Qui a Genova fa un freddo di pazzi e ciò non era assolutamente nei patti.
Mi ritengo ingannata e medito un esposto presso il locale ufficio del turismo.
Intanto, inauguro dei portentosi calzerotti azzurro cielo che sembra di girare per casa coi moon-boot e sto valutando se indossare una sciarpa sopra la gallabeya che è sopra i pantaloni che è sotto la felpa mentre il tutto è sotto il piumone e mi scaldo col motore del portatile sulla pancia che sostituisce la borsa dell’acqua calda d’antan.
Sì, uno scialletto è quel che ci vuole.
Se avessi un maggiordomo mi farei anche portare il tè.
Non avendolo, tocca fare serenamente senza.
Del tè, dico.
Del maggiordomo, dispiace un po’.
Fa un freddo di pazzi, dicevo, quindi qui siamo prossime al letargo.
Come è giusto.
E torno a casa da scuola e sprofondo in intensi pisoli che mi piacerebbe anche limitare, qui e là, ché una avrebbe di meglio da fare che passare le giornate a impersonare l’anello mancante tra la donna e il ghiro, ma è che ci si mette pure il fato a darmi ottimi motivi per dormire di giorno, oltre che nelle ore convenzionalmente dedicate al sonno, e per esempio stanotte mi sono ritrovata mio malgrado in una di queste complicate albe ad alto tasso alcoolico del centro storico genovese, anche se dormivo felice nel mio letto e l’alto tasso alcoolico non era il mio.
Perché alle 4,45 del mattino mi è parso di udire il citofono, e poi ho pensato: “Ma va’, sarà un incubo, effetto dei Bucaneve di cui sono strafogata prima di addormentarmi sul saggio di politica basca, chi vuoi che suoni al mio citofono alle 4,45 di notte?”
E driiiin, invece.
“E se fosse un malfattore?”, ho pensato perplessa.
“Io non rispondo”, ho deciso, abbozzando un’espressione astuta.
E driiiiiiin ancora, invece. Una citofonata da fare tremare la casa.
L’espressione astuta è stata sostituita da un’espressione imbufalita, quindi, e sono andata a vedere chi era il folle che mi svegliava a quell’ora.
Era una tizia: “”Mi può aprire? Devo entrare da un amico”, mi fa.
Alle 5 del mattino.
Ed io le scaravento il citofono sul muso con tanto di imprecazione, ovvio, e me ne torno a letto determinata a riaddormentarmi subito alla faccia della pazza e con l’istinto da prof che emerge pure a quell’ora, ché penso che se le aprissi diventerei il punto di riferimento degli scoppiati del centro storico, tipo “la simpatica vicina che ti apre anche alle 5 del mattino se bussi da lei” e invece il mondo deve imparare che io non vado svegliata, mai, per nessun motivo.
E mi metto il cuscino sulla testa e mi ordino di dormire.
Drriiiiiiiiin.
E poi ancora.
E ancora.
Mi rialzo: “Roaaaarrrrrrr!!! Ma sei ancora tu????”
“Mi può aprire, per favore? Devo entrare da un amico”. Serena, lei.
Ed io furibonda: “Tu prova a ribussare da me e prima ti butto in testa l’olio bollente, poi chiamo la polizia e infine scendo a spaccarti la faccia. Mozzati le mani, che è meglio.”
“Fanculo….”, borbotta lei, ed io torno a letto con l’adrenalina che fuoriesce da ogni capello.
E non bussa più, la tizia.
E io provo a dormire, poi mi rigiro, poi mi sembra di risentire quel “‘fanculo” emesso da una voce femminile e, invece di addormentarmi, comincio a calcolare quanto freddo deve fare in strada, e se poi è pericoloso, e chissà come fa una donna sola nei vicoli a quell’ora di notte e di mercoledì, per giunta, ché almeno fosse sabato sarebbe in compagnia, e mi sento sempre più in colpa e altro che dormire, mentre cerco di ricordare quali locali potrebbero dare asilo a ‘sta deficiente sbronza, visto che io non le ho aperto.
“Le apro?”, mi chiedo.
E la prof che è in me: “No. Sennò questi nottambuli del palazzo non me li schiodo più. E poi sta bussando a tutti, dai, sarò mica io la responsabile delle cazzate di una simile imbecille.”
E l’ex adolescente che è in me: “Sì, ma pensa a quando eri ragazzina tu, ché quante volte ti sarà capitato di risolvere guai grazie agli attacchi di santità degli sconosciuti. Quella magari muore di freddo, là in strada. O trova un malfattore. La violentano. La derubano. La uccidono.”
Vabbe’, chi dormiva più.
E quindi mi sono rialzata e ho ripreso il citofono: “Ehi! Sei ancora lì?”
No, non c’era.
“Yuhuuuu!! Tizia!!! Se sei lì rispondi, dai. Forse ti apro.”
Niente.
Non c’era.
Ed io lì, a immaginarmela sola nella notte, sconsolata e tremante di freddo ad aggirarsi senza meta seguita da orde di assassini.
Per colpa mia.
Mi sono riaddormentata un’ora dopo, sentendomi un mostro.
L’ultimo pensiero deve essere stato: “Magari avviso la polizia, che c’è una tizia senza casa con questo freddo, poverina”, e poi zzzzzz.
Mezz’ora dopo, la sveglia. Ovvio.
Poi, come dicevo, una la compensa di giorno, quest’intensa vita notturna che riesce ad avere senza muoversi di casa, e oggi avrei dovuto andare al cinema e fare tante belle cose e invece mi sono appena svegliata e scrivo in attesa di riaddormentarmi ancora, ma è che dormire è bellissimo e d’inverno ancora di più e, anzi, non riesco a pensare a metodo migliore per sopravvivere a queste difficili circostanze atmosferiche di fine novembre e accarezzo persino l’idea di comprarmi una papalina, ché mi dispiacerebbe tanto se la punta delle orecchie mi si dovesse infreddolire, emergendo per errore dal mio amichevole piumone.
Povera punta delle orecchie, anch’essa meritevole di cure e calore.
Detto questo, è giusto che si sappia che, nonostante i citofonatori notturni, trascorrere l’inverno nel centro storico di Genova è un’ottima idea, e basta incappare in una di queste giornate di vento a raffiche e pioggia, per accorgersene: non appena riesci a lasciarti gli spazi aperti alle spalle e ti infili nel primo vicolo, ti senti come una che lo ha lasciato chiuso fuori, il vento, e ti accendi una sigaretta senza nemmeno dovere riparare l’accendino con la mano e sorridi soddisfatta, ché in questa grande panciona materna che è il quartiere in cui vivo non c’è vento che tenga, sei al sicuro.
C’è un ‘fuori’ e un ‘dentro’, a Genova.
Ed è quasi violento sbucare dai vicoli per ritrovarsi nella città normale, la mattina, con quell’abbagliante piazza De Ferrari che inforcheresti gli occhiali da sole, per guardarla, e tutta quell’aria e quello spazio ed essere alla mercè di tutto quel gelo quando si sta così bene a due metri da lì, nei meandri panciosi e ovattati dei caruggi, e che bisogno ci sarà mai di farsi partorire fuori ogni mattina, pensi, ché non c’è posto migliore di una pancia, per rintanarsi quando il mondo ti vorrebbe far fare fatica, e di città dotate di pancia non è che ce ne siano tantissime, dopotutto.
Ho decisamente avuto occhio, a beccare questa.
Progetto di regredire felicemente allo stato di feto, almeno fino a primavera.
Già non è che mi entusiasmasse più di tanto l’idea di essere dovuto emigrare. Ma tu adesso mi fai sentire proprio un pirla…
umpf
Uggessù, e perché?
(Ma sarai mica zeneize…??)
Bellissimo post. E i pensieri notturni post sveglia brutale (le apro? non le apro?) li capisco perfettamente. Anche in me albergano una prof e una sgallettata, ma la prof spesso prevale.
Questa cosa di Genova e del vento – e del ventre – è vera. Mentre ero lì faceva freddo e c’era un vento esagerato, ma poi se ti infilavi in una stradina del budello il vento cessava di colpo e c’era un calore tiepido e accogliente che sorprende come una carezza improvvisa, ma sempre benevola e benvenuta.
Aahahahahaahah. Bellissimo post.
Circa 15/20 anni fa, suonò alla porta l’inquilina del piano di sotto, per ricordarmi di non usare il bagno perchè la macchia sul soffitto si stava spandendo.
Con l’occasione mi chiese quando sarebbero arrivati i pittori in casa sua.
Io ero in trans, completamente avvolto nelle nebbie del sonno; gli risposi che non c’erano problemi, che l’idraulico era già intervenuto, che i muratori avevano trasformato il mio bagno in un cumulo di macerie e che poteva stare tranquilla per i lavori. Se ne ritornò a casa sua.
Poi, dopo qualche istante, cominciai a riflettere sulla situazione, e notando che era tutto buio intorno a me, guardai istintivamente la sveglietta, ERANO LE 4 e 40 DEL MATTINO!
Ancora me lo ricordo.
No, sono romano. Ma ho un feeling particolare con quel ‘ventre’ genovese di cui parli. Capirai, il confronto con questo posto del cavolo dove non solo piove sempre, ma non c’è nemmeno una collinetta piccola piccola dietro cui ripararsi (l’inghilterra è un’oscena quanto monotona pianura) e dove il concetto di ‘vicolo’ semplicemente non esiste, è sconvolgente.
aggiungo che qui un pacchetto di sigarette costa quasi 9 euro…sono o no un pirla?
Capisco. Mi capitò di vivere per un anno a Margate, quando ero ragazzetta (a Cliftonville, per la precisione) e conobbi il significato della parola ‘nostalgia’, tutto intero. In altri paesi non mi è mai successo. :)
E ricordo soprattutto il vento, in effetti. Dritto dal mare del Nord, senza nessuna possibilità di sfuggirgli.
Con le palafitte sulla spiaggia gelida e, sulle palafitte, il Bingo.
Avevo una bicicletta, e la dipinsi coi colori della bandiera italiana, pensa te.
Però avevo 15 anni, dai.
(E non vendevano i limoni veri, vendevano quelli di plastica col succo dentro. Dal fruttivendolo, nelle ceste…Mamma mia. Suppongo che non sia più così, ormai.)
Quelle palafitte tristissime le ho viste anche io sulle spiagge dell’Essex. Ci sono sempre, anche se il bingo è stato rimpiazzato dalle slot machines. La frutta, per fortuna, hanno imparato a comprarla nei posti dove la frutta stessa è ben felice di crescere. E indovina un pò, viene tutta dalla Spagna e dall’Italia.