L’Avana è post-atomica, di una povertà priva del riscatto almeno apparente delle merci, delle botteghe, dei carretti, delle pubblicità dell’Africa che era, fino ad oggi, il mio termine di comparazione di ogni povertà. All’Avana i negozi sono vuoti, i bar sono le finestre di una casa al pianterreno da cui una mano ti porge un caffè, la frutta si vende in certi spiazzi di terra battuta e sono banane, guayabe, poca cosa. Papaye. Anzi, “fruta bomba”, come la chiamano qua, ché mi pare di capire che ‘papaya’ sia il termine riservato alla vagina, qui a Cuba, e chiedere: “Tiene papaya?” a un nerboruto fruttivendolo non deve essere una buona idea.

All’Avana non c’è pubblicità. “Non c’è niente da vendere”, mi ha detto il taxista quando me ne sono accorta e l’ho esclamato, meravigliata. Ci sono cartelloni patriottici, invece, e frasi motivazionali sulla rivoluzione e tante bandiere e tante immagini del Che. L’università ne è piena e, a guardarla con occhi italiani, sembrerebbe una facoltà okkupata, quella in cui mi aggiro, e invece qui il ritratto di Che Guevara è istituzionale, è normale che ci sia. Un crocefisso laico, un Giorgio Napolitano molto, molto più bello. E mi mandano dal “compañero” Néstor, dalla “compañera” Pepa e a me pare strano usare il termine a mia volta e chiedo del “signor” Néstor e della “signora” Pepa ma poi, quando più tardi qualcuno in autobus mi chiama: “Ehi, compañera”, io mi giro, quasi disinvolta, forse anche un po’ lusingata.

Abito in calle Soledad ma, volendo, la si può anche chiamare Sgarrupata Street. E’ tra una farmacia che pare vuota e un negozio in cui non pare che si venda nulla, di fronte alla bottega di un artigiano che fabbrica pupazzi fatti con le pagine del Granma e li infila in certi bidet esposti fuori. “Por amor al arte”, c’è scritto sull’insegna. E’ in Centro Habana e, no, non è dove un turista vorrebbe abitare, ma è vicino all’università ed io non sono una turista, e comunque ho il Malecón a pochi passi che mi pare via Caracciolo, a Napoli. Una via Caracciolo post-atomica.

Calle Soledad fa onore al suo nome all’interno della casa, di cui io sono la prima inquilina. E’ al pianterreno, dipinta di fresco in azzurro pastello, con i soffitti altissimi e un corridoio infinito, vuoto, che separa il soggiorno all’entrata dalla camera da letto. A metà corridoio ci sarebbe una cucina che contemplo con sospetto e in cui non sono ancora entrata, se non per mettere qualche bottiglia d’acqua in frigorifero. Il padrone della casa ha affrontato la burocrazia necessaria per affittarmela con fatica e spavento, trottando per due giorni da un ufficio all’altro e sudando sui moduli da compilare. Mi ha chiesto in che mese eravamo e gliel’ho detto: “Settembre, ma scriva 9”, e lui ha sorriso imbarazzato mormorando: “Soy un bruto, ya lo sé”, e poi l’ha fatto, me lo aspettavo e lo ha fatto: mi ha chiesto anche l’anno. “Sì, è il 2012.”

E’ il 2012 ma potrebbe essere il 1980, per quanto mi riguarda: l’accento cubano è lo stesso accento delle Canarie in cui sono cresciuta e dove ho imparato lo spagnolo, e il tuffo linguistico nel passato è spiazzante quanto l’effetto del fuso orario, le mie coordinate temporali sono confuse. E’ lo spagnolo che imparai da ragazzina, questo, almeno in apparenza. Cambiano le parole, qua e là, ma il ritmo, l’intonazione, sono quelli della mia adolescenza, mai più sentiti dopo, dimenticati dietro una vita intera di castigliano di Castiglia. E cerco di eliminare la Spagna dal mio spagnolo, dimentico il vosotros e torno all’ustedes, mi sorprendo a trascinare certe vocali e sorrido immaginando la faccia che farà mia figlia quando andrò a trovarla nella sua Castiglia del Nord dopo un simile bagno di terronaggine linguistica, farà finta di non conoscermi.

Finire in un posto lontano, estraneo, e capirne la lingua fin dal primo istante è portentoso. E’ come un regalo, è il privilegio che mi dà il mio mestiere e lo sperimento per la prima volta, non ero mai stata in Ispanoamerica. Lo avevo raccontato mille volte ai miei studenti, quanto era bello conoscere una lingua parlata da tanti popoli lontani gli uni dagli altri, ma non ero mai venuta a sperimentarlo di persona. Leggere il giornale, cogliere le conversazioni altrui, capire le indicazioni, chiedere il perché delle cose, confessarsi in difficoltà senza vergogna quando è il caso e lasciarsi aiutare. “Senta, aspetti un attimo, mi sono persa, dove diavolo è casa mia e, soprattutto, che percorso fa il taxi collettivo, dove lo vado a pescare?” Cose su cui in Egitto mi scervellavo da sola e qui posso domandare a chiunque, che autentico lusso.

E’ più facile dell’Egitto, Cuba, e non solo per motivi linguistici. Gli standard igienici sono di molto più simili ai nostri, il rischio-gaffe pare assai inferiore, le furbizie paiono, per il momento, più prevedibili. Ma, sotto molti aspetti, vivere qui non è tanto diverso dal vivere in Egitto. La doppia economia, per esempio. In Egitto non ci sono due monete come a Cuba, ma ci sono due prezzi – prezzi basici per la sopravvivenza e prezzi per stranieri o per uno standard oltre la sopravvivenza – e il risultato finale è che qui puoi attraversare mezza città su un taxi collettivo pagando 30 centesimi di euro – il trasporto è servizio pubblico – mentre una bottiglia di acqua minerale – roba da stranieri – la paghi quattro volte tanto. Niente di nuovo, tutto già visto: certo, in Egitto la birra è parecchio più cara dell’acqua mentre a Cuba sembra essere il contrario, ma ogni cultura ha i prodotti di sussistenza che crede, e ci mancherebbe.

La cultura, dicevamo: essere un’ispanista di Spagna fa di te, a Cuba, una perfetta ignorante dolorosamente consapevole della propria ignoranza. Chi diavolo sarà questo signore a cavallo sul suo monumento, chi è l’autore a me ignoto di questa fantastica frase, che diavolo avrà mai scritto ‘sto poeta citato qua sopra, ‘sto scrittore a cui sono dedicate tante piazze? Soprattutto: cosa diavolo aspettavo per leggere “La consagración de la primavera” di Alejo Carpentier, come ho potuto non leggerlo prima di adesso? Di quali meraviglie mi stavo privando, quante cose che mi serviva leggere non avevo ancora letto? Senti cosa racconta il grande scrittore cubano parlando della guerra civile spagnola, quanto è accogliente:

Después de tenerla muy olvidada – de verla en suntuoso pretérito de Lepantos y campos de Montiel -, España, la que sentíamos nuestra, la que nunca habíamos combatido realmente en América aunque echásemos de nuestras tierras a sus procónsules, esa España, muy tenida a menos desde hacía más de un siglo, volvió a hacerse carne de nuestra carne. Y, por ello, cuando empezaron los bombardeos sistemáticos de Madrid, cada obús nos retumbó en las entrañas.”

E io, nel mio piccolo, ringrazio e mi preparo a darmi da fare, a riprendere il filo di percorsi molto miei e, da anni, molto trascurati, a rispolverarmi un po’ di entrañas dimenticate, a vedere se riesco ancora a emozionarmi per qualcosa che non sia il Cairo, se riesco a essergli infedele, una buona volta. Non dico a voltare pagina, sarebbe ambizioso e pure inutile. Ma innamorarmi almeno un po’, sentire uno straccio di emozione per qualcosa che non sia l’Egitto, tornare a imparare, aprirmi.

Tornare a sentire qualcosa dopo tanto nulla.

Sono qui per ringiovanire, gente, e non c’è modo migliore che studiare, per farlo.