buonprof.jpg

Io – tanto per essere politicamente corretti – già faccio fatica a capire il senso delle scuole superiori, per certi studenti.
Tipo, chessò, gente di 16-17-18 anni grande, grossa e giallo-crestuta che ci mette cinque anni per farme tre ed ha oggettive difficoltà di apprendimento con tanto di insegnante di sostegno che però non gli hanno impedito di apprendere ad andare in motorino o a rollare una canna – che pure è operazione che richiede della tecnica – e, chissà, potrebbero non impedirgli di apprendere ad aggiustare un rubinetto che perde, un lume che si guasta, il recapito delle pizze a domicilio.
O magari anche a zappare, come diceva l’incompreso prof del film La Scuola e come dico io dopo avere passato due anni a vederla sul serio, la gente che zappa (e che a volte zappa nel pomeriggio dopo essere andata all’università di mattina) e a trovarla di buon umore e in ottima salute e, comunque, più dignitosa (sì, da quando sono tornata dall’Egitto ho sempre ‘sta parola in mente) e più utile alla collettività del tizio giallo-crestuto di cui sopra che, richiamato da una collega causa solita esibizione di mutanda completa, si gira e le risponde: “Ooh, ma lei si è vista?”

Io faccio fatica a capire per quale motivo delle persone debbano passare la loro intera gioventù a fare finta di apprendere italiano, matematica, due lingue straniere, diritto, economia, informatica e chi più ne ha più ne metta quando hanno, appunto, difficoltà di apprendimento e, soprattutto, nessun interesse ad apprendere ‘sta roba che, comunque, è assai improbabile che gli serva anche solo per un attimo quando, finalmente, giungeranno a fine-pena e i cancelli della scuola si chiuderanno per l’ultima volta alle loro spalle e finalmente saranno liberi, anche di cominciare a diventare uomini o donne, a seconda dei casi.
Perché tu li guardi, alcuni, e quello che vedi sono dei carcerati. Dei sequestrati.
Delle persone condannate a sentirsi dire “No, non hai capito, non è così, hai sbagliato, hai fatto male, non hai compreso, no.” per tutta la loro adolescenza, per tutta la gioventù.
Un incubo.
Ma davvero fa bene? Davvero è per il loro bene, questa tortura?
Ma andare a lavorare, scusate, è così disonorevole?
Lavorare con le mani, è davvero un’insopportabile vergogna, un destino a cui sottrarre tutti i nostri giovani, nessuno escluso?
Ma perché?
Perché sono italiani, perché gli italiani certi mestieri non li vogliono più fare, perché a pulire le scale del mio palazzo c’è un filippino che ha la stessa età del giovane biondo-crestuto e anche più soldi in tasca, giustamente, e poi dice che questi vengono a portarci via il lavoro ma le scale del mio palazzo chi le dovrebbe pulire, scusa, se quello là è in classe a gambe larghe e mastica la cicca e mi dice: “No, non ho studiato, tanto io non capisco” e passa così le sue giornate in una scuola dello Stato pagata anche con le tasse del filippino che ci pulisce le scale?

Io, insomma, già faccio fatica a capire questo, specie quando ho le palle girate come adesso.

Poi arrivano le colleghe e pretendono di farmi capire anche dell’altro.

Tipo: simpatiche, le due di oggi, ed eravamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda, si chiacchierava con piacere di stampa, informazione, varia umanità e anche della nostra scuola e loro facevano qualcosa che non ho capito ma che, in pratica, consisteva nell’individuare i bisogni dei ragazzi, il loro vissuto, le loro difficoltà e pure il loro immaginario e io chiedevo: “Sì, ma che nome ha questa cosa?” e non me l’hanno saputo dire con esattezza: chiamiamola “pedagogia”, ha detto una.

E dicevano quello che vedo anch’io: che buona parte degli studenti non sa descrivere una scena che ha vissuto, per esempio, o non saprebbe fare il resoconto della sua giornata, non è in grado di mettere in ordine una catena di eventi e non parliamo di organizzare un ragionamento.
Così stanno le cose.
E poi ho chiesto cos’era questa faccenda dell’immaginario, a cosa si riferivano.
“Io, per esempio, mi occupo di capire come si vedono loro, che percezione hanno di se stessi” ha detto una.
“E come si vedono?” ho chiesto io.
“Oh, hanno un grande complesso di inferiorità, si sentono di serie B. Rispetto a quelli dei licei, pensano di essere degli scarti.”
“E come intervenite?” ho chiesto.
“Ah, sai, per esempio li abbiamo portati all’università. Molti di loro non avevano intenzione di proseguire gli studi, così abbiamo organizzato un’uscita e gliel’abbiamo fatta vedere, l’università. E, così, molti hanno cambiato idea.”

E mi hanno sorriso, contente.

Ho dei movimenti involontari nelle braccia, mentre lo scrivo.
Come dei tic.
E, no, non è buffo.