Ci pensavo stamattina.
Io ero in Egitto, quando gli americani bombardarono la fabbrica di medicinali in Sudan.
Ero appena arrivata dalla Giordania con Pupi e, in quei giorni, si sentivano gli aerei americani che sorvolavano il Sinai.
Te lo facevano notare: “Sentili, gli americani…”.
Una strana sensazione.
Eppure, allora, ero molto meno incazzata di oggi, più osservatrice che coinvolta.
Come ho detto altre volte, io non ho sviluppato il mio disgusto per la politica USA in base a una visione ideologica: mi è semplicemente capitato di vedere le cose dal punto di vista degli aggrediti.
Del tutto casualmente, per giunta.
E quindi eravamo lì, sentimmo gli aerei e, poi, la notizia in TV, di questa fabbrica sudanese distrutta a suon di bombe.
Era una fabbrica di armi chimiche, dicevano gli americani.
Gli egiziani (che pure non è che li amino molto, i sudanesi) davanti alle TV, le facce serie, la rabbia.
Ché qui parlano di ‘rabbia araba’ e ti mostrano le folle invasate. Sempre folle, ti fanno vedere. Come se il mondo arabo fosse fatto di folle, mai di individui. Io, invece, ricordo solo individui, la cassiera del supermercato che segue le notizie dal suo piccolo televisore, i ragazzi semisdraiati sulle sedie del bar, che guardano verso lo schermo e hanno la faccia tirata, lo sguardo cupo.
Addolorato.
Incazzato.
“Fabbrica di armi chimiche, dicono… ma che bastardi.”
Non so come dire: era proprio evidente, che lì non c’era nessun’arma chimica.
E’ il concetto stesso ad apparirti incongruente, visto da lì.
Pretestuoso.
Se sei lì, “lo sai” che, semplicemente, gli americani sorvolano un po’, bombardano un altro po’, ti fanno vedere quanto sono forti loro, quanto sei piccolo tu, e poi si vendono la loro balla all’Europa e in casa.
“Armi chimiche”, dunque.
Si prende anche la Rai, a Dahab, volendo.
E passano a venderti il Corriere di due giorni prima. Passa un ragazzino in bici. E qui toccammo con mano, io e Pupina 14enne, il nostro problemino occidentale di informazione.
Io non ci potevo credere: il Corriere pubblicava pensosi articoli di esperti mai stati in Sudan che discettavano su queste presunte armi chimiche.
Il mio quotidiano giordano, molto più semplicemente, pubblicava un’intervista dell’uomo (un giordano) che, quella fabbrica, l’aveva fisicamente progettata e costruita. E ti spiegava che era impossibile, lì, fabbricare ciò che gli americani andavano dicendo. C’era il progetto della fabbrica pubblicato sul Jordan Times, la pianta, la descrizione delle attrezzature…
E l’ingegnere che, oltretutto, si chiedeva: “Ma poi, se davvero gli americani avessero bombardato delle armi chimiche, perchè il terreno non è contaminato, dove sono i resti?”
Dovrei averlo ancora da qualche parte, quell’articolo.
Non so come dire: puro e semplice buon senso, nonchè conoscenza diretta.
Talmente semplice.
E invece no: da noi, a 3 ore d’aereo, sembrava che parlassero di Marte, di un luogo inaccessibile privo di ingegneri e persone sensate a cui richiedere un’opinione.
Da noi erano gli opinionisti, a decidere cosa diamine fosse stato bombardato.
A deciderlo in base alle affinità politiche, alle aspettative dei lettori, a chissà cosa.
Ho trovato questo link a Repubblica di allora:
www.repubblica.it/online/fatti/kenya/rappre/rappre.html
Ieri come oggi: da una parte, la fonte americana (indicata per prima, ovviamente), pacata e, si direbbe, documentatissima…secondo la Difesa di Washington, nascondeva una fabbrica di armi chimiche. “Dalla Shifa, che sorge nelle vicinanze della confluenza fra il Nilo Bianco ed il Nilo Azzurro, escono precursori chimici del gas nervino VX, un agente mortale utilizzabile a scopo militare”
Dall’altra, i sudanesi (le opinioni delle vittime messe dopo quelle dell’aggressore. Come se, per raccontare uno stupro, intervistassero prima lo stupratore e poi la vittima) che protestano con veemenza e in modo molto meno ‘tecnico’ e, immancabilmente: La televisione di Stato ha mostrato decine di giovani che scalavano il cancello al grido di “Allah è grande” e “Abbasso gli Usa”, mentre altri lanciavano sassi e pietre contro l’edificio centrale.
Risultato: quella era la maggiore fabbrica di medicine di tutto il Medio Oriente.
Gli Usa, dopo aver bloccato per anni ogni possibile inchiesta, si decisero infine “anche se senza clamore, ad ammettere che la fabbrica di al-Shiffa, vicino a Khartoum, colpita due anni fa durante la rappresaglia, non era una fabbrica di armi ma un impianto farmaceutico.”
Vedi sito dell’ambasciata del Sudan.
Altri risultati:
Un anno dopo l’attacco, “senza i farmaci salva-vita prodotti [dai macchinari ora distrutti], il numero dei morti dovuti al bombardamento del Sudan continua, silenziosamente, a crescere… Cosi, decine di migliaia di persone — molti di loro bambini — soffrono e muoiono di malaria, tubercolosi, ed altre malattie curabili… [La fabbrica] forniva medicinali a basso costo per gli esseri umani e tutti i medicinali veterinari localmente disponibili in Sudan. Produceva il 90 per cento dei principali prodotti farmaceutici del Sudan… Le sanzioni contro il Sudan rendono impossibile l’importazione di una adeguata quantita’ di medicinali necessaria a coprire il grave vuoto lasciato dalla distruzione della fabbrica….. [L]’azione intrapresa da Washington il 20 agosto 1998, continua a privare il popolo del Sudan dei farmaci necessari. Milioni si staranno chiedendo come la Corte Internazionale di Giustizia dell?Aja celebrera’ questo anniversario” (Jonathan Belke, Boston Globe, 22 agosto 1999).
“[L]a perdita di questa fabbrica e’ una tragedia per le comunita’ rurali che hanno bisogno di questi medicinali” (Tom Carnaffin, manager tecnico con “profonda conoscenza” della fabbrica distrutta, Ed Vulliamy ed altri, London Observer, 23 agosto 1998).
La fabbrica “forniva il 50 per cento dei medicinali del Sudan, e la sua distruzione ha lasciato il paese senza scorte di clorochina, il trattamento standard della malaria,” ma mesi piu’ tardi, il governo “labour” britannico rifiuto’ le richieste di “rifornimento per la clorochina come aiuto di emergenza per un tempo sufficiente a consentire i Sudanesi di ripristinare la loro produzione farmaceutica” (Patrick Wintour, Observer, 20 dicembre, 1998).