturale.
Ma, attenzione, io (insieme a tutti gli altri) non accetto che tale dinamicità venga confusa definendola “sviluppo verso la normalità”. Mi spiego meglio.
La cultura araba, per quanto Lia possa definirla utopica o impalpabile, esiste. Esiste eccome. E non è becera, non è barbara, non è retrò.
Esiste un processo di modernizzazione, di dinamico adattamento a ciò che la globalizzazione e la tecnologia ha apportato in materia di pensiero.
Esistono entrambe queste cose. Perchè definire, mi chiedo, la seconda delle due “normalità” e la prima “arretratezza”? Perchè la seconda deve essere “migliore” della prima? Perchè dovrebbe essere perseguita la “modernizzazione” seguendo l’equazione del moderno=migliore?
Ecco, io questo discorso non lo accetto.
Ma non voglio convincervi: parlare in un blog è tanto infruttuoso quanto una partita a scacchi giocata a mosse speculari.
Vi lascio indagare su quale sia per voi la migliore società araba, in quanto, si intende, la conoscete meglio degli arabi stessi (siete “normali” anche voi, giusto). Disquisite pure in mia assenza, per quanto mi riguarda, parlarne qui è una perdita di tempo.
Ah, Lia, l'”errore non da poco”, sappilo, lo fai tu, se presumi di conoscere cosa trasmettono le parabole sui tetti arabi meglio di quanto lo conosca io, che un tetto arabo, a Damasco, ce l’ho.
Dai, adesso vi lascio in pasto il mio silenzio. Statt’ bbuon.
Suri.
Fraintendimenti, Suri.
Ti sei messo in testa che per me la “normalità” araba sia la globalizzazione, ed io posso solo allargare le braccia e proporti di fare un giro sul mio blog, al di là di questo post.
A me pare ovvio che, parlando di normalità, mi riferissi al fatto che la gente si vuole svagare. E che lo fa con metodi comuni a mezzo mondo, piccoli, se vuoi popolari ma che hanno una loro importanza nella quotidianità delle persone.
E che esistono, da sempre.
Il fatto che tu ne deduca che io neghi o addirittura disprezzi l’esistenza di una cultura araba (certo che me ne succedono, di cose strane), mi pare la prova di quanto certi steccati preconcetti ci facciano reagire a degli stimoli, più che a dei discorsi. Perché tu hai reagito a una tua percezione di ciò che io potevo avere scritto (al discorso che in genere ti aspetti di trovare in giro, probabilmente) e non a quello che ho scritto io.
E, infatti, fraintendi completamente.
Non faccio discorsi di modernità o arretratezza, se non per dire che la guerra occidentale in MO è una guerra allo sviluppo, innanzitutto. Lo dimostra l’attacco al Libano. Lo dimostra la pauperizzazione della Palestina. E così via.
Ma non è su questo blog che troverai giudizi di valore del tipo tv=buono, velo=nobbuono.
Mi sono sgolata per anni a dipingere il velo come un fenomeno assolutamente moderno, in MO. Figurati.
La quotidianità è fatta di entrambi, ovviamente, e di molto di più.
Ideologizzarla, come dice molto bene Salaam, vuol dire svilirla.
Quanto a Fairouz: durante la guerra in Libano era ascoltata e amata da tutte le parti coinvolte nel conflitto: sunniti, sciiti, cristiani, palestinesi e via elencando. Per questo ti ho detto che non era un fraintendimento da poco. Perché c’entra col discorso che facevo io, e non c’entra con il colonialismo europeo.
E’ il punto su cui non ci capiamo, quindi.
Penso che l’unica possibilità di convivenza pacifica e civile risieda nello sradicamento delle influenze religiose dalla politica degli stati. Nel 2007 la religione(qualsiasi indistintamente) legata al concetto di guida per l’uomo è pericolosa.
L’uomo è già riuscito a superare la scomparsa della alchimia…
Certe volte che non funzioni la posta elettronica può essere un bene. Così uno ha il tempo, magari, di rileggersi certe cose con calma e digerirle, che vorrebbe dire com_prenderle.
Se mi passi la metafora culinaria, a me non dispiace il cous-cous (soprattutto uno col pesce che mi ha fatto assaggiare una volta una simpatica signora, credo, del Ciad o dintorni). Ma il mio palato “adora” la pasta e fagioli e il baccalà mantecato. Il risotto e il salame di montagna. Credo che parta da lì, per proseguire negli altri ambiti, la mia identità. E se non amo la cucina cinese è, forse, che la soja proprio non mi va. Ma quando in Paolo Sarpi scoppia il casino, giuro, non mi viene in mente che sono cinesi: mi viene in mente cos’è che a monte (come si diceva una volta) ha provocato tutto ciò, e non è sicuramente la soja.
E per il velo (per me il fazzoletto) mia nonna, mia madre e tutte le donne che io ricordi nell’infanzia lo portavano. E non era l’ottocento.
Grazie,come sempre, Lia.
“Sinceramente non credo che la guerra all’Iraq sia la prova del timore occidentale di un mondo arabo “moderno e competitivo”: se avessimo di questi timori allora dovremmo “distruggere” anche paesi come il Giappone, la Cina, l’India…”
Ocio, che stamattina abbiamo iniziato con la Cina, intanto. E dateci tempo….
(scherzo, per carità..)
Mi sa che chi non mi conosce mi percepisce come una saputella antipatica….Suri!… io ti ho capito, però ho capito pure cosa voleva dire Lia.
Che poi infondo… si tratava solo di ribadire che in Iraq (perlomeno lì se non altrove) ancora qualche giorno prima della guerra era considerato normale scandire le proprie giornate al suono delle canzonette, anche occidentali, mentre sai… magari in tempo di guerra… uno pensa ad altro e le canzonette… mbeh… forse tornano insieme al normale trend di vita di prima di una guerra. Sai, si portavano i jeans ed i capelli lunghi in Iraq fino alla metà degli anni 80, età fino alla quale il mio “iniziatore” vi ha vissuto ed ha constatato di persona. Poi se dal tuo e dal mio commento e bda quelli di altri è nato uno spunto per discutere, al solito, di cosa è o non è da considerarsi normale nei paesi arabi… mbeh… benvenga un dibattito, no? Però, dai… mica ti sarai risentito, vero?
Ciao da qarmida