Un paese intero non occupa le strade per 11 giorni di fila se non è mosso da una bisogno, da una spinta che va molto al di là delle pur fondamentali necessità contingenti, quelle innescate dalla crisi economica e da una mancanza di libertà a cui, comunque, l’Egitto sottostava da 30 anni. Se così non fosse, avremmo in piazza tre quarti del pianeta.
Un paese, credo, occupa le strade e mette se stesso in gioco, rischiando tutto, quando sente il bisogno di ridefinire radicalmente la propria identità, di ridisegnare la percezione, propria e altrui, di ciò che si è. Non sarà quindi solo l’Egitto inteso come entità politica a uscire cambiato dagli eventi a cui stiamo assistendo. Saranno le persone, sarà la società, saranno i milioni di individui che, uno per uno, hanno preso una posizione di fronte a se stessi e alla propria gente e hanno dimostrato, mettendoci la faccia e la firma, da che parte stavano. Se con la stagnazione e la rassegnazione o se, per la prima volta, con la possibilità concreta di essere artefici del proprio destino.
Il futuro non sarà facile per gli egiziani. Ammesso e non concesso che questa rivolta moltitudinaria e – sottolineamolo ancora – pacifica non finisca nell’incubo della repressione dello Stato, i problemi futuri da affrontare saranno immensi. Quello che tuttavia appare chiaro è che non siamo di fronte a una società che, dal futuro, si lasci spaventare. Il fatto di essere un popolo la cui età media è di 24 anni vuol dire qualcosa.
Il comportamento quotidiano dei milioni di uomini e donne che vediamo in piazza sembra la rappresentazione del modello di società futura che questi ragazzi hanno in mente: la gente che pulisce personalmente le strade, la fratellanza tra i diversi gruppi religiosi, le collette organizzate per distribuire cibo e giornali, le donne protagoniste e presenti. Sembra retorica eppure è lì, sotto i nostri occhi. Un’esplosione di voglia di “fare bene” che arriva all’anima di chiunque abbia mezza coscienza al posto giusto, e non mi stupisce sapere di colleghi che hanno passato i primi giorni della rivolta a piangere, letteralmente, di commozione e di emozione. Si è liberata una forza che c’è sempre stata, negli individui, e che non era riuscita fino ad ora a diventare forza sociale, motore di un cambiamento.
Nessuno può dire, oggi, cosa ne sarà di tutto questo domani. Possiamo cercare di guardare cosa è già successo, però. Mi hanno segnalato dal Cairo, per esempio, un articolo di una corrispondente spagnola dicendomi: “Corrisponde in tutto e per tutto alla nostra percezione“. L’articolo spiega, in sintesi, che l’enorme partecipazione femminile alle proteste ha rotto barriere culturali e ha segnato un enorme passo avanti nell’affermazione dei loro diritti. Comunque finisca, le donne egiziane si sono guadagnate il rispetto e l’ammirazione di tutti. E’ una cosa che, in futuro, si farà sentire.
Un altro punto fermo è la riaffermazione dell’unità tra cristiani e musulmani, che ha resistito e continua a resistere a prove durissime. Per quanto le due comunità siano, entrambe, molto meno monolitiche di come si tenda a vederle dall’esterno, e per quanto la comunità cristiana in particolare abbia al suo interno una grande componente che ha appoggiato e appoggia Mubarak in quanto repressore dei Fratelli Musulmani, quello che abbiamo sotto gli occhi è l’unione – e, soprattutto, la volontà di unione – dei musulmani e dei cristiani normali, dei semplici cittadini.
Non hanno cominciato oggi. Già il 7 gennaio scorso migliaia di musulmani, cittadini normali e volti noti, erano scesi in strada per fare da scudi umani attorno alle chiese dove i cristiani celebravano il loro Natale, al grido di “O viviamo assieme o moriamo assieme“. I cristiani hanno, a loro volta, protetto la preghiera dei musulmani venerdì 28 gennaio, prima della manifestazione che inaugurò il blackout informatico del paese, e in ripetute occasioni da allora. E oggi tocca di nuovo ai cristiani: c’è la messa a Tahrir e cominciano a circolare immagini, come quella qui sopra, dei preti e degli imam fianco a fianco.
Assistiamo, dicevo, all’idea di società che gli egiziani hanno in mente.
Davanti a tutto questo, le velate minacce, sinistre e inquietanti, che il ministro degli Interni del nuovo governo di Mubarak rivolge al Premio Nobel e oppositore del regime El Baradei:
Le autorità egiziane non hanno arrestato nessuno dei giovani che hanno lasciato piazza Tahrir. Se alcuni sono incappati in qualche retata è perché devono avere visitato un personaggio che ci ha molto irritato in questo periodo e che, al momento, è sorvegliato dalle forze di sicurezza.
Ecco: questo è il governo contro cui stanno manifestando gli egiziani, e questo è ciò che temono che accada nel momento in cui dovessero lasciare la piazza fidandosi della parola di un Mubarak che dice che farà elezioni tra 7 mesi. L’avverarsi delle minacce di un governo senza più i riflettori mondiali puntati addosso, con le mani libere.
Per la comunità internazionale, decidere da che parte stare è un imperativo morale. E una politica priva di morale, mi sembra chiaro, non la si può imporre a un paese che sta dimostrando ciò che che sta dimostrando l’Egitto. Non senza condannarne a morte a migliaia, dei ragazzi egiziani che sono lì.
(Qui, un link – da leggere, tutto – a una giovane blogger: “I was not brave, I was protected!“)