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“E’ mai esistita un’altra rivoluzione oltre la nostra che abbia avuto come obiettivo la commercializzazione di olive, vegetali e arance?”
Yasser Arafat

Nutro un’antica curiosità verso gli uomini che non si sanno spiegare.
Forse c’è anche questo, nel mio vivere in mezzo al popolo più incapace di spiegarsi che esista.
La vicenda umana di Arafat mi intriga e mi commuove, come quella di altri leader arabi che, al di là delle luci e delle ombre del loro operato, mi comunicano la sensazione di aver caricato sulle proprie spalle tutta la solitudine del mondo.
Nasser, Sadat, anche il vecchio Assad di Siria. C’è spesso un uomo solo contro il mondo, nella politica di questa regione.

La scelta politica di Arafat, in due parole: moderatismo nei fatti e massimalismo a parole.
Ma un leader che attraverso gli anni ha lentamente e inarrestabilmente guidato il suo movimento verso il riconoscimento di Israele e l’accettazione della soluzione dei due Stati, perchè non ha voluto e saputo creare di sé quest’immagine tra i palestinesi, tra gli arabi e nell’Occidente?
Perchè dopo Camp David Arafat è rimasto silente?
Perchè in questi anni non ha fatto seguire alla scelta politica anche una conseguente scelta propagandistica o d’immagine tanto da legittimare in molti il dubbio sulla sincerità della sua scelta di campo?

Ha fatto un po’ come Sadat, Arafat: ha creduto che ci avrebbe pensato il futuro.

Non per rimanere al potere, ma per arrivare al potere e cioè per vedere nascere lo Stato palestinese, ha ritenuto indispensabile l’appoggio occidentale, anche al costo di essere sovente accusato di tradimento dai più radicali tra i palestinesi. Proprio quest’accusa fu alla base della condanna a morte decretata contro Arafat dal leader della Jihad, Fathi Shiqaqi […]
Arafat tenta di contenere i danni in termini di consenso interno ricorrendo alla retorica. Nel mondo arabo, e Arafat in questo senso è profondamente arabo, la retorica ha un grandissimo valore. Ma le parole dette in arabo agli arabi hanno un significato sovente diverso da quello che possiamo capire noi. […] In un mondo mediorientale intriso di trappole e radicalismi dire ciò che si pensa non è facile, soprattutto per chi come Arafat deve imporsi sia agli arabi sia agli israeliani.

Io non credo che Arafat sia un mistero, piuttosto una figura tragica, ripercorrendo la sua storia sembra di rileggere cento volte ‘Le mani sporche’ di Jean Paul Sartre. […]
Per capire Arafat, e se si vuole il suo mistero, è però necessario andare un bel po’ indietro nel tempo.

Innanzitutto la nascita. Il leader palestinese ha fatto di tutto, ma proprio di tutto, per non essere identificabile.
Molti si sono interrogati sul suo nome, sul suo luogo di nascita, sulla sua infanzia.

Dove è nato Arafat?

Lui per anni ha risposto di essere nato a Gerusalemme. Fonti ufficiali dell’OLP hanno successivamente autorizzato la teoria di un Arafat nato a Gaza. La verità ancora oggi non si conosce.
Arafat potrebbe essere nato a Gerusalemme, a Gaza, oppure al Cairo, dove certamente ha trascorso parti significative della sua infanzia e dell’adolescenza.
Se fosse stato così, era questa una macchia così grave da giustificare la scelta di negare, di mentire, costruire un alone misterioso intorno al luogo natio del leader palestinese?
Non ci sono dubbi sull’identità palestinese del padre e della madre. Essere nato al Cairo non era un reato!
Il mistero sul luogo di nascita ha autorizzato l’insulso dibattito sul fatto se Arafat sia o non sia palestinese: la narrativa mediorientale è così organica e ideologica che molti, anche sui media occidentali, avrebbero trovato il modo per sostenere che la nascita cairota di Arafat ne faceva un non palestinese.
Tesi ridicole, certo non sufficienti a spiegare l’ostinazione a negare i natali cairoti di Arafat, se così fosse stato.
E allora quale il motivo del mistero?

Forse quello stesso per il quale anche il nome di Arafat è stato avvolto per molti anni dal nebbione più fitto.
Abd el Raouf Arafat al-Qudwa al Husseini suona forse male? No, come certo non era un figlio degenere Abd el Raouf: e allora perchè da quando è tornato a Gaza non risulta essere mai andato in visita al piccolo cimitero dove è sepolto suo padre?

Forse per lo stesso motivo per cui anni fa, da giovane, portava improbabili occhialoni da sole anche nel cuore della notte.
Che poi sarebbe lo stesso motivo per cui non ha mai posseduto un abito diverso dalla divisa verde-oliva che indossa sempre e comunque, insieme all’immancabile keffiah che secondo qualcuno sarebbe piegata sulla fronte in modo da ricostruire il profilo della Palestina.

Insomma, Arafat avrebbe avvertito o pensato che un popolo senza patria aveva bisogno di un leader che lo impersonasse, e che quindi la sua personalità, la sua individualità direi, doveva essere compressa, scomparire sotto l’immagine dell’uomo simbolo.

Danny Rubistein è tra i più autorevoli sostenitori della tesi che sto illustrando: Arafat simbolo vivente al punto da cancellare se stesso per simboleggiare il suo popolo, la causa del suo popolo. […]
Sintesi della realtà, dei pregi e dei difetti, delle coerenze e delle contraddizioni palesinesi. Arafat dunque avrebbe compiuto la scelta di non esistere sulle cronache come individuo non per alimentare il mistero su di sé ma per dare attraverso la sua spersonalizzata figura un volto unico ai palestinesi.

Arafat e la sua incapacità di spiegarsi.

Non è un fine oratore. Molti in Occidente sorridono del suo inglese, ma alcuni suoi collaboratori, scherzando, sostengono che l’arabo di Arafat sia peggiore.

Arafat e il sogno di tutta la sua vita.

Ha compiuto un vero grande gesto verso Israele e gli israeliani quando andò in piena notte a rendere visita alla vedova Rabin, poche ore dopo l’assassinio del primo ministro israeliano, e si fece fotografare a capo scoperto.
Arafat senza keffiah o senza berretto militare si è visto soltanto in due occasioni: quando andò pellegrino alla Mecca e quando andò a visitare Leah Rabin, per rendere omaggio alla memoria di suo marito.

Arafat a cui la pace, il sogno di una vita, ha teso la trappola che lo ha distrutto.

Si racconta a Damasco che quando Arafat chiese ad Assad di potergli fare visita per spiegargli il senso e le prospettive dell’accordo di Oslo appena firmato, Assad non si sottrasse.
Lo ricevette, e lasciò che Arafat si sedesse su una delle poltrone antistanti il suo scrittoio per poi dirgli: “Fratello Abu Ammar, ti dispiacerebbe prendere posto sull’altra poltrona?”
“Certo che no, fratello Abu Basil” rispose Arafat, che poi soggiunse: “Posso chiederti per quale ragione?”
“Certamente. Perchè, sai, è su quella poltrona che si sedette Sadat quando venne a trovarmi dopo aver firmato il trattato di capitolazione di Camp David.

(I brani citati nel post sono tratti da Cristiano R., La speranza svanita, ER, 2002, che è un bel libro.)

UPDATE:

Estremisti israeliani fanno festa, alquanto calcisticamente, dopo avere appreso dalla TV israeliana della morte di Arafat.
(Assafir, 11/5/04, via Aljazeerah.info).

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