Io – tanto per essere politicamente corretti – già faccio fatica a capire il senso delle scuole superiori, per certi studenti.
Tipo, chessò, gente di 16-17-18 anni grande, grossa e giallo-crestuta che ci mette cinque anni per farme tre ed ha oggettive difficoltà di apprendimento con tanto di insegnante di sostegno che però non gli hanno impedito di apprendere ad andare in motorino o a rollare una canna – che pure è operazione che richiede della tecnica – e, chissà, potrebbero non impedirgli di apprendere ad aggiustare un rubinetto che perde, un lume che si guasta, il recapito delle pizze a domicilio.
O magari anche a zappare, come diceva l’incompreso prof del film La Scuola e come dico io dopo avere passato due anni a vederla sul serio, la gente che zappa (e che a volte zappa nel pomeriggio dopo essere andata all’università di mattina) e a trovarla di buon umore e in ottima salute e, comunque, più dignitosa (sì, da quando sono tornata dall’Egitto ho sempre ‘sta parola in mente) e più utile alla collettività del tizio giallo-crestuto di cui sopra che, richiamato da una collega causa solita esibizione di mutanda completa, si gira e le risponde: “Ooh, ma lei si è vista?”
Io faccio fatica a capire per quale motivo delle persone debbano passare la loro intera gioventù a fare finta di apprendere italiano, matematica, due lingue straniere, diritto, economia, informatica e chi più ne ha più ne metta quando hanno, appunto, difficoltà di apprendimento e, soprattutto, nessun interesse ad apprendere ‘sta roba che, comunque, è assai improbabile che gli serva anche solo per un attimo quando, finalmente, giungeranno a fine-pena e i cancelli della scuola si chiuderanno per l’ultima volta alle loro spalle e finalmente saranno liberi, anche di cominciare a diventare uomini o donne, a seconda dei casi.
Perché tu li guardi, alcuni, e quello che vedi sono dei carcerati. Dei sequestrati.
Delle persone condannate a sentirsi dire “No, non hai capito, non è così, hai sbagliato, hai fatto male, non hai compreso, no.” per tutta la loro adolescenza, per tutta la gioventù.
Un incubo.
Ma davvero fa bene? Davvero è per il loro bene, questa tortura?
Ma andare a lavorare, scusate, è così disonorevole?
Lavorare con le mani, è davvero un’insopportabile vergogna, un destino a cui sottrarre tutti i nostri giovani, nessuno escluso?
Ma perché?
Perché sono italiani, perché gli italiani certi mestieri non li vogliono più fare, perché a pulire le scale del mio palazzo c’è un filippino che ha la stessa età del giovane biondo-crestuto e anche più soldi in tasca, giustamente, e poi dice che questi vengono a portarci via il lavoro ma le scale del mio palazzo chi le dovrebbe pulire, scusa, se quello là è in classe a gambe larghe e mastica la cicca e mi dice: “No, non ho studiato, tanto io non capisco” e passa così le sue giornate in una scuola dello Stato pagata anche con le tasse del filippino che ci pulisce le scale?
Io, insomma, già faccio fatica a capire questo, specie quando ho le palle girate come adesso.
Poi arrivano le colleghe e pretendono di farmi capire anche dell’altro.
Tipo: simpatiche, le due di oggi, ed eravamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda, si chiacchierava con piacere di stampa, informazione, varia umanità e anche della nostra scuola e loro facevano qualcosa che non ho capito ma che, in pratica, consisteva nell’individuare i bisogni dei ragazzi, il loro vissuto, le loro difficoltà e pure il loro immaginario e io chiedevo: “Sì, ma che nome ha questa cosa?” e non me l’hanno saputo dire con esattezza: chiamiamola “pedagogia”, ha detto una.
E dicevano quello che vedo anch’io: che buona parte degli studenti non sa descrivere una scena che ha vissuto, per esempio, o non saprebbe fare il resoconto della sua giornata, non è in grado di mettere in ordine una catena di eventi e non parliamo di organizzare un ragionamento.
Così stanno le cose.
E poi ho chiesto cos’era questa faccenda dell’immaginario, a cosa si riferivano.
“Io, per esempio, mi occupo di capire come si vedono loro, che percezione hanno di se stessi” ha detto una.
“E come si vedono?” ho chiesto io.
“Oh, hanno un grande complesso di inferiorità, si sentono di serie B. Rispetto a quelli dei licei, pensano di essere degli scarti.”
“E come intervenite?” ho chiesto.
“Ah, sai, per esempio li abbiamo portati all’università. Molti di loro non avevano intenzione di proseguire gli studi, così abbiamo organizzato un’uscita e gliel’abbiamo fatta vedere, l’università. E, così, molti hanno cambiato idea.”
E mi hanno sorriso, contente.
Ho dei movimenti involontari nelle braccia, mentre lo scrivo.
Come dei tic.
E, no, non è buffo.
bioro76
Io non ero giallo crestuta, ero semplicemente costretta da dei genitori che mi credevano incapace a determinati studi a seguirne altri, che detestavo. Frequentavo l’istituto di ragioneria, che per la foggia e per il numero elevatissimo di studenti era detto “Alcatraz”. Che ad una che a 13 si mette a studiare il latino per conto suo, ragioneria proprio non gliela devi imporre. Me la sono cavata solo con una materia “di indirizzo” a settembre alla fine del terzo e del quarto anno. La rivincita l’ho avuta alla maturità. Sì, ho sbagliato il compito di economia aziendale, però… sentire il presidente di commissione che nel salutarmi disse ad alta voce: “Signorina, mi permetta, ma lei ha proprio sbagliato scuola!” non ha avuto davvero prezzo!
PaoloB
Disclaimer: contiene consigli non richiesti, dati da una persona che conosce pochissimo il mondo dell’insegnamento.
Perchè non provi a seguire quello che dicono le tue colleghe ?
I tuoi allievi non si impegnano perchè non pensano di riuscire. E non riescono perchè non si impegnano.
Prova ad abbassare l’asticella. Non fargliela vivere come una punizione, ma come un tentativo di salire il primo gradino di una scala.
Che ne dici ?
lia
Ho scritto il post qui sopra che ero fuori dalla grazia di Dio.
Ero appena tornata da scuola, avevo giusto il tempo per mangiare e poi dovevo tornarci e, intanto, avevo assoluto bisogno di scrivere perché sennò mi sarei messa a parlare da sola, gesticolando in mezzo alla stanza.
Meglio scrivere un post.
E poi ho bruciato il pranzo.
Ne interrogo uno, oggi: uno particolarmente aggressivo, sfidante, difficile.
Incredibilmente, ha chiesto al collega di aiutarlo a prepararsi. Incredibile, davvero, ché fino a ieri era guerra aperta.
Ed ora è lì, atterrito, che ha tre parole in mente e me le vuole dire.
“Dimmi: il commercio con un paese estero può assumere due forme. Quali?”
Lui mi fissa con gli occhi sgranati ma non manda segnali di aggressività, non lancia il solito messaggio muto di “Vaffffanculo!” Sta solo pensando.
E il collega lo aiuta: “Imp…impo…”
“Importazziòn!” esala lui, guardandomi speranzoso.
“Sì, esatto! E l’altra?”
E il collega: “Esp… espo…”
“Esportazziòn!”
“Oh, esatto! Bene!”
E sono contenta sul serio, il che è pazzesco.
E gli metto un voto di incoraggiamento senza esagerare ma, come dire, lasciando i giochi aperti, ché mi pare che abbiamo inaugurato una tregua.
Ma poi penso: cosa ho incoraggiato, esattamente, col mio voto di incoraggiamento?
Il fatto che stia recedendo nel giochino della sfida. Che rientri nei ranghi. Che accetti le regole del gioco.
E il gioco è che lui, a 18 anni, si metta lì a dire “Importazziòn, esportazziòn” , chissà perché, e che io gli certifichi, dopo molti studi e molte abilitazioni e molta gavetta e molte carte e molti calcoli, che lui ha raggiunto gli obiettivi.
In realtà, “importazziòn-esportazziòn” è come dire “Viva il Duce!” o “Padre Nostro!”: il punto è che stai rientrando nei ranghi.
Ero lì, sopraffatta dalla mancanza di senso del tutto, quando mi arrivano queste due a parlarmi dell’università come se fosse un bene un sé, una terapia per l’autostima, l’ennesimo spazio per prolungare anche dopo la maggiore età questo strazio infinito, questa follia.
“Li convinco a iscriversi è questo è un Bene. E’ il Bene.”
Eccerto, lo sappiamo.
Hai voglia, quando fai esami all’università, a chiederti da dove diavolo sbuchi questa gente che ogni anno è più improbabile, più pazzesca.
Perché lì ti ritrovi con le stesse dinamiche, poi. Uguali.
Ci sarebbe tutto un corso, un programma, dei libri da studiare, delle cose da sapere.
In teoria.
In pratica, tu sei lì e contempli per la decima volta il tizio che, per la decima volta, sta lì che si spreme, maciulla il kleenex, ti guarda supplicante e tu gli fai: “Imp… impo…” e lui: “Importazziòn!”
Uguale, stessa cosa.
Il mio vero, grande problema è che mi trovo male con i non-detto, con le verità implicite che smentiscono quelle esplicite.
E’ un problema caratteriale, cheddevofa’.
Il punto qual è? Che io devo fare finta di insegnare, loro devono fare finta di imparare e, tutti insieme, alla fine avremo passato il tempo in qualche modo.
Ok, va bene.
Ma perché non ce lo diciamo chiaramente?
Perché ce lo dobbiamo sussurrare nei corridoi?
Cos’è questo complotto planetario su cui dobbiamo mantenere il silenzio?
Perché una, poi, si sbaglia e pensa di dovere insegnare per davvero quelle altre cose lì e, chiaramente, finisce con due ulcere e l’esaurimento nervoso.
Quando basterebbe dirlo: mettiamo l’avvertenza sotto i programmi (“Questo programma è finto: alla fine dell’anno i ragazzi dovranno sapere dire ‘Importazziòn'”) e amen, non perdiamo tempo.
Smettiamola di esaurirci.
Coltiviamo margherite in classe.
Organizziamo piccole rappresentazioni di ballo, sedute di make up.
No?
No.
Ok, sono nervosa.
Deve essere l’impatto.
Lo so: è tutto più complicato di così (dio, che mal di pancia) e poi ci sono le strategie, gli interventi, i percorsi personalizzati, un mare di roba con cui sollazzarmi.
E sarà meglio che mi sbatta da subito, sai?
Ché qui quest’anno sarà un delirio, altrimenti.
Perché dopo D’Onofrio… no, dio, imbavagliatemi.
Se parlo di D’Onofrio e successori passo direttamente all’ululato.
E perché io non so cos’abbia, la mia materia, ma mi ritrovo puntualmente preceduta da colleghe che, dio sa come, mettono i 7 e gli 8 come se piovesse a chiunque e io, giuro, insegno da non so più quanti anni e non ho MAI capito come facessero, queste qua, a mettere ‘sti 7 e ‘sti 8.
E’ tipico della mia materia, proprio. Ai colleghi succede meno, è una sfiga tutta mia.
E poi vaglielo a spiegare, alle mamme, come mai il pargolo che aveva 8 l’anno scorso si ritrova il 3 quest’anno.
Spiegaglielo tu.
Mai.
Non lo capirò mai, come facciano.
Perché, dico, è una lingua che ha una logica. In cui le cose funzionano in un modo e non in altro.
Se un verbo fa così, non fa colà.
E se il pargolo non lo sa, ‘sto verbo, tu mi spieghi come hai fatto a dargli 8??
Come, perdio???
Dimmelo, fammi felice.
Io non desidero altro che saperlo, ché gli voglio dare 8 pure io e vivere serena.
Dimmelo.
Ti do dei soldi, se me lo dici.
(Ok. Forse adesso mi sono sfogata. Ho anche mangiato furiosamente un cannolo, mentre scrivevo. Mi sento meglio. Domani attivo il corso di recupero pomeridiano.)
E sennò, c’è sempre lo Sportello Ascolto per docenti colpiti da Burn-Out.
http://www.orizzontescuola.it/modules.php?name=News&file=categories&op=newindex&catid=33
paniscus
Lia, la questione non è poi complicatissima: l’idea di base è che il concetto lineare della nostra adolescenza, o delle generazioni ancora precedenti, secondo cui esistevano due possibilità, quella di continuare a studiare o quella di andare a lavorare… dicevo, questo concetto non esiste più.
Venti o più anni fa, chi considerava la possibilità di smettere di studiare, aveva chiaro quale fosse l’alternativa: mettersi di buzzo buono a cercare una normale occupazione di operaio, di commessa o di apprendista artigiano, con la prospettiva realistica (magari mica subito, ma dopo qualche annetto di gavetta sì) di essere regolarmente assunto come dipendente fisso, di percepire uno stipendio senza sorprese, e cominciare così un tranquilla routine di persona adulta e responsabile, destinata a durare per tutta la vita.
Adesso, chi ha in mente di smettere di studiare, pensa che l’alternativa sia stare a cazzeggiare tutto il giorno alla playstation o al bar, aspettando che qualcuno venga a a offrirgli il lavoro spontaneamente, e imprecando rassegnati che se non succede non è colpa loro e non possono farci niente.
Nel migliore dei casi, troveranno qualcosa di precario, occasionale e sgretolato, e crederanno di potersela cavare con quello. Ma non sarà il tranquillo impiego di garzone o di commessa dei loro padri o fratelli maggiori, bensì un frammentatissimo lavoretto fasullo del mondo globbbale del terzo millennio: qualche turno di risposta al call center ogni volta per un prodotto diverso, qualche ora di distribuzione di volantini ogni giorno per una ditta diversa, contratti finti, finte collaborazioni, nessuna garanzia, nessun diritto, nessuna tariffa sindacale, pagati a forfait, pagati in ritardo, qualche volta non pagati affatto, perché nell’arco di un mese il finto imprenditore ha già chiuso l’agenzia per aprirne un’altra.
Con questi presupposti, non mi stupisce che l’alternativa, in testa, non ce l’abbiano proprio. E che i genitori stessi, per quanto disgraziati, sfasciati e inconsapevoli, siano i primi a spingerli ad andare a scuola anche a non fare assolutamente nulla, ma almeno andarci, perché per loro è una preoccupazione in meno.
Che deve pensare, del destino del figlio giallocrestato e pluriripetente, un operaio licenziato a cinquant’anni che adesso per campare fa il facchino al nero al mercato ortofrutticolo, o una mamma separata che lava le scale nei condomini tutto il giorno? Un classico: “Lo so, lo so che non combina niente, ma è sempre meglio che a scuola ci venga lo stesso, così almeno la mattina so dov’è!” Quando l’alternativa era la fabbrica, o la bottega di parrucchiera, c’era una bella differenza. Ma adesso l’alternativa è il muretto, il centro commerciale o la distribuzione di opuscoli in piazza.
ciao
Lisa
aitan
Non non è buffo, non è affatto buffo.
E credo, cara Lisa, che sia il caso di chiedersi perché questo concetto lineare “secondo cui esistevano due possibilità, quella di continuare a studiare o quella di andare a lavorare” non esiste più per i figli degli italiani, che rubano braccia all’agricoltura, ma continua a esistere per i figli dei filippini, che magari potrebbero avere agili cervelli sottratti alla scuola.
Perché facciamo credere ai nostri figli che l’alternativa allo studio sia “stare a cazzeggiare tutto il giorno alla playstation o al bar, aspettando che qualcuno venga a a offrirgli il lavoro spontaneamente” (o immeritatamente)?
Forse a scuola dovremmo cercare di capire i veri bisogni formativi, le necessità primarie, non i desideri contingenti di gruppi di giovani mal educati da famiglie e televisioni di stato. Dovremmo aiutarli ad avere spirito critico, ad orientarsi…, orientarsi anche per aiutarli a svolgere un lavoro dignitoso confacente alle loro reali capacità e competenze; senza stare lì ad alimentare il mondo delle illusioni.
(Va be’ forse oggi sono anch’io un po’ incazzato per i mei alunni che se ne restano in parcheggio fuori la scuola dicendo che stanno a manifestare contro non sanno cosa, quando dentro, col beneplacito della preside, offriamo loro la possibilità di analizzare la riforma Moratti e capire qualcosa su quanto si sta preparando per il loro futuro)
rotafixa
(gurp)
sto mangiando mentre ti scrivo (non voglio dire cosa, ma è superbo)
ciò che mangio viene da una gita, ieri, con la mia figlia maggiore. siamo capitati a bracciano, io volevo andare a sutri. ho sbagliato treno.
l’idea, sottoposta a greta, era la seguente: andiamo in un posto qualsiasi.
lei dice scintillante: sì!
lo racconta a tutti.
io invece, vecchio verme, avevo in mente una meta: montefiascone, dove avrei dovuto provare una bici stranissima.
ma non volevo dirglielo…
poi la giornata dopo è andata altrimenti: siamo andati lei ed io a comprare delle assi per la ciclofficina, in bici, e il ritorno è stato cmomplesso, dato che pesavano sette madonne e dovevo anche dare retta a lei che stava dietro su lucia nera, ti ricordo che non vado con i freni. quindi un’avventura esilarante, con lei che mi dava consigli, io che le dicevo stai zitta chennesaitu e lei che ribatteva se sei così scemo da andare in bici così sono fatti tuoi e io che ridevo ma non dovevo, dovevo farla tacere ma era impossibile.
comunque perdiamo il treno, evento da lei pronosticato e da me smentito fino all’amara verità, detta a capo chino:
“abbiamo perso il treno.”
“te l’avevo detto, ìo”
“lo so….”
vabbè si cambia mèta: si va a sutri, a comprare il lonzino in quel posto lì. ok? ok.
acquisto i biglietti per capranica-sutri, bici al seguito.
sbagliamo treno (sbaglio treno).
quindi si va a bracciano, dove il treno va: “c’è il lago, era una sorpresa!” dice papà.
“…”,
non dice greta. ma è contenta.
andiamo e facciamo, tra le varie cose acquistiamo dei prodotti fresci di norcineria che ora sto mangiando.
(abbia pazienza, lia, ci arrivo. e sappi che a me non piace scrivere a lungo)
si ritorna.
sul treno, dietro a noi, ci sono quattro ragazzi evidentemente di secondaria. parlano delle materie, dell’orario di ingresso, insomma sono della secondaria.
ma erano così carini; così spiritosi; così reattivi; così amici con spunti di voglia sessuale (erano due maschi e due femmine); così dolci e salati e le donne erano belle, e i maschi erano belli, e parlavano con rilassatezza e fuoco d’intelligenza; erano così amabili; e io li ascoltavo deliziato, e pensavo ai tuoi racconti e agli altri racconti di devastazione, e pensavo: ora mi alzo e li abbraccio.
ci sono
ci saranno sempre.
poi non li ho abbracciati perchè ho dovuto far tacere un vecchio che rimproverava greta perchè saltellava di qua e di là: e quando l’ho fatto tacere lei mi ha detto sottovoce “bravo papà”, e poi si è girata verso il vecchio e gli ha detto “io sono una scimmietta! prrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr” e gli ha fatto un pernacchione che tutti ridevano e io ho dovuto dirle tra le risate ” no amore! quesppppffff.. non si fa!” e i ragazzi delle secondarie ridevano.
ci siamo ancora, lia.
calma.
paniscus
Cara Lia,
mi consola sentir fare da una collega di materie umanistiche le stesse considerazioni che ho sempre fatto io a proposito di matematica e fisica, e che credevo sinceramente che dipendessero dalla tipologia di materie.
L’idea di base è questa: negli ultimi dieci o dodici anni TUTTO, nella società attuale, nella legge, nelle direttive ministeriali, nel comportamento dei presidi e nelle consuetudini introiettate dalla maggioranza dei colleghi, e nelel aspettative delle famiglie, è andato sempre di più in una sola direzione:
“Rendete le cose più facili possibili, tagliate i programmi, riducete l’approfondimento, semplificate, insegnate poco, comunicate poco, pretendete poco, e date una marea di voti alti a tutti senza remore, che tanto non costa niente e tutti sono più contenti”.
Questo, con alcune materie si può fare più facilmente che con altre. Nel senso che in una materia fluida, discorsiva, qualitativa, è più semplice da realizzare. Per certe discipline, per esempio letteratura o filosofia o storia, se l’insegnante è bravo è perfino possibile abbassare drasticamente il livello di approfondimento, ma continuando a fare BENE quel poco che si fa.
Per le mie materie, proprio no. Si possono dare meno esercizi, si possono dare esercizi più facili, si possono trascurare alcuni argomenti minori, ma non esiste materialmente il modo di attenuare il rigore richiesto: il rigore è quello, punto e basta. Anche se si danno esercizi sempre più facili… quando uno ti scrive che due più due fa cinque, o che l’accelerazione di gravità va in su, resta uno sfondone grave esattamente quanto era grave prima, al tempo degli esercizi difficili. E tu non puoi far altro che considerarlo un errore grave, e valutarlo di conseguenza.
La matematica e la fisica restano quindi le uniche materie selettive: le uniche in cui un compito può andare male a tutti in massa “nonostante la classe nel complesso sia positiva”, o in cui può beccarsi un 4 anche qualcuno che ha 7 in tutte le altre materie.
E quindi, regolarmente, scatta il tormentone che è colpa dell’insegnante, che non è possibile che una classe così buona abbia tutte queste insufficienze solo in matematica, e che sono io che sbaglio, perché non mi sono ancora tarata sulle aspettative generali, e pretendo troppo.
La norma è vedere che tutti gli altri rifilino 8 e 9 come se piovesse… e quelli strani siamo noi, a ritenere che sbagliare un quadrato di binomio, o confondere l’imperfetto con il passaro remoto, sia un errore lapidariamente degno dell’insufficienza, anche se è un errore solo.
Adesso mi rassicura vedere che gli stessi identici ragionamenti li fa qualcuno che insegna tutt’altro.
Sarà l’esperienza precedente di ricerca universitaria?
Sarà il fatto di aver passato qualche anno ad applicare nel lavoro di tutti i giorni quello che adesso si insegna, invece di averla considerata fin dall’inizio “una cosa che si impara solo per insegnarla”?
Sarà la passione genuina per la bellezza di quello che si insegna?
Boh.
Sta di fatto che noi siamo portatrici di un altro modo di lavorare.
Sempre più raro.
saluti
Lisa
paniscus
Per Aitan.
Tu dici:
“…E credo, cara Lisa, che sia il caso di chiedersi perché questo concetto lineare “secondo cui esistevano due possibilità, quella di continuare a studiare o quella di andare a lavorare” non esiste più per i figli degli italiani, che rubano braccia all’agricoltura, ma continua a esistere per i figli dei filippini, che magari potrebbero avere agili cervelli sottratti alla scuola…”
Ma a me sembra di essermelo GIA’ chiesto,e che le possibili risposte non siano difficili.
La prima che mi viene in mente è questa: perché il tenore di vita e il potere d’acquisto, nelle diverse società, sono troppo diversi. Per il giovane filippino, quello che si può guadagnare lavando le scale nei condomini di un paese del mondo ricco, è abbastanza per mantenere un’intera famiglia in patria e per costruirsi la casa per quando si tornerà. Per il giovane italiano, quell’incasso non basta nemmeno a pagarsi, che so, qualche vestito, o una bolletta telefonica, figuriamoci a pagarsi la casa o a mantenersi da solo.
saluti
Lisa
Bruno
Una curiosità: ma qualcuno glielo dice agli studenti (e ai relativi genitori) che certi voti sono d’incoraggiamento e altri no?
Perché un’insegnante può mettere un 8 d’incoraggiamento, o livellato agli standard della classe o della scuola, o dettato dalle scelte ministeriali, e allo stesso modo può mettere un 3, se ci tiene a fornire una valutazione strettamente legata alla preparazione, se lo studente quel giorno gli sta sulle palle, se è uno bravo che prende sempre 8 e che quel giorno non ha studiato (e magari il suo compagno scarso con una prestazione analoga si becca il 6 o il 7 d’incoraggiamento)…
Il problema dei voti è che essi sono teoricamente un giudizio individuale sulla preparazione in una data materia, ma in pratica vengono usati anche per scopi didattici, dettati sia dalla situazione individuale dello studente che dai climi di classe, d’istituto e finanche dalle scelte politiche provenienti “dall’alto”.
Di tutti questi meccanismi, questi “giochi” come li chiami tu Lia, spesso genitori e studenti sono inconsapevoli, e credo che sia anche per questo che nascono i contrasti, i muro-contro-muro: le due parti parlano linguaggi diversi, a maggior ragione se gli insegnanti sono tanti, ognuno con una sua politica: la confusione aumenta ancora di più, sia tra gli insegnanti stessi, sia soprattutto tra gli studenti e i genitori, che giocoforza saranno portati a distinguere tra insegnanti “buoni” e “cattivi”.
Bruno
E aggiungo: non puoi paragonare gli studenti che avevi in egitto con quelli che hai ora: in egitto avevi (se non ho capito male) studenti universitari e che quindi bene o male avevano fatto una scelta e che si presume fossero motivati a imparare; qui ti trovi con ragazzi che in massa vengono spalmati tra i vari istituti e che, sostanzialmente, non hanno fatto una vera e propria scelta e di conseguenza la loro motivazione è quella che è.
paolo27
Io (che non si dovrebbe cominciare una frase così, lo so) penso che tu sia sulla buona strada. L’impatto mi sembra che sia stato abbastanza duro, ma ti fai delle domande, reagisci, cerchi di trovare delle risposte che spesso non ci sono, o cambiano continuamente. Vivi con partecipazione il tuo lavoro, con passione, con orgoglio, direi.
Si, sei sulla buona strada, e aiuterai quelli che potrai aiutare.
E dimmi se non è vero che questi ragazzi cresciuti male o affatto in fondo ti commuovono. Anche quando vorresti bruciarli col napalm.
Questo post, e il commento più sopra, a me dicono che sei una bella persona.
Mitilene
Diciamocela, la verità. Tutta ‘sta gente sta a scuola e non la si boccia, perchè se no si assottigliano le classe e noi perdiamo le cattedre. E loro lo hanno capito.
E non è per niente buffo, naturalmente.
lia
Rotafix: bella la cronaca e bella Bracciano. Ci andai anni fa a trovare un amico che ci viveva e mi hai fatto venire voglia di tornarci.
Lo so, che ci sono un mucchio di bei ragazzi, “dolci e salati”.
Guarda questa: http://bruegel.clarence.com/
Me la ricordo in classe e, quando leggo i suoi post, mi pare di vederli a forma di fumetto sulla testa della tizietta lì al quarto banco, fila di destra.
La scuola è un mondo e, a me, il mondo piace.
Saluti alla scimmietta. :)*
Lisa: sì, il fatto che non siano cose che “si imparano solo per insegnarle” mi pare determinante. Tu le insegni perché ti pare che farlo abbia un senso e, quando ti ritrovi col mondo che dice “Mannò, devi solo fare finta!” ti senti non solo clamorosamente svilita ma, anche, parecchio ladra nei confronti degli studenti, ché le cose di cui li privi ti sono chiarissime.
Poi, certo: una è talmente convinta di stare insegnando cose bellissime – ma, soprattutto, cose che basta cogliere il bandolo per illuminarsi è il bandolo è lì, perché diamine non lo vedono? – che proprio non se ne fa una ragione. Più i ragazzi sono piccoli, meno te ne fai una ragione.
(Con l’italiano mi succedeva molto meno. Devo rifletterci.)
Paolo: a insegnare senza partecipazione si rischia seriamente l’equilibrio, credo. E poi è proprio tecnicamente difficile. Solo che, fuori da scuola, le angosce dei prof sono ignote ai più.
Miti: vero. Però ai prof qualche colpo gli scappa comunque. Ai presidi no, beati loro. :)
Aitan: ti saccheggerò il blog, credo. ;)
lia
Sì, Bruno: un voto di incoraggiamento (che non può certo essere 8 ma, semmai, è 5 e mezzo) viene spiegato con tanto di indicazioni su come raggiungere gli obiettivi verso cui stai incoraggiando.
Poi, sul discorso generale, hai stra-ragione. Il fatto che i voti si ritrovino a esprimere più categorie come bontà, comprensione, affetto, punizione o premio che l’effettiva misurazione della preparazione raggiunta, è ciò su cui diventiamo matti tutti quanti.
old
Lasciate perdere l’artigianato..le mani vanno collegate ad un cervello,non uno qualsiasi.
Per zappare si va in avanti o indietro?
Quando arrivano i ragazzi chiedono quanto è la paga,le ore di lavoro e le ferie.
Di quel che si fa chi se ne fotte.
Ho scritto in altro luogo di un disoccupato che non capiva perchè non venisse assunto dal momento che aveva un’esperienza di 4 anni in DIVERSI lavori.
Nonostante tutto io incontrato ragazzi meravigliosi pieni di domande.Sono anche sicuro che la mancanza di diplomazia della nostra esimia proff stroncherà molte delle resistenze che racconta.
Ho deciso che riprendo fuori la mia Bianchi nera coi freni a bacchetta.
Non ha la ruota fissa ma sono sicuro che l’aria ed il movimento mi miglioreranno ulteriormente.
Bravo rotafixa.
old
AMACA 2
Piccola storiella esemplare.Facendo ricorso ai residui scampoli di autorità paterna,costringo mio figlio tredicenne a consegnarmi il telecomando:basta werstling, il mondo è una cosa seria,adesso vediamo il telegiornale.Capitiamo sul Tg2 delle 13,già in avanzato stato di decomposizione,mentre sta dando la seguente notizia:uno dei concorrenti dellisola dei famosi ha la cacarella.Segue filmato.Mio figlio,trionfante,deride(con piena ragione) il padre citrullo che voleva ricondurlo alle pubbliche responsabilità del cittadino informato.Siamo tornati precipitosamente sul werstling:in confronto al Tg2,è un vero e proprio Parnaso delle arti e della cultura.
Morale:a 13 anni si è perfettamente in grado di valutare (con spregio) un mondo degli adulti che maneggia la diarrea di una figuretta televisiva come fosse una notizia.Non ho avuto bisogno di spiegare a mio figlio che,pur facendo anchio il giornalista,in genere non mi occupo di merda.Lo sa.Ma sa anche che,precocemente,che il mondo adulto nel suo complesso secerne una tale quantità di compiaciuta idiozia,e di servilismo acritico,da non essere in grado (sempre nel suo complesso) di esercitare una decente pedagogia.Il problema non è che non ci siano più maestri.Il problema è che abbiamo trasformato la cattedra in una parodia.
Il babbo è Michele Serra.
Tutto sta a capire se i ragazzi sono delusi o se sono già il frutto di questa situazione.
Vorrei la prima.
rotafixa
grazie
perché?
VogliadiTerra
Mondo complicato
A mandare a zappare i giovani che intasano le scuole sarebbe anche la cosa giusta nel loro stesso interesse e il contadino assicura che in campagna il lavoro non manca per nulla. Ma ecco, siamo gi? al primo problema: Il lavoro ci sarebbe dappertutto ? …
old
Per tanti motivi.
M’è venuto spontaneo.
Forse per il tuo rapporto con lei,per la tua disponibilità,la tua giovinezza.
Per come e cosa scrivi…
Prenditelo il “bravo”…..meritatissimo.
Ciao
lia
“La mancanza di diplomazia dell’esimia proff” è un modo carino di avvisare che temi che me li mangi crudi col sale, Old, che ti conosco. :)))
old
Le persone sensibili sono passate attraverso il dolore.
Capì…..
rotafixa
e allora grazie2
per zappare si va indietro
e mi è venuta un’idea: un corso di zapping.
(tempo fa un amico arricchitosi con l’inglesizzazione dei termini mi ha confidato che se aggiungi un suffisso anglico alle cose più normali la ggente te ce viene)
tipo soft zapping, eventualmente da graduare fino a hard zapping. in mezzo aerozapping.
la ciclocentrale (cfr http://www.ciclofficina.org) ha intorno un parco semiabbandonato, che cresce da sè. vorrei portare un po’ di persone a zappettare e rastrellare il loco (no spagnolo pls) come attività domenicale.
intanto ci parte improvvisamente il corso di MeKaNo (vedi syto)
forse lo trasformo in HardMeKaNo
(che scemi che sèmo)
old
Come sono le tue tagliatelle?
Tu stai spazzando ben oltre la tua porta………
Io credo che le terminologie da regione a regione mutino di significato.
Fare zapping con zappa non è sinonimo di vanghing con vanga……..
Due cose e due tecniche.
Pensaci bene,hai un’altra possibilità….
Per zappare si va avanti o indietro?
E per vangare?
Per restare in tema 5 e 1/2 di incoraggiamento.
Somigli ad un certo Mario di Pennabilli…….riCICLAtore artistico.
rotafixa
ahò, io quando zappetto vado indietro. così ho visto fare a mio nonno, che io ricordi.
e per vangare (aerovanghing) si va in avanti.
quant’ho ppreso?
e daje su, me dia n’ajutino, che sto in squadra e i pomeriggi m’alleno per il campionato, domenica annamo a giocà a rovigo…
faccio un’ottima pasta artigianal, che ho battezzato “i porc***o del mulino marrone”, trattandosi di maltagliati veramente maltagliati, erti e gustosi sotto i denti. faccio anche il pane, generalmente con la farina di grano duro.
old
Preso poco poco.
Ti risento dopo i tuoi impegni.
Studia.
Anch’io ho fatto il pane in un vecchio forno di mattoni portato al color bianco.
Buonissimo..talmente buono che non è arrivato sulla tavola.
Ciao
avi
Cara Lia come non darti da ragione ? Anch’io sono un insegnante e mi trovo a dover combattere quotidianamente con allieve che non apprezzano il lavoro che facciamo in classe. Il fatto è che manca loro in generale il senso del vivere non solo nello specifico il significato del perché si viene a scuola.
Purtroppo combatter contro questa assenza di senso ha un che di donchisciottesco soprattutto da parte di un insegnante: i loro veri maestri sono la televisione e le immagini di successo con cui essa innonda il mondo.
non sono d’accordo con chi dice che solo la matematica e la fisica hanno il rigore per dimostrare agli studenti che non hanno ancora appreso a utilizzare gli strumenti. anche in inglese, la mia materia, posso creare test di natura esclusivamente oggettiva e dare quindi valutazioni che non hanno nulla di personale.
qualcosa che mi sembra da te sottovalutato è l’aspetto della scuola di massa: non tutti potranno avere le capacità per arrivare a certi livelli vuoi in matematica vuoi in inglese ma anche in storia o in filosofia o in informatica. molto più utile sarebbe chiedersi se ha senso ancora oggi, visto la complessità delle conoscenze e la vorticosa rapidità con cui esse si evolvono costringere tutti gli studenti a studiare tutte le materie a un alto livello. Forse man mano che si prosegue negli studi bisognerebbe permettere agli allievi di scegliere le materie. e allora qui vorrei vedere che cosa succederebbe se diminuissero le cattedre…
non prendiamoci in giro dici tu. e sono d’accordo, ma questo è un paese dove molti hanno studiato francese solo perché c’era la cattedra di francese e si potrebbe continuare con simili esempi.
i voti poi sono un discorso a parte. in un serio sistema educativo un insegnante non dovrebbe valutare i propri allievi ma farli valutare esternamente in base a test compilati da altri, questo sì sarebbe una verifica oggettiva. finché in italia non si supera questo scoglio potremo continuare a prendercela l’un con l’altra con accuse di faciloneria o di spilorceria: sono impressioni soggettive. Io dò 10 non quando lo studente del secondo anno dimostra di sapere perfettamente l’inglese ma quando fa il massimo per il suo livello. le mie colleghe non condividono questa idea e insistono col dire che 10 lo danno solo a chi sa l’inglese come loro. dunque entrambe le posizioni sono soggettive.
ciao e non mollare i tuoi allievi.
Jimpey
;) ..posso parlare da mamma? una mamma anomala, per carità, visto l’andazzo genitoriale che si gratifica della promozione più che della preparazione. però anche consapevole che nessun ragazzo è uguale a un altro. e consapevole che in ogni scuola il risultato dipende dalla sezione in cui lo studente ha la fortuna di capitare, ovvero dal gruppo insegnante e dalla sua capacità di coordinazione e quindi, sì, dalla sua professionalità. non dal nome della scuola.
vi potrei raccontare innumeri esempi, come il ragazzo con un handicap motorio preso ad “amichevoli” botte in testa dall’insegnante di sostegno che, cambiando scuola, è improvvisamente “rifiorito”, appassionandosi allo studio..
poi, dai tempi miei da studente, l’ho vista decadere sempre di più, questa benedetta scuola, e proprio attraverso i miei figli perché per ogni insegnante in gamba purtroppo ce ne sono molti che timbrano solo il cartellino e che non riescono a trasmettere nessun interesse. e già alle elementari è raro trovare un programma portato a termine, con le scuse più svariate, naturalmente.
poi non si boccia più, scambiando la promozione con un premio alla conformità e la bocciatura con un marchio a vita che si va a incidere sul “buon nome” della famiglia, così come il diritto allo studio continua ad essere – nella mentalità – un diritto di censo per “la parte migliore della società” mentre i tempi di apprendimento sono individualmente diversi e questo contribuisce ad un livellamento al basso costante. non a caso hanno preso piede anche al liceo quegli obbrobiosi test a crocette, così comodi per chi li propone.
del resto al sistema servono esecutori, pronti a serrare le fila contro qualsiasi elemento di disturbo. e la scuola degli ultimi decenni li sta preparando indefessa in mezzo alla generale ipocrisia e de-responsabilizzazione.
http://www.gazzettino.it/VisualizzaArticolo.php3?Codice=2661238&Luogo=Udine&Data=2005-11-12&Pagina=3
ora, io non conosco la ragazza protagonista né chi e come a quel gesto l’ha spinta. quel gesto però è frutto del sistema che ci ronza intorno e noto solo che ora verrà probabilmente isolata come compagnia indesiderabile. esattamente come ho visto isolare dai benpensanti il figlio del carcerato o del disoccupato mentre non mancano mai le ore esterofile dedicate alle mediazioni culturali che ci fanno sentire tutti più buoni.
resta che, nella mia visione utopica, la scuola, lo studio, dovrebbero fornire a tutti gli strumenti per un pensiero autonomo, cosa che si guardano bene dal fare salvo che in pochi casi felici [questo non significa accettare spogliarelli in classe naturalmente ma forse un po’ meno di perbenismo scandalizzato non ci starebbe male].
perché il punto d’arrivo non è un diploma o una laurea. quelli sono solo una facilitazione d’inizio. se sono effettivi e non regalati.
..per “old”.. io vango andando indietro. ^__*
Marco
Io – tanto per essere politicamente corretti – già faccio fatica a capire il senso delle scuole superiori, per certi studenti.
Tipo, chessò, gente di 16-17-18 anni grande, grossa e giallo-crestuta che ci mette cinque anni per farme tre ed ha oggettive difficoltà di apprendimento con tanto di insegnante di sostegno.
o faccio fatica a capire per quale motivo delle persone debbano passare la loro intera gioventù a fare finta di apprendere italiano, matematica, due lingue straniere, diritto, economia, informatica e chi più ne ha più ne metta quando hanno, appunto, difficoltà di apprendimento e, soprattutto, nessun interesse ad apprendere ‘sta roba che, comunque, è assai improbabile che gli serva anche solo per un attimo quando, finalmente, giungeranno a fine-pena e i cancelli della scuola si chiuderanno per l’ultima volta alle loro spalle e finalmente saranno liberi, anche di cominciare a diventare uomini o donne, a seconda dei casi.
Perché tu li guardi, alcuni, e quello che vedi sono dei carcerati. Dei sequestrati.
Delle persone condannate a sentirsi dire “No, non hai capito, non è così, hai sbagliato, hai fatto male, non hai compreso, no.” per tutta la loro adolescenza, per tutta la gioventù.
Un incubo.
Ma davvero fa bene? Davvero è per il loro bene, questa tortura?
Abbasso tutti gli insegnati che si credono tanto intellligenti, superiori, colti, PERCHE’ LA VERA INTELLIGENZA STA NEL CUORE.